LA RECENSIONE FISIOGNOMICA DI MAURIZIO SALABELLE Il genere letterario delle recensioni a libri inesistenti annovera scrittori illustri; si va da Jorge Luis Borges che in Finzioni (1944) recensisce libri che esistono solo nella sua testa (e creduti veri, come dice Calvino nelle Lezioni americane) a Vuoto assoluto (1974) di Stanisław Lem, un’antologia di quattordici recensioni a libri mai scritti. Uno
strano recensore è Giovan Pellegrino Dandi (1664-?), figlio di uno stampatore
forlivese, giornalista, laureato in diritto civile e canonico, avviato nel 1687
alla carriera ecclesiastica, nella quale copre incarichi di un certo rilievo,
non senza contrasti con i superiori. Per quattro anni, dal 7 febbraio 1701 al
21 gennaio 1705, in fascicoli settimanali di 4 pagine su due colonne (la data è
normalmente quella del mercoledì), Dandi dirige a Forlì il Gran Giornale de’
Letterati, dove scrive recensioni a opere pubblicate in periferia (per
esempio in Sicilia) e all’estero (soprattutto in Germania) che sono dei falsi.
L’operazione «letteraria» del Dandi consiste nell’attribuire scritti vecchi di
qualche decennio a autori di fantasia, prelevando interi estratti da altri
periodici senza nominare la fonte e falsificando i dati bibliografici.
Sulla mitica rivista il Caffè, fondata nel 1953 da Giambattista Vicari e da lui diretta fino al 1977, appare una rubrica, intitolata «Equilibri», curata da Pier Francesco Paolini che propone accurate recensioni di libri immaginari, di cui fornisce, non solo il nome dell’autore, ma anche quello dell’editore (Sgambati, Bozzolo, La Carruba, Misirizzi, ecc.) e la città dov’è stampato. Poiché
la storia è fatta di corsi e di ricorsi, le recensioni di libri inesistenti
ritornano sul numero due di una rivista che ricorda, un po’ alla lontana,
quella di Vicari, ovvero il Caffè
illustrato (settembre/ottobre 2001), diretta (solo per i primi due numeri) da
Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni e Walter Pedullà. È qui che compaiono due
recensioni straordinarie, di una comicità surreale e irresistibile, scritte da
Maurizio Salabelle (1959-2003), autore di libri bellissimi, animati da
personaggi bizzarri e stralunati, come Un
assistente inaffidabile (1992), Il
mio unico amico (1994), Il maestro
Atomi (1997), Il caso del contabile
(1999) e L'altro inquilino (2002). (A
breve uscirà presso la collana Compagnia Extra di Quodlibet un romanzo inedito
di Salabelle: La famiglia che perse tempo).
Fra gli altri scritti, mi piace ricordarne uno breve, di chiara derivazione
perecchiana, uno degli autori amati da Salabelle (che ha soggiornato a Parigi
per sei mesi, dal dicembre 1997 al maggio 1998, occupandosi proprio dell'opera
di Perec), intitolato «Come camminare per ore a Pisa senza mai vedere la
Torre».
