Paolo Albani
FENOMENI CURIOSI


     All'inizio del secolo scorso a Benevento, in via Traiano, dal lato del marciapiede dove oggi si trova il cinema San Marco, accadeva questo: se passava di lì qualcuno con il cappello in testa alle undici del mattino nei giorni dispari del mese di dicembre, il cappello gli volava via, anche se non c'era un filo di vento, come se fosse stato preso da un turbine impetuoso che lo risucchiava in alto. I cappelli volavano via e dopo una serie di zigzag sparivano veloci oltre i tetti delle case.
     Il fenomeno andò avanti senza interruzioni dal 1912 al 1914, investendo, nelle circostanze che si è detto, ogni tipo di cappello che si trovava a passare da via Traiano. Perciò in quegli anni volarono via, puntualmente alle undici del mattino nei giorni dispari dei mesi di dicembre, cappelli di stoffa, di pelle, di feltro, a cilindro, a cloche, coppole, cappellini con piume di fagiano, copricapo militari forniti di visiera, baschi e cappelli di altre fogge ancora. Durante una processione volò via anche una berretta rossa cardinalizia e un'altra volta un cappello da fantino.
     Per indagare sul fenomeno l'allora sindaco di Benevento istituì una commissione, ma non si giunse a capo di nulla. Si accertò solo che la sparizione dei cappelli non era imputabile al trucco di un prestigiatore o alla diavoleria architettata da qualche burlone, appostato magari non lontano da lì, dietro la finestra di un abbaino.
     La cosa grottesca è che durante un'ispezione in via Traiano un membro della commissione, un professore di Ingegneria Meccanica dell'università di Napoli, perse anche lui il cappello.
     Dove siano andati a finire i cappelli spariti in via Traiano a Benevento non si è mai saputo.

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     Negli anni sessanta il caso di Beppe Sbrisà, un magazziniere friulano, fu oggetto di svariati studi psichiatrici. A seguito di una brutta caduta di bicicletta che gli procurò un trauma cranico, Sbrisà cominciò a invertire la funzione degli oggetti (solo alcuni, per fortuna) con cui entrava in contatto, a scambiarne le proprietà, le caratteristiche essenziali.
     Una volta ad esempio prese una carota e, credendo fosse un orologio, se la mise al polso tenendola ferma con dello spago. A un certo punto la guardò attentamente e poi, rivolto alla moglie, le disse serio: - Sono le nove, vado al lavoro.
     Si comportava a quel modo non perché fosse impazzito o avesse perso del tutto il senso della realtà. A parte la stranezza dello «scambio funzionale degli oggetti», Sbrisà era una persona normale, normalissima, con i suoi alti e bassi, i tormenti e le passioni che hanno tutti.
 Solo che, dopo la caduta di bicicletta, era convinto che la carota fosse davvero un orologio e che la sua funzione fosse scandire il tempo. Così come, del resto, credeva che l'orologio fosse una carota, e perciò, ogni tanto, cercava di grattugiarselo sull'insalata o di lessarlo insieme ad altre verdure.
     Una sera la moglie lo trovò disteso su un divano mentre osservava, alla luce tenue di un paralume, una scodella di porcellana; la esaminava dall'alto in basso, nei minimi dettagli, prima dal lato concavo poi da quello convesso, sfiorandola a tratti con il dito indice come se seguisse delle linee orizzontali invisibili. Dopo di che, in cucina, la donna scoprì che Sbrisà aveva mangiato degli spaghetti al ragù sopra le pagine di un libro aperto.

