Paolo Albani
IL CINEMA IN TV 

NELLA SOCIETÀ SPOT-INDUSTRIALE


 Viviamo in una fase storica che, parafrasando la definizione di J. F. Lyotard, potremmo chiamare spot-industriale.
 All'atteggiamento critico tenuto in anni non lontani da economisti, sociologi, filosofi, semiologi, ecc., nei confronti della pubblicità vista come «un potente antidoto contro la tendenza a sprofondare in uno stato di cronica depressione propria del capitalismo monopolitistico» (Baran-Sweezy), come uno strumento integrante della politica di massimazione del profitto, si è venuto piano piano sostituendo, non solo fra il grande pubblico, ma anche fra gli intellettuali, «coscienza critica del paese» come si dice, un atteggiamento più pragmatico, accomodante, positivo nei riguardi del fenomeno delle promozioni delle vendite.
 In una società largamente informizzata, spettacolarizzata, la pubblicità sembra aver perso il connotato di leva mistificante dei consumi, di forza demiurgica al servizio del vendibile, spesso in contrapposizione al funzionale, scomodando per sé la categoria del «bello» artistico.
 Oggi, il lavoro dei vari Testa, Manzoni, Pericoli, ecc., fa pensare più all'estrosa e provocatoria attività di un Andy Warhol piuttosto che a quella di un efficiente piazzista di prodotti industriali.
 La pubblicità, dunque, crescendo, è diventata bella, raffinato oggetto artistico, campo di sperimentazione di tecniche narrative d'avanguardia, fucina di idee bizzarre, di nuovi linguaggi, messaggio che fa cultura, che contribuisce a formare un certo style of life, che induce al cambiamento, al progresso, alla ricerca del meglio.
 La pubblicità ha stimolato la fantasia di saggisti, romanzieri, pop-artisti, poeti visivi, ecc. In poco tempo si sono moltiplicate le rubriche specialistiche dedicate alla pubblicità (vedi quelle su «Panorama », su «L'Espresso», la «gazzetta dello spot» durante «Fluff») oltre a fiumi di non stop televisive, film, sketch, parodie esilaranti, ecc., incentrati sulla pubblicità.
 Sempre più quota prende l'idea che il settore pubblicitario pulluli di personaggi creativi, di cervelli in continuo fermento artistico, che sia il regno dell'invenzione, del meraviglioso, dell'incredibile.
 Insomma si è formato un vero e proprio culto della pubblicità.
 In questa estetizzante visione del mondo della pubblicità che, come s'è detto, contraddistingue la società spot-industriale, va inquadrato il problema dell'interruzione dei film in tv da parte degli shorts promozionali.
 Come si sa, il dibattito vede da un lato i difensori dell'autonomia del film come opera d'arte che si battono contro i selvaggi spezzettamenti pubblicitari cui sono sottoposte le pellicole che passano in tv, snaturandone la carica emozionale; dall'altro coloro che invece sostengono, oltre al diritto di finanziarsi delle tv commerciali prive di canone, che il film, non appena attraversa il piccolo schermo, è già altra cosa dall'originale, anche perché, si aggiunge, a differenza dello spettatore della sala cinematografica, quello televisivo interagisce con la tv, nel senso che ha la possibilità, tramite il telecomando, di scegliersi qualità e ritmi di visione.
 In questa discussione sono implicati diversi piani di lettura.
 In primo luogo, essa coinvolge fattori di tipo economico, almeno in apparenza di facile interpretazione: la tv commerciale è maggiormente portata, per sua natura, a piegare qualsiasi livello di comunicazione televisiva alle esigenze della committenza pubblicitaria. L'importanza dell'audience è legata essenzialmente alla remunerabilità dello spazio pubblicitario, non tanto allo spessore qualitativo delle trasmissioni, anche se non sempre commerciabilità e qualità artistica marciano in antitesi fra loro.
 In secondo luogo, vi sono aspetti culturali, più difficili da cogliere e da decifrare, che riguardano la complessa articolazione del rapporto cinema-televisione.
 Pur nella specificità dei moduli espressivi, è innegabile che esiste una complementarità, una reciproca influenza, fra cinema e televisione, esemplificata, non solo dalla crescente produzione di film per la tv, dallo sviluppo dell'home-video, ecc., quanto dall'intrecciarsi e dall'omologarsi dei rispettivi linguaggi.
 Allargando il discorso alla pubblicità, si può notare che, se da un lato si realizzano film in forma di lungo-spot-metraggi (si pensi a Un uomo, una donna di Lelouch, a Nove settimane e mezzo, ecc.), dall'altro vi sono spot che sembrano minifilm, perché girati da registi di razza come Fellini, Polanski, i fratelli Taviani.
 D'altra parte, nel continuo spiazzamento dei generi, nella loro benefica contaminazione, non si può dimenticare la persistenza di un'opposta funzionalità che separa il linguaggio propriamente cinematografico da quello spottistico. A rischio di banalizzare il discorso, si tratta del fatto che, mentre un'opera d'arte - orizzonte estetico cui il cinema appartiene a pieno titolo - è solo fine a se stessa, la pubblicità no, ha finalità persuasive, più ancora che informative, troppo evidenti per essere autonomizzate dal suo livello formale.
 Il bello della pubblicità resta pur sempre condizionato dalla sua capacità di aumentare le vendite, prigioniero della sua vocazione consumistica.
 Questo per significare semplicemente che la pubblicità non è solo un problema d'interruzione, ma anche, vorremmo dire, senza paura di tirar fuori dall'armadio della teoria sociale lo scheletro di un concetto ormai passato di moda, di alienazione. La pubblicità rende liberi nella dipendenza al consumo, istupidendo il nostro godimento visivo fino al punto, per dirla con Benigni, di arrivare a farci capovolgere la realtà e considerare le scene di un film la vera interruzione di un unico, interminabile, affascinante spot.
 A questo proposito, verrebbe da chiedersi senz'alcun filo di retorica: quanto sarà «penoso», anche se oltremodo gratificante dal punto di vista monetario, per un artista (attore, cantante, ecc.), dopo anni di conservatorio, di accademia, di brillanti tournées, successi teatrali, televisivi, cinematografici, volgere il proprio talento a recitare i versi che reclamizzano l'aroma di una tazzina di caffè, le qualità sbiancanti di un detersivo o la bontà di un sottaceto?
 Dunque, per concludere, il punto è questo.
 Lo scontro fra spottisti e anti-spottisti ha sottovalutato un aspetto importante del problema: le rimostranze contro un uso parsimonioso della pubblicità in tv non sono solo il frutto di considerazioni economiche, ma nascono da un diffuso atteggiamento culturale che vede nella pubblicità l'«undicesima» musa, dopo il cinema.
 Con i tempi che corrono, un discorso meramente negativo nei confronti della pubblicità rischia di passare per rétro, moralistico, tardo-romantico. Certo, non si tratta di negare che vi siano lati «buoni», «informativi» nella pubblicità (anzi perché non spendere più soldi nella cosiddetta pubblicità progresso?).
 Sul piano propositivo, il nostro punto di vista sulla questione ha pretese più modeste che potrebbero essere sintetizzate nello slogan: «La pubblicità è un gioco ameno / guardiamola meno».
 

Il Ponte, 6, giugno 1990, pp. 152-154.

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