Paolo Albani
POESIA POLIGLOTTA


    La scena è quella di un sogno. Il sognatore sono io, mi trovo in una stanza pieni di libri, mobili antichi, tappeti, luci soffuse; c’è molta gente. Dall’abbigliamento e dal modo di atteggiarsi ne deduco che sono per lo più intellettuali, artisti, scrittori, critici; nella stanza quasi non si respira; tutti parlano fumando e tenendo in mano bicchieri contenenti liquidi scuri, tipo vino o whisky.
    Mi avvicino a un gruppetto incuriosito dai discorsi di un tale piccolo, calvo, ma fornito di una barba rabbiosa, tutto luccicante dai circoli degli occhiali fino alle scarpe: più che un poeta sembra un impiegato di polizia in arrivo da una prefettura di provincia.
    «Voi sapete», dice il tale con un accento apertamente francese, «che ogni lingua ha la sua propria musicalità e che certe parole incolori o sorde hanno una sonorità mirabile tradotte in quelle d'un'altra. Servirsi dunque d'una sola lingua per scriver poesia è mettersi in condizioni difficili per ottenere quella varietà e ricchezza musicale ch'è il vero fine della lirica pura. Ho pensato, perciò, di comporre i miei versi trascegliendo qua e là nelle principali lingue le parole e l'espressioni che meglio si prestano alla realizzazione armonica del mistero poetico. Ormai le persone colte conoscono cinque o sei idiomi europei e non v'è il rischio di non esser compresi. Aggiungete che la Società delle Nazioni prenderà volentieri sotto il suo patrocinio questi primi saggi di poesia poliglotta. Dante aveva già inserito qua e là nell'italiana Divina Commedia versi in latino, in provenzale e in gergo satanico ma eran quasi annegati nella sovrabbondanza del volgare. Io, invece, mescolo parole di lingue differenti nel medesimo verso e ogni verso è costruito con mescolanze dello stesso genere. Voilà mon point de départ et voici mes premiers essais. Jugez vous même».
    A questo punto il tale mi porge con un sorriso e un inchino alcuni fogli di gran formato dove sono scritte delle poesie. La prima poesia, intitolata Gesang of a perduto amour, inizia così:

                                Beloved carinha, mein Weltschmerz
                                Égorge mon âme en estas soledades.
                                My tired heart, Raju presvétlyj
                                Muore di gioia, tel un démon au ciel.
                                Lieber himmel, castillo de los Dioses,
                                Quaris quot durerà this fun desespéré?
                                Λαμπάδα Θείζ, drévo zizni...

    «Forse non vi sembra equanime la quota di ciascuna lingua?», domanda il tale. «Eppure nella repartizione ho tenuto conto proporzionale dei secoli di passato letterario, dell’importanza demografica e politica».
    Non so cosa rispondere, mi guardo attorno sperando che qualcuno intervenga per liberarmi dall’imbarazzo di non saper rispondere, ma nessuno prende l’iniziativa. Sembra che tutti i partecipanti alla conversazione si aspettino da me che dica qualcosa d’intelligente, ma io per la verità non ho niente da dire e questo m’imbarazza molto. Sono come pietrificato, non riesco a congedarmi dal gruppetto…
    Per fortuna mi sveglio. È un sollievo.
    Più tardi, nel pomeriggio, mi torna in mente la poesia che ho ascoltato nel sogno, ricordo vagamente di averla letta da qualche parte, forse in un romanzo, ma, per quanto mi sforzi di trovare degli indizi che mi possano aiutare, non so dire quale. O magari mi sbaglio, non è un romanzo…



da Quaderno del Collage de 'Pataphysique, 1, lunedì 23 Clinamen 139 E.P., pp. 31-32.

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