GLI
PSEUDOBIBLIA
Voce tratta da
Paolo Albani e Paolo della Bella, Mirabiblia,
Zanichelli, Bologna, 2003.
Il termine latino pseudobiblia
è coniato da Lyon Sprague
De Camp nell’articolo «The Unwritten
Classics» pubblicato sulla
The
Saturday Review of Literature del 29 marzo 1947.
Con esso lo scrittore
statunitense indica gli «unfinished books, lost
books, apocrypha,
and pseudepigrapha (falsely attribuide books)», in
altre parole i
libri che, a vario titolo, non esistono e non sono mai
esistiti, cui potremmo
aggiungere, come fanno Gianfranco De Turris e Sebastiano
Fusco («Gli
pseudobiblia nella letteratura fantastica», in:
Robert William Chambers,
Il
re in giallo, Roma, Fanucci, 1975, pp. 7-28), i
libri maledetti, soppressi
o al bando per il loro contenuto, i libri dimenticati,
non riconosciuti
o celati in altri libri.
Nel saggio «Gli pseudobiblia di
Chtulhu» (in: Gianni
Pilo, L’orrore di Chtulhu, Roma, Fanucci, 1986,
pp. 217-233), Domenico
Cammarota suddivide gli pseudobiblia in quattro
categorie fondamentali,
a loro volta suscettibili di ulteriori definizioni
microstrutturali: 1)
Libri che sono esistiti, ma che oggi non esistono
più (per dispersione,
distruzione, perdita, ecc.); 2) Libri che non sono mai
esistiti, ma che
potrebbero esistere (per ricostruzione apocrifa, giochi
di citazione, ecc.);
3) Libri che esistono, ma è come se non
esistessero (per irreperibilità,
estrema rarità, censure, ecc.); 4) Libri che
esisteranno, ma che
ora non esistono (work in progress, lavori in nuce, non
ancora attuali,
ecc.).
A proposito dei books within books, cioè
di quei libri
scritti dai personaggi dei romanzi, «ignored in
the catalogne of
any library, not one of them lurking in any uttermost
cavern under the
reading-room of the British Museum, none of them ever
printed even for
private circulation», lo scrittore inglese Max
Beerbohm parla di
Biblia
Abiblia («Books within books», saggio
del 1914, in: And
Even Now (Essays), London, William Heinemann,
1920, pp. 101-118).
Gli studi specifici sugli pseudobiblia e sulle
«biblioteche
immaginarie» sono numerosi e costituiscono ad oggi
un vero e proprio
genere letterario. Ormai classici sono quello di Gustave
Brunet (Essai
sur les bibliothèques imaginaires, Paris,
Imprimerie de Ch.
Lahure et Cie, 1851), che muove dalle ricerche uscite
nel 1848 e nel 1849
sul Journal de l’amateur de livres dovute a
Édouard Fournier
(1819-1880), letterato francese, e a Pierre Jannet
(1820-1870), che firma
con il nome di Haensel, libraio editore francese,
curatore di un’edizione
delle Œuvres de Rabelais (1858-1872) e autore
della Bibliothèque
elzévirienne (1853); quello di Giuseppe
Fumagalli (Delle
Biblioteche Immaginarie e dei libri che non esistono,
Milano, Tip.
Lombardi, 1892), condensato in una plaquette dedicata
alla moglie il giorno
delle loro nozze, di cui esiste una ristampa anastatica
del 1963 a cura
della figlia Lina, e che da Brunet riprende molte
notizie, e più
di recente quelli di John Webster Spargo (Imaginary
books and libraries,
an essay in lighter vein, Chicago, Caxton Club,
1952), Walter Hart
Blumenthal (Imaginary Books and Phantom Libraries,
Philadelphia,
George S. MacManus Company, 1966) e Alfredo Serrai
(«Cataloghi fantastici»,
in: Storia della bibliografia, vol. IV, Roma,
Bulzoni, 1993, pp.
272-280).
Una conferma dell’importanza del genere letterario degli
pseudobiblia
viene dal prestigioso Manuale Enciclopedico della
Bibliofilia (Milano,
Edizioni Sylvestre Bonnard, 1997), curato da Vittorio Di
Giuro, dove troviamo
la voce «Biblioteche immaginarie» scritta da
Gianni Guadalupi,
navigato conoscitore di «luoghi immaginari».
Sull'argomento il mio saggio Cataloghi
immaginari su L'oggetto libro 2001.
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