Paolo Albani
ESSERCI O NON ESSERCI
SU FACEBOOK?






     C’è gente più o meno importante che a propria insaputa, poiché qualcuno slealmente gli ha creato un profilo, si ritrova su Facebook e però non ci vorrebbe stare, per varie ragioni. E così si sente in obbligo di proclamare la propria ferma non appartenenza al social network più famoso e frequentato del mondo che da poco per altro ha compiuto dieci anni di vita, con più di un miliardo di utenti attivi che effettuano l'accesso almeno una volta al mese.

     Il fenomeno del non esserci su Facebook si sta sempre più diffondendo.

    L’ultimo annuncio di dissociazione da Facebook coinvolge Umberto Galimberti che, nella sua rubrica su D de la Repubblica del 22 febbraio scorso, in risposta a una lettrice che gli chiede «Lei è su Facebook?», subito precisa che lui no, non c’è su Facebook, non c’è mai stato e mai ci sarà, «anche se qualcuno - aggiunge Galimberti - si spaccia per me e scrive e risponde come se fossi io». In particolare Galimberti pone l’accento sul grado di solitudine che traspare dalle molte ore passate a controllare i propri profili, magari senza avere nulla d’interessante da dire, illudendosi di essere davvero esistenti grazie alle molte “amicizie” accumulate (in realtà contatti, per lo più di persone sconosciute). Tesi molto diffusa, sostenuta fra gli altri dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, il teorico della cosiddetta “società liquida” che è la società contemporanea in cui l’esperienza individuale e le relazioni sociali sono segnate da caratteristiche e strutture che si decompongono e ricompongono rapidamente in modo vacillante e incerto: secondo Bauman il successo di Facebook è dovuto principalmente al fatto che il suo inventore, Mark Zuckerberg, ha saputo intercettare la nostra paura della solitudine, di non essere visti e accettati.




     Più drastica la presa di posizione di Claudio Magris che in un articolo apparso sul Corriere della sera del 6 febbraio scorso si appella a un fantomatico comma 2 dell’articolo 20 della nostra Costituzione che sancirebbe il diritto a non partecipare, a non far parte di alcuna associazione. Anche Magris, come altri, un giorno ha scoperto di essere stato iscritto d’ufficio a Facebook, cosa che dichiara di non aver fatto né di aver mai avuto intenzione di fare, e rivendica il diritto alla sua disabilità digitale: i problemi che essa può crearmi nel mio lavoro, dice Magris, sono fatti miei, e non ho bisogno di generosi soccorritori simili a quei boyscout della barzelletta che aiutano la vecchietta a attraversare la strada, anche se la vecchietta non ha alcuna intenzione di attraversarla. C’è un Partito Invisibile, ammonisce Magris, che vorrebbe far indossare a tutti la stessa camicia, come un tempo la camicia nera, e lo fa in modo subdolo.

      Improntata alla sintesi è invece la risposta di Umberto Eco (anche lui vittima di un profilo Facebook indesiderato, e non poteva essere altrimenti: avere Eco come amico su Facebook è una meta ambitissima) a una domanda postagli sui social media durante un’intervista apparsa su La Stampa del 22 ottobre 2013: «Non sono su Facebook, non sono su Linkedin, non sono su nulla. La cosa non mi interessa, non mi lascio distrarre».

       Ecco, quello della distrazione è un tema ricorrente nelle motivazioni di coloro che non aspirano a essere su Facebook, o l’hanno abbandonato. Lo ritroviamo ad esempio in alcune dichiarazioni dello scrittore statunitense Jonathan Franzen: perdere tempo con i social media è frivolo in quanto soffoca e distrae dall’obiettivo importante della comunicazione. Più nello specifico Franzen pensa che Twitter «sia stupido e crei dipendenza» (La Stampa, 8 ottobre 2013).

       Che Facebook rappresenti una continua tentazione, ossia una perpetua fonte di distrazione, e più in generale che le reti sociali siano delle potentissime macchine di distrazione, ladre di tempo, è convinzione che circola ampiamente sui blog che sostengono un’astinenza benefica da Facebook, considerato uno strumento per carpire informazioni sui nostri desiderata consumistici e un mezzo con il quale perdere tempo passando le serate a cazzeggiare e a scambiarsi vuoti pettegolezzi. Un’altra diffusa iattura paventata dall’uso di Facebook è quella che può farti ritrovare vecchi compagni di scuola o di università, ex colleghi o amici d’infanzia, in altre parole un’ampia schiera di terribili scocciatori.

      Alla frenesia ossessiva del facebookismo dilagante c’è chi contrappone, all’opposto, il sano atteggiamento esistenziale di un Robert Walser: «scomparire il più discretamente possibile», atteggiamento che pone in qualche modo Walser fra i precursori di quel «diritto all’oblio» di cui oggi si discute tanto sul web.


7 giugno 2014

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