Maurizio Salabelle (1959-2003)
Salabelle è l’inventore della recensione fisiognomica. Sentite cosa scrive a proposito del libro (introvabile) Vi mando tutti ad ascoltare il cuculo di Giuseppe Emaci, pubblicato dalle Edizioni Bombesi: «Abbiamo sotto gli occhi una
fotografia dell'autore, riportata nella quarta di copertina del libro. Ebbene,
l'impressione che se ne ricava è di un non so che di già visto, di stantio, di
inutilmente e vacuamente alla moda. L'autore è un giovanotto sui trentun anni,
fin troppo abbronzato e dalla magrezza esibita: le sue basette strette e lunghe
simboleggiano uno stile compiaciuto, irritante, carico di riferimenti alla
cosiddetta cultura dei giovani. L'impressione è confermata dalla maglietta
indossata dallo scrittore, sulla quale campeggia la dicitura NEW YORK. Lo
sguardo è ammiccante, come se Emaci si congratulasse con se stesso per essere
finalmente diventato un autore, cosa che conferisce a tutto il libro un
fastidioso tono di falso. L'opacità degli occhi tradisce un eccessivo consumo
di programmi televisivi, forse talk show: e questo fa venire in mente lo
scrittore americano Jack Kerouac, che fece di quel passatempo l'unica attività
della sua insipida vita. La mancanza di peli sulle guance e l'aspetto troppo
pulito del viso (non ci sono brugnoli né cicatrici) rivelano una scrittura
senza identità, artificiale come l'alluminio: il richiamo evidente è all'autore
americano D. Leavitt. Il fatto che Emaci stringa tra le braccia un gatto,
infine, e lo protenda verso l'obiettivo, rende il suo romanzo sinceramente
illeggibile. Con questo gesto, infatti, Emaci cita Poe ma dice anche molto di
sé, pur senza accorgersene: ci dice di essere banalmente teatrale, di amare i
sotterfugi ma di voler anche fortemente piacere e di essere un opportunista
della letteratura. Non ci piace per niente, insomma. Non dobbiamo però
condannare Emaci per questa sua prova immatura: può succedere a tutti di
sbagliare un romanzo, all'inizio. Lo aspettiamo invece al prossimo libro,
sperando di trovarlo con basette più corte, senza magliette americane addosso
e, soprattutto, senza gatti in braccio ma nemmeno cani». «Un’opera matura e di grande importanza: a quanto ci risulta dalle fotografie che abbiamo avuto modo di esaminare (pubblicate su numerosi settimanali e giornali), l’autore ha infatti un’età di circa 50 anni, è alto, ha ancora molti capelli in testa e sembra pesare almeno cento chili. A un primo approccio parrebbe trattarsi di un romanzo di impianto tradizionale, data la stazza dell'autore ed il suo modo di vestire elegante. In tutte le immagini che lo ritraggono, Efos appare sempre molto composto: è perennemente vestito di nero, ha la cravatta in quattro foto su cinque, porta camicie senza bottoncini ed il disegno della sua biancheria è a dignitose righe celesti. Anche per quanto riguarda la sua faccia, sono molto evidenti le sue “ascendenze classiche”: il volto è estremamente regolare, le labbra sono spesse (leggermente più gonfie quelle superiori) ed il suo naso è di quelli che si è soliti definire “importanti”: si capisce che questo scrittore conosce bene Dante Alighieri. Efos non vuole scandalizzare né apparire alla moda, né tanto meno essere trasgressivo: il modo in cui guarda l'obiettivo senza ammiccare o storcere gli occhi simboleggia uno stile posato, piano; un lessico quotidiano ma non per questo meno incisivo. Un ampio paio di favoriti che gli scendono giù dalle guance sembrano rimandare a Gogol'; ma si notano anche, nella pancia sporgente e nell'espressione sdegnosa, influenze dell'autore di Madame Bovary. Una cosa è certa: questa Perdita di gas è l'opera più matura di Eugenio Efos. Confrontando quelle di oggi con le sue foto più vecchie, infatti, il romanziere appare più sicuro di sé: e parecchio più grasso (senza che però sia diventato bolso), sulla sua fronte ci sono più rughe e gli occhiali dorati che gli incorniciano gli occhi (forse da presbite) conferiscono al suo sguardo una rassicurante saggezza. Non bisogna fermarsi alle apparenze, però: dietro l'aspetto classico e misurato, sotto lo strato pacato che lo ricopre, Eugenio Efos nasconde lampi di torva inquietudine, folgori di delirio: lo dimostrano i sei cerotti che ha sulla guancia sinistra, le macchie di rossetto lungo il suo doppio mento ed i frammenti di prezzemolo che ha tra gli incisivi. Sono elementi che potranno spiazzare il lettore più ingenuo, perché non si capisce a che cosa alludano: l'autore vuole forse rimandare a Beckett? (In questo caso si capirebbe il dettaglio degli occhiali dorati, che vogliono forse citare quest'autore irlandese...) Attenzione, dunque: La perdita di gas non è, anche se lo sembra, un libro facile e tranquillizzante; è il romanzo di un finto saggio che riserverà, al lettore attento o di una certa cultura, una serie di sorprese del tutto inaspettate». 17 ottobre 2014
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