Paolo Albani
UNA STRANA ENCICLOPEDIA

            Una delle (tristi) peculiarità dell’uomo è che fin dall’età della ragione è cosciente della propria finitezza. Sa che prima o poi dovrà licenziarsi da questo mondo. «È la natura, bellezza!» si potrebbe dire parafrasando Humphrey Bogart. Se le cause di decesso registrate nei certificati di morte del Settecento sono meno di 100, pochissime, quelle censite ai nostri giorni sono più di 3000 e il trend è in rapida crescita. In più di dieci anni di approfondite ricerche su statistiche, documenti e informazioni sui modi di «rendere l’anima al Creatore» degli americani, lo scrittore statunitense Michael Largo (1950) ha raccolto circa 350 cause di «fuoriuscita dal mondo», dalle più bizzarre a quelle più banali, elencandole in ordine alfabetico in una funebre e però divertentissima enciclopedia intitolata Final Exit: the Illustrated Encyclopedia of How we Die (2006), edita nel 2008 da Vallardi nella traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Reposi (pp. 534, € 19,00).

            Vi sono voci davvero esilaranti in Stecchiti & censiti. L’enciclopedia illustrata di tutti i modi in cui si passa a miglior vita (questo il titolo italiano). Ne segnaliamo alcune. Ad esempio Sesso orale: quando si pratica sesso orale a una donna non si deve soffiare aria all’interno della vagina, altrimenti l’aria, entrando nel circuito sanguigno, può creare un embolo (cioè una bolla d’aria) e uccidere la poveretta; ogni anno 919 donne muoiono di embolia durante il sesso orale o il coito. Nel 2002 una donna della Virginia scelse di utilizzare una carota per fare autoerotismo e morì per colpa di un embolo. Risate: in questa voce, fra le altre cose, si riporta il caso di un uomo di 35 anni che nel 1999, dopo una barzelletta raccontata in un bar a Seattle, fu preso da un’irrefrenabile risata spasmodica che durò 13 ore, dopo di che morì d’infarto. Nel 2003 i decessi attribuibili alla demenza da riso e all’ilarità sono stati 8901.

            Altre voci sono intitolate: Andare a scuola; Dentiere; Falli artificiali; Gabinetti ghiacciati; Masturbazione; Narcisismo; Pantaloni larghi; Sbadigli; Sindrome dei capelli impettinabili; Tostapane; Zoofatalismo.

            La voce Ricerca psichiatrica è dedicata a Henry Andrews Cotton (1876-1933), psichiatra statunitense formatosi in Europa studiando con due luminari della psichiatria, Emil Kraeplin e Alois Alzheimer (quello che ha dato il nome all’omonima malattia senile). Cotton, le cui credenziali scientifiche sono inappuntabili, è uno dei migliori allievi di Adolf Meyer alla John Hopkins University. Dal 1907 al 1930 Cotton dirige un importante ospedale psichiatrico a Trenton, capitale dello stato del New Jersey, il Trenton Psychiatric Hospital, in origine chiamato New Jersey State Lunatic Asylum (lo segnalo perché la parola «lunatico» mi piace molto).

            In quel periodo lo psichiatra statunitense elabora una teoria da molti ritenuta rivoluzionaria: Cotton è convinto che la schizofrenia sia dovuta all’azione di batteri, ovvero che essa scaturisca da infezioni croniche nascoste in qualche parte del corpo, specie nelle gengive dei denti. Cotton bolla come «pseudoscienze» le teorie che attribuiscono la malattia mentale a tare ereditarie o a traumi infantili come suggerisce Freud. Così intorno al 1915 Cotton comincia a sottoporre i suoi pazienti del manicomio a indagini con raggi X, microscopi e altri macchinari allo scopo d’individuare i focolai infettivi della follia. Non esistendo a quei tempi gli antibiotici, l’unico rimedio che Cotton escogita è l’asportazione della parte infetta, convinto che ciò possa indurre la guarigione dell’«85% dei casi di follia». Ben presto nei corridoi del suo ospedale si vedono circolare pazienti completamente sdentati, il che per altro crea loro, com’è facile intuire, problemi nella masticazione.

            Se la follia permane anche dopo l’asportazione dei denti, Cotton non desiste e si prodiga a togliere chirurgicamente vari organi come le tonsille, le ovaie, la milza e soprattutto il colon ritenuto fonte di infezioni per il ristagno fecale, senza con questo disdegnare i piedi, le mani e le gambe.

            Nel 1921 Cotton tiene una serie di letture a Princeton che hanno per oggetto i suoi «innovativi esperimenti» in materia di malattia mentale. Una volta pubblicate, le letture di Cotton vengono recensite nel giugno 1922 dal New York Time in modo entusiastico: «All’ospedale statale di Trenton, New Jersey, sotto la brillante guida del direttore sanitario, il dottor Henry Cotton, sta avanzando la più penetrante, aggressiva e profonda investigazione scientifica che sia mai stata condotta nell’intero campo dei disordini mentali e nervosi». Le malattie mentali stanno crescendo a un tasso quattro volte più rapido della popolazione, conclude l’articolo, ma grazie a Cotton: «C’è speranza, grande speranza per il futuro».

            Contrariamente alle aspettative di Cotton la situazione nel manicomio di Trenton precipita. Il 45% dei pazienti mutilati muore per peritonite post-operatoria. Lo accerta un’indagine voluta dallo stesso Meyer, inizialmente paladino delle «idee rivoluzionarie» di Cotton e suo protettore. Fra le vittime del metodo cottoniano c’è Margaret Fisher, figlia del famoso economista Irving Fisher, docente a Yale, il quale, anche dopo il trattamento sciagurato patito dalla figlia, continua a credere nei famigerati espedienti messi in atto da Cotton per sconfiggere «il germe della follia».

            La storia, magistralmente raccontata da Andrew Scull in Madhouse: A Tragic Tale of Megolomania and Modern Medicine (Yale University Press, 2005), ha un epilogo tragicomico: indagato per le morti dei suoi pazienti, Cotton cade in uno stato di profonda depressione che imputa, non al fallimento della sua teoria, bensì all’insorgere di un’infezione nascosta per guarire dalla quale non esita a togliersi da solo alcuni denti.


30 gennaio 2014

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