Paolo
Albani
L'OPLEPO
E I PLAGIARI PER
ANTICIPAZIONE
«Ci capita a volte di
scoprire» - scrive il
matematico
e scacchista François Le Lionnais in Le second manifeste (1973)
dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle)
- «che era già stata scoperta o inventata nel passato, e
anche
nel lontano passato, una struttura che avevamo creduto perfettamente
inedita.
Ci facciamo un dovere di riconoscere un simile dato di fatto
qualificando
i testi in questione come "plagi anticipati"» (Francois Le
Lionnais,
«Le second manifeste», in: Oulipo, La
littérature
potentielle, Paris, Gallimard, 1973, pp. 19-23; trad. it. Oulipo.
La letteratura potenziale (Creazioni Ri-creazioni Ricreazioni), a
cura
di Ruggero Campagnoli e Yves Hersant, Bologna, Editrice Clueb, 1985,
pp.
22-27).
Dunque un «plagiat par anticipation» è un testo
strutturato oulipianamente prodotto in epoca anteriore alla nascita
dell’OuLiPo
che risale al giovedì 24 novembre 1960. Circa un mese dopo la
prima
riunione, e cioè il 19 dicembre 1960, grazie all’intervento
«particolarmente
felice» di Albert-Marie Schmidt, professore di Letteratura alle
Università
di Caen e di Lille, la bizzarra congrega che fino a quel giorno si
chiamava Séminaire
de littérature expérimentale prende il nome di
Ouvroir
de Littérature Potentielle.
Per inciso ricordiamo che nel paragrafo IX dei suoi Palimpsestes
(1982) dedicato ai «giochi oulipiani» Genette usa il
termine oulipema
per indicare un testo prodotto dall’OuLiPo e oulipismo per
designare
invece un testo scritto, anche anteriormente, alla maniera di un
oulipema
(Gérard Genette, Palinsesti, Torino, Einaudi, 1997, p.
46).
In questo senso «plagiat par anticipation» e
«oulipismo»
si riferiscono allo stesso fenomeno.
Da tutto ciò ne segue, per estensione, che l’espressione
«paradossale
e provocatoria» di «plagiario anticipato o per
anticipazione»
indica l’autore di un «plagio anticipato o per
anticipazione».
Fra quelli che stanno a cuore al gruppo francese troviamo Laso, poeta e
musico greco vissuto nella metà del VI secolo a.C., autore di
poesie
in forma di lipogramma, secondo Curtius «il più antico
artificio
sistematico» della letteratura occidentale (Ernst Robert Curtius,
Letteratura
europea e Medio Evo latino, Roma, La Nuova Italia, 1992, p. 314),
il
poeta latino Decimo Magno Ausonio, maestro di centoni, il trovatore
provenzale
Arnaut Daniel, inventore della sestina, e poi, più vicini a noi,
Edgard Allan Poe che in The Philosophhy of Composition (1846)
mostra
come nessun particolare della sua poesia più nota The Raven
(Il corvo) «sia attribuibile al caso o all’intuizione» e
come
egli abbia proceduto «passo dopo passo, sino al compimento, con
la
precisione e la rigida coerenza di un problema di matematica»; e
ancora Lewis Carroll, Raymond Roussel e Unica Zürn, autrice di
sublimi
poesie anagrammate.
In Italia l’OpLePo (Opificio di
Letteratura Potenziale) nasce
a Capri
il 3 novembre 1990. Prima di quella data lo spirito oplepiano aleggia
sulle
patrie lettere, ostentando i suoi bravi paladini. L’oplepismo
nostrano
conta importanti precursori.
Cronologicamente parlando il primo riferimento non può
che andare alla figura di un grande palindromista, anagrammista e
compilatore
di centoni: padre Anacleto Bendazzi (1883-1982) che nel 1951 licenzia
le
sue Bizzarrie letterarie, un libro vertiginoso di giochi
verbali
in gran parte di argomento sacro (Anacleto Bendazzi, Bizzarrie
letterarie,
Ravenna, Presso l'autore nel Seminario di Ravenna,1951, e Bazzecole
andanti, a cura di Stefano Bartezzaghi, Milano, Vallardi, 1996;
sulla
vita di Bendazzi: Franco Gabici, Sulle rime del don. Vita e inediti
di don Anacleto Bendazzi, Ravenna, Edizioni Essegi, 1996).
Fra i primi anticipatori delle
sperimentazioni di stampo
oplepiano si
può annoverare Bruno Munari che nel 1944 realizza il suo ABC
Dadà, un abbecedario artistico in cui, a ogni lettera (21)
dell'alfabeto
italiano, corrisponde un piccolo testo tautogrammatico illustrato con
vari
oggetti: «Andrea ama gli angioletti / e attacca anelli assortiti
/ alla palandrana di Ade [intorno a una lettera A dorata vi sono
l'immagine
in bianco e nero di un fanciullo, alcuni anelli veri incollati e
l'immagine
a colori di un angioletto]», «Bice ha il babbo bigliettaio
/ e abbottona i busti / alle balie buone», «Camillo,
accoccolato
sul comò / cuoce conchiglie e corde di carta / nella
cioccolata»,
ecc., fino alla lettera Z «Zitti zitti / suoniamo lo zufolo / che
zazà ammazza le zanzare / con la zampa».
