Paolo Albani
 
I PLAGIARI PER ANTICIPAZIONE:
UN AGGIORNAMENTO

 

In due recenti scritti (1) mi sono occupato, a proposito dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale), dei plagiari per anticipazione, termine coniato nell’ambito dell’esperienza della letteratura potenziale per designare quegli autori che hanno prodotto un'opera in senso oplepiano prima che l’Oplepo, fondato a Capri il 3 novembre 1990, esistesse. In questa sede mi propongo di esporre alcuni aggiornamenti sull’argomento.

Inizio subito con Bernardo Bellini. Chi era costui? Forse qualcuno ricorderà che il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo porta anche il nome di Bernardo Bellini (1792-1876), traduttore di scritti antichi (in questa veste fu impietosamente deriso da Leopardi), tipografo, poeta e drammaturgo, professore di letteratura latina e filologia greca nel Liceo di Cremona. Negli ultimi anni della sua vita, ormai completamente sordo, Bellini venne mandato dall’editore Giuseppe Pomba di Torino a soccorrere Tommaseo, cieco e pieno di acciacchi, nella stesura dello storico Dizionario che dunque, come la salute dei due ci mostra, si sviluppò in condizioni non proprio ottimali. A parte questa valida collaborazione, Bellini merita qui di essere ricordato per un bizzarro testo poetico costruito nel rispetto di una regola ferrea.

Nel 1865 Bellini pubblica L’inferno della tirannide, opera in cui depreca le tristi condizioni dell’Italia assoggettata all’Austria, scritta in occasione del sesto centenario della nascita di Dante. L’impresa del Bellini - definita «mostruosa» da Giampaolo Dossena (2) – consiste nella stesura di XXXIV canti, uguali a quelli dell’Inferno dantesco, mantenendo le stesse rime impiegate dal «divino poeta». Naturalmente, cambiando il soggetto della cantica, cambiano anche i personaggi: così Caronte diventa Radetzky, Paolo e Francesca si trasformano in una coppia torturata dagli Austriaci, il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri vestono i panni di un re di Francia e di un Borbone di Napoli, ecc. Lo stesso procedimento Bellini usa ne Il Purgatorio d’Italia (1865) dove i canti, al pari di quelli danteschi, sono XXXIII. A inizio di ogni canto si trova un riassunto dell’«Argomento» trattato.

Il primo canto de L’inferno della tirannide ha questo argomento: «Un Lombardo, in sul cader della notte, smarrito in un’oscura landa, viene precipitato dentro a un abisso, ov’è una mostruosa torma di Politici Misfatti, che crudelmente e scelleratamente adoperano contro chi aspiri a vera libertà. In quella che pauroso è per cadere in un maggior precipizio, gli compare Dante Alighieri, che il conforta, e gli promette di ricondurlo a’ suoi Lombardi. Gli prenunzia la gloriosa impresa del Re CARLO ALBERTO, che in compagnia degli AUGUSTI SUOI FIGLI si fa campione per l’italico riscatto ecc. ecc.»

I versi con cui si apre questo primo canto sono:

 

                        Non lungi al valicar di nostra vita

                                   Mi ritrovai per una landa oscura,

                                   Sì che ogni lena in cor m’era smarrita.

 

                        Io dell’Italia mia piangea la dura

                                   Servil catena, e il duolo era sì forte,

                                   Che per lei m’inforsava alta paura.

 

                        Cadean l’ombre ognor cupe, e tai di morte

                                   Immagini anzi al mio sguardo trovai

                                   Più che unquanco in Averno altri abbia scorte.

 

                        Nera una man mi pinse, e i’ ratto entrai

                                   Nel gorgo d’un abisso, chè in quel punto

                                   A quell’urto fatal m’abbandonai.

 

                        Indi mi vidi entro a un burrato giunto,

                                   A cui daccosto è una sanguigna valle,

                                   E assiderai tutto d’orror compunto.

 

Per certe rime difficili, come «Pape Satàn, pape Satàn aleppe», all’inizio del canto VII dell’Inferno, Bellini se la cava in questo modo:

 

                        «Pape Satàn, pape Satàn aleppe»,

                                   Urlò Radetzky con la voce chioccia,

                                   Né degli arcani accenti il senso ei seppe.

 

E ancora nei versi 26-30 del canto XXXII cambia le parole dantesche «Osterlicchi», «Tambernicchi» e «cricchi» in «Austerich», «Tabernich» e «crich».

