A volte, scrivendo,
dici cose diverse da quelle
che pensi.
Spesso sono le migliori.
Giuseppe
Pontiggia
In una lettera del 1929 indirizzata all’editore Ludwig von Ficker, suo amico, a proposito del Tractatus logico-philosophicus,
Ludwig Wittgentesin spiega: «L’opera si compone di due parti, quella
scritta e quella non scritta, e la più importante è proprio la seconda».
(1) Difficile delineare il non scritto cui allude Wittgenstein, anche
solo immaginarlo, e il perché lo preferisse allo scritto, in seguito
pubblicato. Resta un mistero, imbrigliato nella sua mente, fonte di
pensieri brillanti.
La frase (una provocazione filosofica?) lascia ampi margini
d’interpretazione. Di certo pone l’accento sul problema del non detto,
di ciò che, in un testo scritto o in una conversazione, resta
inespresso, nascosto, sotto le righe, che non è poca roba, in ogni caso
da non trascurare o prendere sottogamba.
Se dico: «Maria sta allattando», il non detto di
questa frase, banalissima in sé, presuppone diverse cose: ad esempio,
non solo che Maria è una donna, ovvio, ma che è una donna adulta, in
grado di procreare, e che perciò ha messo al mondo un figlio che ora,
dopo la gravidanza durata mesi, sta allattando; si presuppone (ma
niente esclude che la donna abbia effettuato un trattamento di
inseminazione artificiale) che il
figlio sia nato in conseguenza di un rapporto sessuale con un partner,
di cui per altro non sappiamo nulla, se sia un uomo bianco oppure no,
quest’ultima informazione rimane nella sfera del non detto, come pure se
Maria abbia gli occhi celesti o i capelli ricci, quanto sia alta e
quanto pesi, ecc., tutti dettagli che la frase «Maria sta allattando»
non ci mette in grado di conoscere.
L’esempio è semplice, ma sufficiente a rendere l’idea
di quanto “non detto” ci sia in ogni frase che pronunciamo, anche la
più elementare. Una mole esagerata di sottintesi.
Qualcuno ha definito la letteratura «il non scritto
di cui lo scritto è un richiamo o, se vogliamo, un’ombra». E rincara la
dose: «la letteratura non consiste nelle parole scritte, ma in quello
che le parole scritte suggeriscono e presuppongono; la letteratura è una
mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è il desiderio di “altro
ancora”, perché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere
tutto».
Una posizione su cui riflettere. Il problema è bello tosto, stimolante.
Senza volare troppo in alto, restando nel campo del
linguaggio ordinario, ciò significa, grosso modo, semplificando, che
quando io entro in un bar, al mattino presto, ancora mezzo assonnato, e
scoglionato per la notte insonne, dopo l’ennesimo litigio con la mia
compagna che ha la brutta abitudine di leggere a letto, cosa che detesto
e m’indispone perché mi piace il buio assoluto quando dormo, e lei
questo lo sa, ma lo ignora di proposito, allora, dicevo, fatti due passi
dentro il locale, avvicinatomi al bancone, e rivolto al barista, ancora
innervosito dagli scazzi di coppia, gli dico salutandolo con un cenno
della mano: «Mario, un caffè macchiato, per favore», questa semplice
frase colloquiale, questo breve messaggio linguistico è solo
un’espressione di facciata, superficiale?
In realtà, dietro l’innocua richiesta, «Mario, un
caffè macchiato, per favore», si nasconde un non detto che riassumo in:
«Ehi, testa di cazzo, datti una mossa, fammi un caffè macchiato come si
deve, Mario, che non ho tempo da perdere».
È questo il non detto della mia frase pronunciata al
bar? Perché no. Ci sta. Il flusso dei pensieri non esplicitati, rimasti
nascosti, non detti per pudore a Mario, il barista, che ogni mattina
invito a prepararmi un caffè macchiato, potrebbe essere proprio quello,
più o meno, se quello è lo stato d’animo in cui mi trovo, ogni mattina,
quando vado al lavoro, un giramento di scatole cosmico, provocatomi
dalle intemperanze della mia compagna.