All’inizio degli anni sessanta,
Nanni Balestrini compone
alcune poesie
con l’ausilio del calcolatore elettronico (Poesie pratiche. 1954-1969,
Torino, Einaudi, 1976). Il procedimento usato da Balestrini per creare
le sue poesie combinatorie si basa sulla divisione in
«elementi»,
cioè in gruppi di poche parole legate sintatticamente, di tre
brani:
1. «L’accecante globo di
fuoco si espande rapidamente
trenta volte
più luminoso del sole quando raggiunge la stratosfera la
sommità
della nuvola assume la ben nota figura di fungo» (dal Diario
di
Hiroshima di Michihito Hachiya).
2. «La testa premuta sulla spalla, i capelli tra le labbra,
giacquero
immobili senza parlare finché non mosse le dita lentamente
cercando
di afferrare» (dal Mistero dell’ascensore di Paul
Goldwin).
3. «Mentre la moltitudine delle cose accade io contemplo il loro
ritorno; malgrado che le cose fioriscano esse tornano tutte alla loro
radice»
(dal Tao te King di Lao-Tse).
Le istruzioni per il calcolatore
sono le seguenti: a)
effettuare combinazioni
di 10 elementi sui 15 dati, senza permutazioni e ripetizioni; b)
costruire
catene di elementi tenendo conto dei codici di testa e di coda
(cioè:
la testa e la coda degli elementi vanno saldate grammaticalmente, ad
esempio:
«i capelli tra le labbra» + «assume la ben nota forma
di fungo» diventa «i capelli tra le labbra assumono la ben
nota forma di fungo»); c) evitare la contiguità di
elementi
derivati dallo stesso brano; d) suddividere le catene di 10 elementi in
6 versi di 4 «unità metriche» ciascuno (ecco un
elemento
diviso in unità metriche: «La testa - premuta - sulla
spalla
- trenta volte»).
In qualunque modo combinati i tre testi di partenza producono
un senso preciso. Il trattamento imposto da Balestrini è solo
uno
dei tanti possibili:
Tape Mark I
La testa premuta sulla spalla,
trenta volte
più luminoso del sole io contemplo il loro ritorno,
finché non mosse le dita lentamente e mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte alla loro radice e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare...
All’area sperimentale
appartengono anche L’oblò
(Feltrinelli,
Milano, 1964) di Adriano Spatola e le «Poesie a schema
multiplo»
di Renato Pedio apparse sul numero 2, pp. 12-14, della rivista Malebolge
del 1967.
Nel primo caso si tratta di uno pseudo-romanzo in cui l’elemento
combinatorio si snoda in una sequela di storie indipendenti, assemblate
in modo casuale, una sorta di «cadavere squisito» il cui
percorso
può essere scelto a piacere dal lettore (cfr. Renato Barilli,
«Spatola»,
in: La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del
«Verri»
alla fine di «Quindici», Bologna, il Mulino, 1995, pp.
257-263). L’operazione spatoliana ricorda, in un certo qual modo, il
libro composizione
n. 1 di Marc Saporta (cognome che sembra un anagramma di Spatola)
uscito
presso l’editore Lerici nel 1962, dove la libertà del lettore di
leggere il romanzo disponendo come crede l’ordine delle pagine è
totale. Anche perché le pagine del romanzo sono davvero sciolte,
libere, separate le une dalle altre. Nella copertina si dice:
«Mescolate
le pagine come un mazzo di carte e leggete», mentre la fascetta
che
tiene unite le pagine riporta questa frase dal sapore queniano:
«TANTI
ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale:
mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo».
Le «poesie a schema multiplo» di Pedio, scritte su tre
colonne, offrono la possibilità di leggere - ci dice l’autore –
un determinato fatto di cronaca (la distruzione di Longarone sotto la
diga
del Vajont) «in una ventina di modi diversi, molti dei quali
identici.
Calcolo che esistano, però, cinque o sei buone letture
valide».
In senso stretto la storia
dell’oplepismo italiano si
apre con
la costituzione dell'«Istituto di Protesi Letteraria»
(IPL),
curiosa accademia che inizia la sua attività come Seminario
Permanente
di Letteratura Sperimentale all'interno di quel formidabile laboratorio
culturale che fu la rivista il Caffè, fondata nel 1953 e
diretta da Giambattista Vicàri (per una storia dell’IPL: Paolo
Albani,
a cura di, Le cerniere del colonnello. Antologia degli scritti
dell'Istituto
di Protesi Letteraria, Firenze, Il Ponte alle Grazie, 1991).