Il primo canto de Il Purgatorio d’Italia si apre invece con questi versi:

 

                        Mentre a correr più queta acqua le vele

                                   Apre la navicella del mio ingegno,

                                   A retro è risospinta in mar crudele.

 

                        In parte a tirannia rifatto regno

                                   Veggio, u’, com’auro in foco, anco si purga

                                   Chi di più trïonfal gloria fia degno.

 

                        Più gigante lo Sdegno oggi risurga

                                   In quanti d’amor patrio ardenti sono,

                                   E ognun folgori e tuoni, e in armi surga.

 

Per Mario Praz l’operazione del Bellini, che merita «un posto d’onore nel museo del cattivo gusto letterario», è un «esercizio proprio da improvvisatore e da prestigiatore»; «dall’anello dantesco», scrive Praz, «il Bellini ha tolto la gemma per incastonarvi un culo di bottiglia». Nonostante queste severe osservazioni, Praz, che per altro confessa di non aver visto Il Purgatorio d’Italia, giudica il rifacimento della Divina Commedia «quasi elegante come un gioco di società» (3).

La vicenda merita un’ulteriore osservazione. Introducendo L’inferno della tirannide Bellini scrive che un professore di eloquenza italiana presso la Sorbona di Parigi, l’illustre Ozanam, ha definito il suo lavoro poetico «sforzo mirabile d’ingegno, per le superate difficoltà e per la spontaneità delle rime che paiono essere del tutto originali». Il giudizio, precisa Bellini, «non fu dato da lui in sul caldo della prima lettura, ma dopo due mesi che tenne presso di sé il manoscritto consegnatogli dall’autore nel 1849, mentr’egli [il Bellini, ndr] dimorò per alcun tempo a Parigi».

Qui nasce un piccolo giallo. L’illustre professore citato da Bellini è Antoine-Frédéric Ozanam (1813-1853), laureato in lettere nel 1839 con una tesi sulla filosofia di Dante, fondatore della Società San Vincenzo de’ Paoli e nel 1997 beatificato da Giovanni Paolo II. Allora, viene da chiedersi, com’è possibile che Bellini abbia gabbato un insigne esperto di Dante, nonché futuro santo? Su questo punto Praz ipotizza che Bellini abbia sottoposto a Ozanam un testo non ancora definitivo dato che alcuni versi de L’inferno della tirannide fanno riferimento, per esempio, a Garibaldi e alla spedizione dei Mille, avvenuta nel 1860, dunque molto tempo dopo il 1849, anno in cui Bellini dice di aver consegnato, quand’era a Parigi, il suo manoscritto a Ozanam.

            Comunque sia, anche se il testo del Bellini fosse stato in fieri nel 1849, resta il fatto che le «rime obbligate» (se non tutte) dovevano essere per forza quelle della commedia dantesca, e rimane un mistero, sempre che il Bellini dica il vero, che Ozanam non si sia accorto dell’espediente definendo quelle rime «del tutto originali», a meno che l’illustre professore francese non abbia dato quel giudizio in modo ironico per prendersi gioco del Bellini, oppure, altra ipotesi, senza in realtà aver letto il manoscritto, prassi non disdegnata in certi casi dai critici letterari sia pure autorevoli.

           

Facciamo ora un balzo in avanti e veniamo ai nostri giorni.

Nel 1967 Gianfranco Baruchello (1924), artista sperimentatore di varie tecniche (disegni, collage, oggetti, sculture, scatole, film), allievo di Marcel Duchamp, realizza, in un’operazione di fascino combinatorio, un libro intitolato La quindicesima riga (4) composto assemblando da 400 libri in lingua italiana, di proprietà dello stesso Baruchello, la quindicesima riga prelevata a caso in 15 pagine diverse. L’operazione di Baruchello si sviluppa seguendo una serie di vincoli precisi.






Inizialmente l’artista copia le 15 righe con i dati relativi (titolo, autore, pagina) fino a realizzare 400 fogli di carta extra strong, ciascuno dattiloscritto in un solo originale, numerato mediante timbro a umido; poi ritaglia le righe, le mescola e le estrae a sorte per incollarne 30 per foglio (come si vede nell’immagine riportata). Le striscioline così ottenute ricordano, per quanto alla lontana, le striscioline del libro-oggetto di Raymond Queneau Cent mille milliards de poèmes (1961).

