Paolo Albani
WILCOCK CHI?


            Fra gli innumerevoli fenomeni curiosi che agitano il mondo delle lettere (scrittori con due o più personalità alla Pessoa; scrittori che affrontano la pagina bianca solo in presenza di regole precise come Perec; altri che improvvisamente smettono di pubblicare come Salinger; ecc.) ce n’è uno particolarmente malinconico che riguarda la scomparsa dal mercato editoriale dei libri di alcuni scrittori cui siamo affezionati.

            Spesso accade che certi scrittori, che continuiamo a amare, siano dimenticati e ci rattrista vederli entrare piano piano, senza che nessuno se ne lamenti, in quella zona grigia del mercato librario che li rende invisibili e constatare che non sono più letti. I loro libri spariscono dalle librerie, diventano introvabili e si trasformano in merce rara per collezionisti.

            Fra questi «scrittori fantasma» c’è sicuramente J. Rodolfo Wilcock, nato a Buenos Aires nel 1919 e morto a Lubriano, in provincia di Viterbo, nel 1978; laureato in Ingegneria Civile, fu amico di Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo. «Questi tre nomi e queste tre persone – scriverà Wilcock, anni dopo, verso il 1967 – furono la costellazione e la trinità dalla cui gravitazione, in special modo, trassi quella leggera tendenza, che si può avvertire nella mia vita e nelle mie opere, a innalzarmi, sia pur modestamente, al di sopra del mio grigio, umano livello originario. Borges rappresentava il genio totale, ozioso e pigro, Bioy Casares l’intelligenza attiva, Silvina Ocampo era tra quei due la Sibilla e la Maga, che ricordava loro in ogni sua mossa e in ogni sua parola la stranezza e la misteriosità dell’universo».

            Oggi, a più di trent’anni dalla sua scomparsa, chi legge più Wilcock (che anche in vita non è mai stato un autore «commerciale»)? Eppure si tratta di uno «scrittore leggendario» (parola di Roberto Bolaño) che ci ha regalato una bella collana di libri bizzarri, surreali, amalgamati da un impasto di comicità e nonsense, libri scritti in forma di romanzo, racconti, poesie, testi teatrali; Wilcock è stato anche critico letterario (in Italia collabora fra l’altro a Il Mondo di Mario Pannunzio firmandosi a volte Matteo Campanari; negli articoli firmati Wilcock, se la prende spesso con le idee di Matteo Campanari, il quale risponde in modo grintoso), traduttore in spagnolo di più di trenta libri dall'inglese, dal francese, dall'italiano e dal tedesco; sua è la traduzione in italiano del capolavoro di Flann O’Brien Una pinta d’inchiostro irlandese, pubblicato da Adelphi nel 1993.

            Amante di “fatti inquietanti”, di “mostri” e di “folli letterari”, Wilcock fu proposto da Italo Calvino come membro dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, tradotto in italiano con Opificio di Letteratura Potenziale), nella riunione del gruppo francese avvenuta l’8 novembre 1972. Ne La sinagoga degli iconoclasti (1972), «uno dei migliori libri di questo secolo (ndr: XIX)» (sempre parola di Bolaño, il cui giudizio forse ha persuaso Adelphi a ripubblicarlo nel 2014), c’è una divertente parodia della letteratura combinatoria, così cara a Raymond Queneau, uno dei fondatori dell’OuLiPo, autore dei Cent mille milliards de poèmes (1961). Fra i profili di esseri che, poggiando sulle solide basi della scienza o comunque di una qualche disciplina che si presenta rigorosa, si sono mossi verso la demenza, Wilcock riporta il caso dell’orologiaio francese Absalon Amet che, nel Settecento, inventa e fabbrica il Filosofo Meccanico Universale, un apparecchio, grande come un’intera stanza, in grado di produrre una quantità quasi infinita di frasi, combinando una serie di vocaboli (sostantivi, avverbi di ogni sorta, congiunzioni, negazioni, verbi sostantivati, ecc.) scritti su delle targhette disposte a loro volta su ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno a scatto che periodicamente ferma l’ingranaggio. Con la figlia Marie Plaisance, Amet pubblica nel 1774 a Nantes il libro intitolato Pensées et Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, una raccolta di frasi “pensate” dalla macchina, fra cui troviamo una frase di Lautréamont: «I pesci che nutri non si giurano fraternità», un’altra di Arthur Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro desiderio», una di Jules Laforgue: «Il sole depone la stola papale», e ancora altre sorprendenti per l’epoca: «Tutto il reale è razionale»; «Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte»; «L’inferno sono gli altri»; «L’arte è sentimento»; «L’essere è divenire per la morte».

            In un racconto de Il libro dei mostri (1978), l’ultimo dello scrittore italo-argentino, viene descritto l’agrimensore Bene Nio che «ha perso già le gambe e le braccia, un buon pezzo di bacino, la spalla destra, della testa gli manca quasi tutta la metà sinistra e anche l’occhio destro e l’orecchio destro, per cui non vede più e non sente; il naso se n’è andato, e anche la lingua, rimasta parzialmente allo scoperto, gli si è indurita – quel che ne rimane – così che non si riesce bene a capire quel che dice». A me questo racconto di Wilcock ha fatto venire in mente un breve testo di Daniil Charms, un altro maestro del nonsense, testo contenuto in Disastri (traduzione e cura di Paolo Nori, Einaudi 2003), dove c’è un uomo rosso di capelli che non aveva occhi né orecchie, e nemmeno i capelli, la bocca, il naso, le mani, i piedi, il ventre, la spina dorsale e le viscere. «Non c’era niente. – conclude Charms – Quindi non si capisce di che si tratti. Meglio che di lui non parliamo più».


           

12 giugno 2014
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