Riguardo alle finalità, negli scritti ufficiali
dell'Istituto
si parla della «produzione automatica di letteratura
italiana»,
di «un'azione da compiersi nella sfera e secondo gli stimoli
della
genetica combinatoria» che, com'ha scritto Calvino, «smuova
l'enciclopedia del possibile», di «una disponibilità
intellettuale e spirituale che possa consentire un automatismo
distensivo
e liberatorio in questi truculenti tempi di tensioni velleitarie e di
problematiche
gelide».
Il programma dell'Istituto prevede, nelle intenzioni dei suoi
fondatori, una serie infinita di generatori inimmaginabili di cui si
offre
un primo elenco di esempi, ripreso dall'edizione Gallimard
dell'antologia
oulipiana La littérature potentielle (Créations
Re-créations
Récréations) del 1973: Intarsi, Centoni, Olorime,
Zagagliamenti,
Crittografie, Giochi polisemici, Poesie tangenti, Racconti intersecati,
Racconti a cassetti, Tautogrammi o Circoli Viziosi, Versi eurofallici
(croissants),
Contrazioni alfabetiche, Teste-coda anastrofiche, Permutazioni, Poesia
antonimica, Lipogrammi, Chimere, Tautofonie, Racconti diramati,
Trasformazioni
per proiezione, ecc.
I primi lavori dell'IPL, apparsi sul numero 5-6, 1975 della
rivista,
sono: Mongòlital e Bacedìfo di Giampaolo Dossena;
il Saggio di letteratura pitagorica. Il numero segreto delle
"Città
invisibili" di Italo Calvino di Cesare Milanese; Giocate con
me[erda]
di Saverio Vòllaro, quindi L'ipotesi nodulare di Cesare
Landrini
e altri frammenti della Nuova vasellina sinfonica di Guido
Ceronetti.
Successivamente, sul numero 2, 1977, gli esercizi dell'IPL si
arricchiscono
de I neologissimi di Luigi Malerba e de Il Dahlia
Anagrammatico.
Saggio strutturale di Gianni Nicoletti. Sul numero 3, 1977 escono
poi 3
esercizi di protesi letteraria e 1 esercizio letterario di protesi
politica
ancora di Vòllaro e un altro saggio di Dossena intitolato Le
cerniere del colonnello (in precedenza, sul numero 1, 1977, Dossena
aveva pubblicato gli Pseudobifronti, un affresco, ricco di
esemplificazioni
e di riferimenti bibliografici, su «uno dei giochi più
belli
di tutte le lingue alfabetizzate»: il gioco del palindromo e del
bifronte; l’articolo è privo dell’intestazione riguardante
l’IPL,
menomazione che, sullo stesso numero, colpisce anche il Piccolo
sillabario
illustrato di Calvino).
Una curiosità. Il 6 ottobre 1981 Perec tenne all'Alliance
française di Melbourne una conferenza intitolata
«Discussione
sulla poesia». Durante il dibattito gli fu chiesto se esistevano
gruppi simili all'Oulipo in altri paesi. Perec rispose che ce n'erano
in
Germania, in America e anche in Italia. Per quest'ultimo paese
citò
l'«Istituto d'ipotesi [sic] letteraria» che «è
- disse - leggermente più scherzoso di noi, ma la cosa non ci
dispiace»
(Georges Perec, Entretiens et conférences, volume II
1979-1981,
a cura di Dominique Bertelli e Mireille Ribière Joseph K. 2003,
nota 27 a p. 292).
Fra gli scrittori vicini
all’attività dell’IPL
sono citati
anche Giorgio Manganelli e Umberto Eco, entrambi a pieno titolo
etichettabili
come «plagiatori per anticipazione» dell’OpLePo.
Il primo - scrittore visionario fedele a un’immagine
«manieristica»
della letteratura come costruzione artificiosa di un mondo surreale -
è
autore di Centuria (Milano, Adelphi, 1979), una raccolta di
«cento
piccoli romanzi fiume», brevi narrazioni non più lunghe di
un foglio che vanno a comporre «una vasta ed amena
biblioteca».
In un’intervista apparsa sull’Avanti! dell’8 aprile 1979
Manganelli
spiega la genesi del libro: «Avevo per caso molti fogli da
macchina
leggermente più grandi del normale, e mi è venuta la
tentazione
di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la
misura
di un foglio: è un po’ il mito del sonetto, cioè di una
struttura
rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve necessariamente
misurarsi.
Ma il fascino è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti
obbliga
all’essenziale, che ti costringe a combattere contro
l’espansione
incontrollata. Insomma, credo che se non avessi avuto quei fogli non
sarei
mai riuscito a scrivere questo libro» (il corsivo è mio).