Il giorno trenta del mese di marzo del 1967, Baruchello deposita presso un notaio, il dott. Alfredo Tassitani Farfaglia di Roma, i 400 fogli di 15 righe, in tutto 6000 righe, ogni riga contraddistinta dal numero della pagina dalla quale è stata tratta; per la scelta casuale sono stati impiegati i numeri della quindicesima riga della tabella dei Random Numbers (numeri casuali); l’artista dichiara inoltre che il deposito è fatto nel suo esclusivo interesse e pertanto si riserva la facoltà di ritirarlo chiuso come è stato consegnato o di aprirlo anche con l’intervento e alla presenza di altre persone, redigendone verbale.

Successivamente il 27 maggio dello stesso anno Baruchello si reca a Fano, in provincia di Pesaro-Urbino, per partecipare a un congresso letterario del Gruppo ’63 e alle ore diciotto e cinquantacinque minuti distribuisce agli scrittori presenti 98 fogli, pari a 2940 righe (98 x 30); il 24 ottobre ritorna dallo stesso notaio e deposita i residui 102 fogli equivalenti a 3060 righe (102 x 30), custoditi in un plico del peso approssimato di 500 grammi in carta da pacchi mezzo fino color giallo paglierino chiuso ai margini con nastro di carta adesiva e legato con spago, assicurato con un sigillo di piombo.

Quest’ultimi 102 fogli costituiscono il libro in questione, La quindicesima riga, che, oltre a una breve prefazione del poeta e scrittore Nanny Cagnone, ha come preambolo la riproduzione delle copie degli atti notarili sopra citati.

Nel 1976 il pittore e scultore Renato Ranaldi (1941) elabora un gioco combinatorio chiamato Teoria (5). All’interno di una scatola di legno l’artista ripone altre tre scatole, anch’esse di legno, contenenti 94 elementi, sempre di legno, di piccole dimensioni, suddivisi in 55 colonnine doriche e 39 prismi che possono fungere indifferentemente da basi o da architravi. Sui 94 elementi (come si vede nelle immagini riprodotte) sono scritte in stampatello parole a caso come «insonnia», «fegato», «capacità», «incanto», «coscienza», «paura», «appetiti», ecc. Combinando le colonnine e i prismi in modo da formare una specie di colonnato, si ottengono 38.880.270 casi di possibili percorsi lessicali.



Il procedimento è simile a quello messo in atto da Queneau nei Cent mille milliards de poèmes: le varie combinazioni che il lettore può scegliere muovendo le striscioline del libro-oggetto di Queneau danno vita a differenti sonetti; allo stesso modo nel caso dell’opera di Ranaldi l’esecutore può comporre una gran quantità di impalcature architettoniche che mettono in atto altrettante «teorie», ovvero possibili letture dei legami esistenti tra le parole prescelte.

L’opera Teoria si configura come un vero e proprio gioco di cui Ranaldi, in un testo didascalico, fornisce le regole: si gioca in due o più di due persone cui viene distribuito un uguale numero di colonnine e di architravi-stilobati; i giocatori a turno dispongono i vari pezzi avendo in mente un obbiettivo di rappresentazione di carattere teoretico; vince chi inserisce un elemento estraniante, di disturbo, che riesca a mettere in crisi il senso del pensiero formulato all’inizio, anche se il disturbo è solo apparente perché l’idea-chiave del gioco è che «tutto significa tutto». I criteri di comparazione e associazione sono affidati alla cultura, al senso dell’umorismo e all’immaginazione dei giocatori.

Al fondo del gioco combinatorio inventato da Ranaldi ci sono due concetti fondamentali mutuati dalla filosofia zen, ovvero da un lato che «una cosa può voler dire il suo contrario e includere in sé la legge del tutto»; dall’altro che «una cosa si può collegare con qualsiasi altra, come se tutto riquadrasse nello schema di un ordine universale dove reale e irreale, logica e fantasia, volgarità e sublime, costituissero un’indissolubile e inspiegabile unità».

            A Parigi alla fine dell’anno 1979 il pittore visionario e surrealista Fabrizio Clerici (1913-1993) mostra a Georges Perec i Quaderni delle Metamorfosi, una sorta di bestiario fantastico composto da otto disegni, da cui lo scrittore prende spunto per creare otto brevi poemi in prosa, suddivisi anch’essi «a settori» (6).


