Paolo Albani
LE FRASI FATTE
DEGLI SCRITTORI
 
 


Nel vasto e curioso assortimento di frasi fatte che gli scrittori spesso ci rifilano nei contesti più diversi, frasi che mi mandano letteralmente in bestia, ce n’è una in particolare che supera ogni limite di tollerabilità umana. Divento una iena quando sento uno scrittore, e negli ultimi tempi ne ho sentiti molti alla radio, in tv o letto sui giornali (ultimo in ordine cronologico Antonio Pennacchi vincitore del premio Strega 2010), che dichiara: «Non sono stato io a scegliere la storia che ho raccontato, ma è stata la storia a scegliere me».
    Ma come cazzo si fa, mi domando io, a pronunciare una frase tanto ridicola? Uno, in quel momento, mentre apre la bocca e gli escono fuori le parole, è cosciente di quello che sta dicendo?
    Ora ve l’immaginate voi la scena?
    Se l’affermazione di quello scrittore fosse vera allora dovremmo berci la frottola che da qualche parte nell’etere, o in un altro luogo non ben precisato (forse chissà un archivio segreto o una biblioteca inaccessibile di storie non ancora raccontate ), ci sarebbe una storia che è alla ricerca affannosa dello scrittore giusto che la sappia raccontare, e gira, gira questa storia non ancora raccontata, volteggia guardandosi attorno qua e là finché a un tratto non si accorge dello scrittore tal dei tali, lo squadra attentamente da capo a piedi, e mentre è ancora lì, indecisa, ecco che le capita - colpo di fortuna! - di sentirlo parlare lo scrittore tal dei tali con un altro scrittore, li sente che parlano dei loro progetti letterari, delle loro ambizioni future e allora la storia non ancora raccontata, che per altro è stufa di continuare a girare a vuoto senza che nessuno l’abbia ancora tradotta in una combinazione di parole felicemente assortite, si ferma e gioisce: «Oh, basta tribolare!» esclama la storia non ancora raccontata, «Ecco lo scrittore che fa per me!», e la sera stessa, mentre lo scrittore è alla scrivania, davanti allo schermo vuoto del suo computer che si sbattezza a trovare l’intreccio di una storia decente da narrare, la storia non ancora raccontata si presenta allo scrittore e gli dice:  «Salve, sono una storia non ancora raccontata» e subito aggiunge emozionata: «Avrei scelto te!»




    Mi sembra ovvio, miseriaccia infame, che nessuno crederebbe mai a una simile stupidaggine.
   Forse allora, in aiuto degli scrittori che si abbandonano a quest'assurde dichiarazioni, potremmo ipotizzare un’altra dinamica per spiegare l’incontro fra la storia non ancora raccontata e lo scrittore giusto scelto per raccontarla, e restituire una qualche dignità di senso alla frase: «Non sono stato io a scegliere la storia che ho raccontato eccetera eccetera».
    La storia non ancora raccontata non dice nulla allo scrittore, al contrario rimane in silenzio, fa l'indifferente, ma non appena lo scrittore si distrae un attimo, zac!, di nascosto la storia non ancora raccontata gli entra dentro, lo contagia e piano piano comincia a smuovergli i neuroni dell’ispirazione, il che significa che la storia non ancora raccontata viene assorbita dallo scrittore allo stesso modo in cui si tirano su con il naso i vapori di un infuso di erbe medicinali, modalità plausibile dato che quando uno pensa alla forma corporea di una storia non ancora raccontata se l’immagina di una sostanza aeriforme, impalpabile, fluttuante; dopo di che, una volta inalata, lo scrittore - miracolo! - si mette automaticamente a scrivere, senza nemmeno rendersi conto dell’accaduto; la storia gli viene fuori con estrema facilità, e la butta giù di colpo, in pochi giorni, come fece Stendhal con La certosa di Parma, travolto anche lui, il nostro scrittore come Stendhal, da un irrefrenabile impulso creativo, da un’eccitazione, una fregola nello scrivere mai sperimentati prima di allora, tanto che alla fine si meraviglia lui stesso di quest’improvviso stato di grazia e in cuor suo pensa, e successivamente lo dichiara anche in pubblico: «Non sono stato io a scegliere la storia che ho raccontato, ma è stata la storia a scegliere me».
    Voglio sperare che le cose siano andate a questa maniera, altrimenti, porca vacca, che dire di uno scrittore che se ne esce con una frase del genere?
    Un’altra frase che sento spesso in bocca agli scrittori e che sempre mi fa inorridire è questa: «Non appena finito e mandato in libreria, il mio libro non mi appartiene più».
    Bene, «il libro non ti appartiene più», coglione che non sei altro? Allora sapete cosa faccio? Ora scendo giù in strada, entro nella prima megalibreria che mi capita a tiro, di quelle che ormai sembrano dei supermercati, prendo una pila di copie dell’ultimo libro che vende di più, ad esempio quello di Pennacchi, vincitore del premio Strega 2010, e cambio il nome dell’autore in copertina a quei libri, ci appiccico sopra a uno a uno il mio nome stampato bello grande. Poi scrivo all'ufficio-vendite della Mondadori e gli dico che mandino a me i diritti d’autore del libro di Pennacchi, di versarli con un bonifico sul mio conto corrente, gli fornisco anche il mio codice IBAN, che intanto Pennacchi, dico all'uffico-vendite della Mondadori, è dell'idea che il suo libro «non gli appartiene più» ora che l'ha finito. E vediamo un po’ a questo punto come reagisce Pennacchi, se continuerà a ripetere l’insulsa frase che il suo libro, una volta finito e mandato in libreria, non gli appartiene più.
    Voglio proprio vedere.
    Ma non è tutto. C'è un'altra frase stereotipata che gli scrittori ripetono spesso, una frase irritante che non sopporto, che non sta né in cielo né in terra. È quando gli scrittori, Cristo santo!, dicono impunemente: «Ritengo sia più importante quello che non ho detto rispetto a quello che ho detto».
    Ah, è così? È più importante il non-detto, quello che si tace, che resta inespresso? E allora, accidenti!, se ne siete capaci provatevi un po' a leggere la frase che è scritta qui:




Questo testo è uscito anche su "il Caffè illustrato",
57, novembre-dicembre 2010, pp. 8-9.

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