In un’altra intervista pubblicata su Libération
del 29 maggio 1985, in occasione dell’uscita della traduzione francese
di Centuria, Manganelli è ancora più esplicito
sulla
«natura artificiosa» del libro: «Un soir où
j’étais
de mauvaise humeur, j’ai eu l’idée d’utiliser ces feuilles en me
tenant au nombre de lignes qu’elles comportaient. Une idée, un
récit
par feuille: la première que j’ai écrite est la
première
à figurer dans le livre, de même pour les autres: rien n’a
été modifié, amélioré ou
transformé.
Je ne devais écrire que sur les rectos, jamais continuer au
verso;
l’autre règle était de ne pas construire
d’histoires
qui se suivent, ni même que les personnages se retrouvent. Chaque
récit devais se suffire, quitte à ce que certaines
situations
se ressemblent. J’ai mis un mois à écrire le livre»
(il corsivo è mio). Costrizione, regola: le indicazioni di
Manganelli
sono chiare: ne esce, come scrive Paola Italia, «un organismo
compatto
e dalla struttura calibratissima, in cui l’esercizio di stile si unisce
al divertissement del gioco combinatorio» (Paola Italia,
«Note
al testo», in: Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli
romanzi
fiume, Milano, Adelphi, 1995, pp. 283-303).
I «cent petits romans-fleuves», presentati da un
Prologue di Italo Calvino, hanno un grande successo in Francia dove
esperimenti
come Centuria si ricollegano alle «ricerche dell’avanguardia
francese,
quali ad esempio l'OULIPO di Queneau e Perec» (Paola Italia, op.
cit., p. 296).
Ma l'inclinazione oplepiana di Manganelli affiora anche sul terreno
saggistico. Nel saggio «Avanguardia letteraria» (1994)
Manganelli
definisce gli scrittori d’avanguardia «puntigliosi escogitatori
di
artifici, un poco pedanti, intelligenze naturalmente inclini agli aspri
e lucidi gaudi dell’acrostico, dei tecnopegnia, dei glifi, intenti agli
austeri estri combinatori del linguaggio», definizione che
aderisce
bene a quella dello scrittore di letteratura potenziale.
Per Manganelli gli scrittori d’avanguardia sono «letterati
in quanto fanno letteratura d’artificio», a suo dire
«l’unica
che sia legittimamente denominabile letteratura. L’amore delle
combinazioni
improbabili, la scelta e la coltivazione di sintassi ostiche, ardue,
inospiti;
insomma, la scelta delle strutture, di strutture arbitrarie e
rigorose».
L’idea manganelliana di «una letteratura come artificio; fatto
non
sentimentale, non privato, e nemmeno demonico, non morale, non sociale,
ma sommamente arbitrario e, insieme, rigoroso» è molto in
sintonia con quella oulipiana dove un testo costruito secondo regole
precise
apre la molteplicità potenziale di tutti i testi scrivibili
secondo
quelle regole e dove dunque «la struttura è
libertà»
perché produce il testo e nello stesso tempo la
possibilità
di tutti i testi virtuali che possono sostituirlo (Italo Calvino,
«Introduzione»
a: Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere, Torino, Einaudi,
1981,
pp. V-XXIII).
«A mio avviso» -
scrive Manganelli -«si
dà
propriamente letteratura solo dove ci troviamo di fronte a strutture
[...]
Non si scrivono poesie e romanzi per parlare direttamente al lettore,
né
per coprirlo della tenera fanga dei nostri sentimenti, né per
educarlo
a nobili sentimenti: ma, al contrario, perché, pur leggendo
parole
che potrebbero essere in diversi contesti anche sentimentalmente
attive,
le scorga nel loro valore strutturale, come ordine, disegno, organismo
impersonale; anche macchina». In conclusione «la
letteratura,
ben lungi dall’esprimere la ‘totalità dell’uomo’, non è
espressione,
ma provocazione; non è quella splendida figura umana che
vorrebbero
i moralisti della cultura, ma è ambigua, innaturale, un poco
mostruosa.
Letteratura è un gesto non solo arbitrario, ma anche vizioso:
è
sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e
insieme
un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio» (Giorgio
Manganelli,
«Avanguardia letteraria», in: Il rumore sottile della
prosa,
Milano, Adelphi, 1994, pp. 72-77).
L’attività
pre-oplepiana, cioè anteriore
al 1990,
di Umberto Eco è vasta e multiforme. Il suo centro attrattivo
è
naturalmente legato alla traduzione (del 1983), che in molti casi si
concretizza
in una vera e propria ri-scrittura, nel senso di re-invenzione, dei
novantanove Exercises
de style (1947) di Raymond Queneau. Rimanere fedeli al gioco di
Queneau
- afferma Eco - significa capirne le regole, «rispettarle, e poi
giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse» (Umberto
Eco, «Introduzione» a: Raymond Queneau, Esercizi di
stile,
Torino, Einaudi, 1983, pp. V-XIX).