       


       

            In un intervento effettuato il 28 novembre 1981 a Bologna durante un incontro organizzato dall’Associazione italo-francese sul tema Art et Poésie: le Livre illustré Perec dice: «C'è quindi un altro pittore italiano, di Roma, Fabrizio Clerici, che ha fatto una bella serie di disegni. Otto divisi in bande longitudinali e che si possono combinare con le altre. Si possono combinare con qualsiasi altra parte del disegno. Sicché con otto disegni se ne possono ottenere un po' più di quattromila, esattamente 4096. Ci sono così quattro linguette, cioè animali favolosi e questi animali sono disegnati in maniera tale da coincidere sempre. Allora ho fatto dei testi che consistono in quattromila raccontini, quattromila poemi in prosa che sono basati su otto minimatrici, ogni matrice è composta di quattro segmenti e ogni segmento si può combinare liberamente con tutti gli altri» (Georges Perec, «Alcuni pittori con cui ho lavorato…», Riga, 4, 1993, pp. 56-61).

 

Per chiudere una piccola nota in margine. In appendice al romanzo La pietra lunare (1939), che ha come protagonista Gurù, ragazza con i piedi di capra, Tommaso Landolfi inserisce un testo intitolato «Dal giudizio del Signor Giacomo Leopardi sulla presente opera» che altro non è che un sapiente montaggio di brani dello Zibaldone, ovvero una sorta di gioco del centone, composto da frasi prese in questo caso dallo stesso autore, grazie al quale Landolfi fa dire a Leopardi che la poesia ancora da scrivere ha irrimediabilmente divorziato dalla natura e che la letteratura può esistere solo con artifici in un tempo, quello moderno, troppo lontano dall’età dell’oro dei poeti.

Landolfi non è estraneo ai giochi di e con le parole. A parte i numerosi linguaggi inventati (7), si pensi, tanto per limitarci a alcuni esempi, al titolo-calembour del suo libro LA BIERE DU PECHER (1953), scritto volutamente in maiuscolo, e quindi privo di segni diacritici, così che può significare sia «la bière du pêcheur» (la birra del pescatore) che «la bière du pécheur» (la bara del peccatore), e alle filastrocche per bambini (8).

 

 

Note

 

(1) Paolo Albani, L’OpLePo e i plagiari per anticipazione, in La Biblioteca Oplepiana, a cura di Oplepo, Zanichelli, Bologna, 2005, pp. 21-28; e Calvino e i plagi anticipati, in Italo Calvino. Percorsi potenziali, a cura di Raffaele Aragona, Manni, san Cesareo di Lecce, 2008, pp. 33-44 [il libro, con un testo inedito di Ermanno Cavazzoni, è stato ristampato nel 2023 da in riga edizioni].

(2) Giampaolo Dossena, Enciclopedia dei giochi, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino, 1999, vol. III, p. 1024.

(3) Mario Praz, “Bernardo Bellini e un curioso poema sul Risorgimento”, in Bellezza e bizzarria, Il Saggiatore, Milano, 1960, pp. 193-222.

(4) Gianfranco Baruchello, La quindicesima riga, Lerici, Roma, 1968.

(5) Bruno Corà, Renato Ranaldi, Gli Ori, Prato, 2005, p. 381.

(6) I testi di Perec vengono pubblicati per la prima volta su Action Poétique nel settembre 1981; poi nel 1996 esce il libro Georges Perec e Fabrizio Clerici, Un petit peu plus de quatre mille poèmes en prose pour Fabrizio Clerici. Un petit peu plus de quatre mille dessins fantastiques pour George Perec, préfaces de Hector Bianciotti et Bernard Magné, Les Impressions Nouvelles, Paris, 1996.

(7) Si vedano le voci dedicate a Landolfi in AGA MAGÉRA DIFÚRA. Dizionario delle lingue immaginarie di Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti, Zanichelli, Bologna, 1994, ristampa 2011 (Les Belles Lettres, 2001 e 2010). Il titolo del dizionario è preso dal verso di una poesia in lingua inesistente contenuta nel racconto Dialogo dei massimi sistemi (1937) dello stesso Landolfi.

(8) Tommaso Landolfi, “Filastrocche”, ne Il principe infelice e altre storie per bambini, Adelphi, Milano, 2004, pp. 133-143.


Fonte: Raffaele Aragona, a cura di, L'invenzione e la regola. Il potenziale della letteratura, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012, pp. 59-65. 


Di questo saggio ha parlato a RaiRadio3 Edoardo Camurri durante il programma radiofonico di approfondimento delle pagine culturali e dello spettacolo Pagina 3 del 21 novembre 2012.


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