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     Nessuno ha mai creduto seriamente alla storia, apparsa anche sui giornali, che Annamaria Rovigatti, una contadina di un paesino nei dintorni di Frosinone, avesse il dono di fare le uova come le galline. Era una cosa ridicola, che non stava né in cielo né in terra. Eppure in molti giurarono di averla vista più di una volta accovacciarsi nei campi o in un angolo dell'aia di casa e tirar fuori dopo un po' un uovo da sotto a una lunga gonna nera, senza emettere alcun verso strano o lamento.
     Le uova fatte da Annamaria Rovigatti erano in tutto e per tutto, nella forma e nella sostanza, simili a quelle delle galline, per quanto leggermente più piccole del normale. Furono anche analizzate da una ASL di Frosinone e risultò che contenevano gli stessi ingredienti delle uova di gallina, insomma erano in effetti uova di gallina che però fuoriuscivano dall'ano della donna.
 E che così fosse, cioè che le uova uscissero veramente dall'ano di Annamaria Rovigatti, venne certificato da un'équipe di medici che presso l'ospedale di Frosinone sottopose a una verifica sperimentale la donna che, sicura del fatto suo, non si sottrasse alla prova. Anzi fu proprio lei a caldeggiarla scodellando davanti ai medici che la osservavano scettici un paio di uova a distanza ravvicinata l'uno dall'altro.
     La spiegazione offerta dai medici è che Annamaria Rovigatti ingoiasse uova di gallina intere, per quanto sottodimensionate, e che poi, grazie alla particolare durezza del loro guscio, da un lato, e alla speciale conformazione dell'apparato digerente della donna e all'elasticità del suo muscolo anale, dall'altro, riuscisse a espellerle intatte.
     Il fenomeno delle «uova umane», come lo chiamarono i giornali, fu chiarito definitivamente dal marito di Annamaria Rovigatti che, dopo la morte della donna, confermò la tesi dei medici. Aggiunse solo che la moglie, prima d'ingoiare le uova intere, le ungeva con un piccolo strato di margarina.

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  Fra i pazienti dello psicanalista Friedrich Rhümkorf, un allievo di Freud che per molti anni esercitò a Graz, c'era Anna Bachmann il cui nome è legato al caso della cosiddetta «sognatrice a comando». Dattilografa in una piccola fabbrica di laterizi, la donna possedeva doti speciali di sognatrice: di notte era in grado di sognare qualsiasi storia le avessero raccontato da sveglia; riusciva a riprodurla pari pari in sogno, senza dimenticarsi di nulla, mantenendo l'esatta successione degli avvenimenti così come le erano stati descritti.
     Ci sono persone che non sognano mai, o meglio che non si ricordano dei sogni che fanno, e vivono questo vuoto onirico come una ferita, una menomazione, una disgrazia. Periodicamente Anna Bachmann riceveva a casa sua, nel tardo pomeriggio, alcuni sfortunati «non sognatori» che le raccontavano storie fantastiche, astruse, a volte anche piccanti, con risvolti morbosi al limite della perversione, storie che avrebbero voluto sognare, ma che erano incapaci di mettere in sogno.
     La donna li ascoltava seduta in poltrona davanti a una tazza di tè e qualche pasticcino, memorizzandosi bene ogni particolare delle loro fantasie, anche il più piccolo. La notte stessa, poi, faceva il sogno che le avevano raccomandato.

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     Visitando la grotta di San Lorenzo posta in uno splendido paesaggio naturale, vicino all'omonimo fiume che scorre in Canada, non appena disceso un buon numero di scalini, a trecento metri circa dall'ingresso, si scorge sulla destra un'enorme concrezione calcarea da cui si sporgono verso il basso tre dita gelate, una delle quali, la più lunga, sembra indicare al visitatore un laghetto sottostante.
     Da quelle stalattiti si staccano a un ritmo regolare delle gocce che infrangendosi sulla superficie piatta del laghetto rilasciano un suono strano, leggermente amplificato da un effetto eco. Il suono, assolutamente naturale, non è il monotono e prevedibile «plin» che in genere fanno le gocce quando si annullano precipitando su una massa d'acqua.
     In realtà, a ogni caduta di goccia, in quel punto della grotta di San Lorenzo si sente come un bisbiglio, un sussurro che, all'inizio, appare confuso, indistinto. Ma se uno ci fa caso, il rumore creato dall'impatto delle gocce ha un che di familiare. Ascoltando attentamente si può distinguere in modo chiaro il suono di una conta, l'espressione di una vocina flebile che, dietro quel ticchettio martellante, snocciola in inglese i primi dieci numeri, one, two, three, four fino a ten. A ten il conteggio si arresta per riprendere subito dopo, incalzante, dall'inizio, one, two, three, four di nuovo fino a ten. E via di seguito, senza interrompersi mai.
     In alcuni periodi dell'anno, forse a causa del cambiamento di direzione delle correnti d'aria sotterranee, la conta che si sente è in francese.
 

"L'accalappiacani", settemestrale di letteratura comparata al nulla, DeriveApprodi, 1, gennaio 2008, pp. 73-77.



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