In qualche modo ispirato alla performance queniana (almeno nel ricorso
al numero 99) è un testo che compare sul numero 5-6 del 1972 de il
Caffè, firmato da un Anonimo Ginevrino e attribuito a due
noti
studiosi di linguistica e semiologia di cui la rivista conserva
l’anonimato,
firma dietro la quale si nascondono Umberto Eco e Tullio De Mauro: si
tratta
di Novantanove proverbi strutturalisti «particolarmente
consigliabili
ad alunni delle scuole materne, ispettori della pubblica istruzione,
crociani
della Riserva, elzeviristi, attori di cabaret, rettori magnifici,
dirigenti
di programmi culturali alla TV, compilatori di lunarî».
Eccone
un piccolo, gustoso campione:
Chi Lacan l’aspetti.
Tanto va il fonema al codice che ci lascia la variante.
Il Propp stroppia.
Chi non Cratilo non critica.
Vedi Peirce e poi Morris.
Volere il significante pieno e il messaggio ambiguo.
Codice che appaia non Morse.
All’idea di letteratura
combinatoria - si pensi ai Cent
Mille
Milliards de Poèmes (1961) di Queneau - rimanda uno scritto
del 1972 intitolato Do your movie yourself dove, ipotizzando
l’avvento
di un’era in cui tutti possono farsi un film da soli grazie all’uso del
videoregistratore, Eco presenta una serie di «soggetti
multipli»
ordinati per vari registi come Michelangelo Antonioni, Jean Luc Godard,
Ermanno Olmi, Luchino Visconti, ecc. In pratica si tratta di questo:
l’utente
acquista un «plot pattern», cioè una
«gabbia»
di soggetto multiplo che può riempire con una serie molto ampia
di combinazioni standardizzate. Con un solo pattern, accompagnato dal
pacchetto
delle combinazioni, si possono fare, per esempio, 15.751 film di
Antonioni.
Come? Si parte da un basic pattern così strutturato: Unax
distesay desolataz.
Ellak si allontanan. I richiami alfabetici
che
stanno come esponente indicano le trasformazioni possibili: x = due,
tre,
infinite; un reticolo di; un labirinto
di; un; y = isola, città, snodi di autostrade, Autogrill Pavesi,
e così via. Il basic pattern alla Antonioni può dunque
generare
altri film come: Un labirinto di Autogrill Pavesi con
visibilità
incerta. Lui tocca a lungo un oggetto (Umberto Eco, «Do your
movie yourself», in: Diario minimo, Milano, Mondadori,
1986,
pp. 138-146).
Fra i molteplici esercizi cui Eco si dedica con grande diletto,
sempre prima del 1990, qui assunta come data spartiacque, vi sono testi
monovocalici - nella rubrica di Dossena su Il Venerdì di
Repubblica
(numero 45 del 28 ottobre 1988, p. 178) ne appare uno in E,
«L’ente
e l’esente»: «Sedete, gente, leggete le certe tessere del
Sefer!
Esse necesse est...» - e lipogrammati (due in A sul leopardiano Passero
solitario sono antologizzati in Guido Almansi e Guido Fink, Quasi
come, Milano, Bompiani, 1976, pp. 301-302; altri in Umberto Eco, Vocali,
Napoli, Alfredo Guida Editore, 1991, e nel Secondo diario minimo,
Milano, Bompiani, 1992).
Il 22 febbraio 1987 Eco pubblica su L’Espresso una prima
serie di ircocervi, una sorta di parole-valigia prodotte dalla fusione
di due nomi famosi cui viene accompagnata una definizione del nuovo
personaggio.
Il termine «ircocervo» designa un mostro mitologico,
metà
caprone (irco) e metà cervo. La regola del gioco impone di
fondere
insieme il nome di due personaggi noti, in modo che al nuovo
personaggio
si assegni un’opera inedita che ricordi tuttavia alcune caratteristiche
dei due personaggi originari, senza escludere qualche altro richiamo
ambiguo.
Sono proibite le combinazioni che, anche se danno origine a un bel
titolo,
non sono giustificate da una immediata associazione fonetica o grafica
tra i due nomi di partenza (Umberto Eco, Secondo diario minimo,
op. cit., p. 295).
Ecco alcuni esempi di ircocervi:
Agatha
Cristo
Dodici piccoli apostoli
Achille Bonito Olivolà Saclart
Billy
Wilde
A qualcuno piace Ernesto
Carlo Emilio Gadamer L’interpretazione del
dolore
Cesare
Pavesi
Biscotti dei paesi tuoi
Fred
Asterix
De ballo gallico
Gustave Flaubrecht Madame
Courage
Nel 1998 prende forma una
versione visiva dell’ircocervo
dovuta
al grafico e disegnatore Massimo Bucchi (Massimo Bucchi, ‘900,
Roma,
I libri di Edizioni la Repubblica,1998).