Lo stesso, sempre restando nell’ambito della comunicazione
intrapersonale, accade quando in una chiacchierata fra amici, un gruppo
di lettori forti, a proposito della recensione positiva di un libro,
circostanza che accende la discussione, uno se ne esce: «Non l’ho letto e
non mi piace», e sorride beffardo, guardandosi intorno, compiaciuto,
per cogliere la nostra approvazione, e a me lì per lì viene da
replicare: «Bravo!», forse in questo caso il non detto contenuto nella
mia risposta lapidaria, il non confessabile che mi resta dentro, la lacuna
come dice Gardini, potrebbe essere: «Bravo presuntuoso che non sei
altro! Ti sei appropriato di una frase di Vanni Scheiwiller e magari
nemmeno lo sai».
Vattelapesca, forse è questo il non detto che si
coagula in quell’occasione, chissà, non sarebbe fuori luogo. Anche
perché, lasciatemelo dire, il soggetto responsabile della frase «Non
l’ho letto e non mi piace», l’amico di prima, è davvero un presuntuoso,
uno spara-citazioni a raffica, spesso sbagliate o fuori luogo,
garantisco di persona, lo conosco da tempo.
Certo che se ci mettiamo sul chi va là, ovvero
nell’ottica di pensare al non detto tutte le volte che parliamo con
qualcuno, non ne usciamo più. Ci cacciano dritti in un vicolo cieco
interpretativo. Una spirale incontrollabile, un cane che si morde la
coda. Un semplice e insignificante «Ciao, come va?» potrebbe ingenerare
il sospetto che si stia tramando per mascherare l’imponderabile, che, al
di là delle apparenze e di ogni buona intenzione, ci troviamo in
presenza di un non detto non proprio amichevole, anzi aggressivo,
volgare, e temere che sotto sotto, dietro quel «Ciao, come va?», si
nasconda un pensiero negativo, un’offesa: «Guarda un po’ che faccia da
culo ti ritrovi oggi, bello mio (bella mia)». Non si può escludere.
Dipende da tanti fattori, il contesto, la personalità di chi parla, il
suo umore in quel momento, ecc.
Se adombriamo questo scenario, se dietro ogni frase è
lecito lasciare spazio al dubbio e insinuare che possa celarsi un’altra
frase, magari ostile, che va in senso opposto, una frase che resta in
ombra, segreta, latente, è la fine. Il non detto diventa una spada di
Damocle, un pericolo, un virus paralizzante.
Allora, giocando con il tarlo del paradosso, non mi
tiro indietro e azzardo qui una provocazione. Vi chiedo, nel caso del
racconto sul non detto che state leggendo, quale pensate che sia, a
vostro giudizio, il non detto omesso, lasciato fuori dalla pagina
scritta, nello spirito della lettera di Wittgenstein?
Perché ci sarà pure un non detto anche qui, in questo racconto intitolato Il non detto.
Sarebbe illusorio pensare il contrario. In barba alle nostre cautele e
prese di distanza, credo che nessuno e nulla sia esente dal non detto,
da una censura (cesura) più o meno volontaria. È un fenomeno pervasivo,
diffuso in altri campi, musicale, artistico, politico, filosofico,
scientifico e via di seguito.
Se dovessi tirare le somme di questo racconto,
indicare qual è la morale della favola, sempre ammesso ce ne sia una,
non esiterei a rifarmi all’espressione: «beh, come non detto», usata
quando non si vuol dar peso a un pensiero.
NOTE
(1) Ludwig Wittgenstein, Lettera a Ludwig von Ficher, in Paul Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein. Con ricordi,
prefazione di Josef Schachter, appendice di Brian F. McGuinness,
traduzione di Isabella Roncaglia Cherubini, La Nuova Italia, Firenze
1970, p. 115. Il filosofo austriaco non è il solo a pensare che il non
scritto sia la parte più importante di un testo. È un’affermazione
condivisa da non pochi scrittori; su questo rimando al mio Le frasi fatte degli scrittori, «il Caffè Illustrato», 57, novembre-dicembre 2010, pp. 8-9.
(2) Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, Torino 2014, p. 235.
luglio 2023
_________________________________________
Per andare o tornare al menu
dei miei raccontini del mese cliccate qui.