Più tardi, il 12 luglio 1992, Eco presenta una variante del
gioco degli ircocervi inventando un nuovo artificio che chiama
«finneghismo»,
ovvero una parola composta accompagnata da una definizione plausibile,
sul tipo di:
arfabeto: sistema di
scrittura per cani;
cornitologo: etologo che studia l’adulterio tra uccelli;
oromogio: Swatch che suona solo le ore tristi;
vampirla: discendente inabile del conte Dracula.
L’idea di quest’esercizio
viene a Eco durante un lavoro
sul Finnegans
Wake (1939) di James Joyce (Umberto Eco, «Un gioco per
l’estate?
La Duomocraxia», L'Espresso, 28, 12 luglio 1992, p. 190;
«I
giochini estivi colpiscono ancora. Invito a partecipare ai
Finneghismi», L'Espresso,
29, 21 luglio 1995, p. 170; «La professoressa che non ne indovina
una. Nuova collezione di "finneghismi"», L'Espresso, 41,
15
ottobre 1995, p. 266; «Mi scuso per i giochini. Sono utili.
Servono
ai ragazzi delle scuole», L'Espresso, 49, 10 dicembre
1995,
p. 258).
A proposito dei funambolismi linguistici di Eco va detto infine
che alcune delle sperimentazioni verbali contenute nella sezione
«Giochi
di parole» de Il secondo diario minimo - un pangramma
eteroletterale
dove vengono usate una sola volta tutte le 26 lettere dell’alfabeto, i
tautogrammi che sintetizzano la vita di un personaggio o il senso di
un’opera
usando soltanto parole con l’iniziale del personaggio eponimo, diverse
poesie anagrammate - sono prive dell’indicazione dell’anno di stesura.
Resta così impossibile stabilire se il gioco sia anteriore
oppure
no al 1990, anno significativo dal punto di vista plagiaristico.
Altro reduce dell’IPL è
Guido Almansi che già su il
Caffè si era cimentato in una «ri-scrittura» de L'infinito
leopardiano e in varie mistraduzioni, cioè avventurose e
avventate
traduzioni dove, ad esempio, il verso di John Keats «Season of
mists
and mellow fruitfulness» viene reso con «Stagione di brume
e molli fruttiferinità» (si veda «Versi in proprio e
mistraduzioni» ne il Caffè, 7-8, 1974, pp. 12-15).
Fra gli esercizi almansiani si contano lipogrammi (come quello
in E, O, I, U da Cesare Pavese: «Varrà la Marta a
avrà
a ta acca»), poesie rovesciate (Un distico dantesco:
«Poco
villano e disonesto spare / Il maschio tuo quand’egli a lei
s’ammuta»),
variazioni sulla vispa Teresa (Guido Almansi, Maramao, Milano,
Longanesi,
1989, pp. 49-54 e pp. 95-104).
Nel 1967 Edoardo Sanguineti,
attuale (2005) presidente
dell'OpLePo,
pubblica da Feltrinelli il romanzo Il giuoco dell'oca. Nella
quarta
di copertina si legge: «Questo Giuoco è composto di 111
numeri
[nel senso che il romanzo è suddiviso in 111 capitoletti, n.d.r.],
e può anche servire a giocare fino a 79. Ciò deve
convenirsi
prima di cominciare la lettura. Per giocare ci si serve di due dadi
numerati
dall'1 al 6, e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la
posta
al giuoco. Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può
tirare una volta sola con un solo dado; se per caso l'1 venisse, egli
ha
finito il romanzo».
Al 1982 risale, invece, l’Alfabeto apocalittico, scritto
in 21 ottave per la grande Apocalisse di Enrico Baj, pittore
antesignano
dei patafisici italiani, il cui nome figura fra gli «invitati
d’onore»
dell’OuLiPo. Sanguineti lesse il suo alfabeto in occasione della
vernice
dell’esposizione a Mantova, in forma teatralizzata, con il
volantinaggio
dei singoli testi presso il pubblico presente, sopra foglietti
variamente
colorati, simili ai vecchi «pianeti della fortuna» (Edoardo
Sanguineti, «Alfabeto apocalittico», in: Bisbidis,
Milano,
Feltrinelli, 1987, pp. 79-101). Si tratta di poesie tautogrammate
dall’A
alla Z come questa:
giocate al giuoco mio, grassi
giganti,
giratemi il mio gozzo, con i guanti:
gigantesse, godete al mio godere,
grosso è il gallo se gramo è il giocoliere:
grande ghianda mi è il glande con la gomma,
gratto le grotte, gratterò la gromma:
generali & gendarmi, gente giusta,
giunto è già il giorno, & chi lo gusta, gusta:
In precedenza (Stracciafoglio.
Poesie 1977-1979,
Milano,
Feltrinelli, 1980) Sanguineti aveva scritto poesie acrosticate, in cui
l’acrostico rende il nome del destinatario (Ugo Nespolo, Octavio
Paz, ecc.) o parole-chiave (landscape, maggio, PCI)
o frasi (Sanguineti amat), in quest’ultimo caso con l’aggiunta
di
un’altra costrizione, cioè il tautogramma:
Se Sa Sedurti Soltanto un
Sonetto,
Archetipo d’Amaro Amore Assente,
Nasconderò Nei tuoi Nomi il mio Niente,
Golfo mio, mia Girandola, mio Ghetto
[...]
Fra il 1984 e il 1987 Sanguineti
compone poesie come la
seguente che
inizia così:
questa frase (8, 7) da
ventaglio, non firmata, non
datata, è
un ritaglio banale,
da un giornale:
un uomo, che porta GE sopra una spalla destra, suda, per
una sega,
seriamente, lì alle prove con una lignea e liscia cosa
numero 9: seguono due finestre,
con le imposte quasi del tutto aperte, legate da un’L:
[...]
È un vero e proprio
rebus senza disegno, la cui
soluzione
è: «genovese galante» (Edoardo Sanguineti,
«Rebus»,
in: Bisbidis, op. cit., pp. 37-67).
Al termine del nostro breve
viaggio fra alcuni dei
«plagiari per
anticipazione» più significativi dell’OpLePo ci premono
ancora
due considerazioni.
La prima riguarda Rodolfo J. Wilcock (1919-1978), straordinario
scrittore
italiano di origine argentina, amante di fatti inquietanti, di mostri e
di folli letterari, poeta, drammaturgo e traduttore, fra gli altri, di
testi di Christopher Marlowe e James Joyce. Calvino lo propose come
membro
dell’OuLiPo, motivo più che sufficiente, crediamo, per accostare
senza forzature il nome di Wilcock a quello dei plagiari per
anticipazione.
Ne La sinagoga degli iconoclasti (Milano, Adelphi, 1972), fra
i profili di esseri che, poggiando sulle solide basi della scienza o
comunque
di una qualche disciplina che si presenta rigorosa, si sono mossi verso
la demenza, Wilcock riporta il caso dell’orologiaio francese Absalon
Amet
che, nel Settecento, inventa e fabbrica il Filosofo Meccanico
Universale,
un apparecchio, grande come un’intera stanza, in grado di produrre una
quantità quasi infinita di frasi, combinando una serie di
vocaboli
(sostantivi, avverbi di ogni sorta, congiunzioni, negazioni, verbi
sostantivati,
ecc.) scritti su delle targhette disposte a loro volta su ruote dentate
caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno
a scatto che periodicamente ferma l’ingranaggio. Con la figlia Marie
Plaisance,
Amet pubblica nel 1774 a Nantes il libro intitolato Pensées
et
Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, una raccolta
di frasi «pensate» dalla macchina, fra cui una di
Lautréamont:
«I pesci che nutri non si giurano fraternità»,
un’altra
di Arthur Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro
desiderio»,
una di Jules Laforgue: «Il sole depone la stola papale», e
ancora altre frasi sorprendenti per l’epoca: «Tutto il reale
è
razionale»; «Il bollito è la vita, l’arrosto
è
la morte»; «L’inferno sono gli altri»; «L’arte
è sentimento»; «L’essere è divenire per la
morte».
Infine un richiamo a due
personaggi che non sarebbe azzardato
far rientrare
nella schiera dei cosiddetti «fous littéraires».
Il primo è Giovanni Finazzi (?-1833), medico, per alcuni anni
sindaco di Omegna, autore di un opuscolo su Le invenzioni del
Dottor
Fisico Cusiano che ha come sottotitolo: «Descrizione di un
vegetabile
anticonsultivo, di un trebbiatojo, di una barca innaufragabile e di un
metodo di passeggiare sulle acque». A Parigi Finazzi concepisce,
redige e stampa un libro intitolato L’oracolo della Sibilla Cusiana,
la cui prima edizione italiana esce a Napoli presso la tipografia Palma
nel 1835; successivamente il libro viene ristampato in altre
città,
fra cui Milano: un’ottava edizione a cura dell’editore e libraio
milanese
Angelo Monti porta la data del 1855 (noi abbiamo consultato un’edizione
del 1982 stampata per conto della Libreria Il Punto di Omegna).
Che cos’è L’oracolo della Sibilla Cusiana? È un
libro divinatorio, strutturato per interrogare la Sibilla Cusiana, da
Cusio,
che è il lago d'Orta situato nelle Prealpi piemontesi. Il libro
«permette un gioco divinatorio paragonabile a quello dell'I
Ching
o I King. Il postulante formula una domanda. Sulle lettere
delle
parole che costituiscono la domanda si effettua una prima serie di
operazioni
numeriche; i risultati rimandano a tabelle complesse, dalle quali si
ricavano
(con pazienza, attenzione e un po' di estro) responsi in endecasillabi
a rima baciata» (Giampaolo Dossena, Enciclopedia dei giochi,
3 voll., Torino, Utet, 1999, II, p. 512).
Dunque L’oracolo della Sibilla Cusiana è a suo
modo un testo di «letteratura combinatoria» basato sugli
stessi
principi dei Cent Mille Milliards de Poèmes di Queneau,
anzi,
secondo Dossena, perfino «più bello e più
utile».
Ispirata al procedimento elaborato da Finazzi è una
«poesia»
scritta da Rodolfo J. Wilcock e Francesco Fantasia, intitolata
esplicitamente L’oracolo
della sibilla cusiana (Rodolfo J. Wilcock e Francesco Fantasia, Fra
Teleprocu, Milano, Adelphi, 1976, p. 21).
Il secondo personaggio anomalo
è Carlo Cetti (1884-?),
autore
eclettico, la cui fertile produzione comprende novelle, trattati di
mnemonica,
testi di critica letteraria, di poesia, di politica, di economia, di
filosofia
morale, di satira, di storia, di pedagogia. Che cosa ha fatto Cetti?
Muovendo
dalla teoria del «brevismo», da lui ideata nel 1946, ha
riscritto,
in ben 196 pagine, una versione semplificata dei Promessi Sposi
del Manzoni.
Ne La lingua si perfeziona e progredisce tendendo a
brevità
(Teoria del brevismo). Appendice: Dell'arte narrativa (Como,
Edizioni
«Il ginepro», 1946) Cetti espone i princìpi del
«brevismo»,
teoria che individua nella brevità del linguaggio un mezzo per
la
perfezione dello stile. Nel libro, scritto in forma di dialoghi fra
diversi
personaggi indicati come «Studente», «Cugino»,
«Ingegnere», «Dottore», ecc., Cetti sostiene
che
«la prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare,
è
la parsimonia sillabica, quindi, in ogni caso, alle parole, o locuzioni
lunghe, si dovran preferir le brevi».
Quando il «brevismo» avrà esaurita la sua funzione
e la nostra lingua avrà raggiunto un grado di brevità
oltre
il quale non si può andare senza venire meno alla chiarezza,
allora
- argomenta Cetti - potrà sorgere un nuovo movimento: lo
«stacchismo»
il cui fine è dare a ogni periodo il conveniente stacco
concettuale
da quello che lo precede.
Ma il vero «capolavoro» nella produzione letteraria del
Cetti, oplepiano malgré lui, è il Rifacimento
dei
Promessi Sposi (Como, a cura dell’Autore, Soc. Arti Grafiche S.
Abbondio,
1965) dove il «brevismo» trova la sua realizzazione
più
originale e profonda.
Nella versione cettiana il famoso brano manzoniano:
Quel ramo del lago di Como, che
volge a mezzogiorno, tra due
catene
non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello
sporgere
e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a
prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra e un’ampia
costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive,
par
che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione,
e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per
ripigliar
poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua
distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
diventa visibilmente più
breve:
Quel ramo del Lario [nome
tradizionale del lago di Como, n.d.r.]
che, tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a
un tratto si restringe e, tra un’ampia costiera a manca e un
promontorio
a destra, prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da
un ponte che unisce le due rive lì ove termina il lago e l’Adda
ricomincia, per riprendere poi nome di lago, ove esse riaprendosi,
lasciano
spaziare le acque in nuovi golfi e seni.
«La mia mente,» -
scrive Cetti nell'autobiografia
- «a
differenza di quel che avviene per la maggior parte degli uomini, non
accoglie
le idee da altri, ma le produce» (Carlo Cetti, Autobiografia,
Como, a cura dell’autore, Soc. Arti Grafiche S. Abbondio, 1961, p. 48).
Fonte: Oplepo, La Biblioteca
Oplepiana, Bologna, Zanichelli, 2005, pp. 21-28.
Questo testo costituisce la base su cui si è articolata la mia
relazione, intitolata Calvino e i plagi
anticipati, tenuta al Convegno "Calvino e il potenziale",
organizzato da caprienigma,
e svoltosi a Napoli nei giorni 26-28 ottobre 2005. Il testo compare nel
libro Italo Calvino. Percorsi potenziali, a cura di Raffaele
Aragona,
Manni, San Cesareo di Lecce, 2008, pp. 33-42. Il libro, con un testo inedito di Ermanno Cavazzoni, è ristampato nel 2023 da in riga edizioni di Bologna.
Per un aggiornamento di questo testo cliccate qui.
Il testo è citato nel libro di Luigi Mascheroni, Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web, Aragno, Torino, 2019, p. 154.
Per andare o tornare al menu dei miei saggi sui "plagiari per anticipazione" cliccate qui.
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