ALCUNI ANEDDOTI SU LEARCO PIGNAGNOLI Di aneddoti sull’attività letteraria di Learco Pignagnoli, scrittore e filosofo di cui si è parlato di recente in un convegno alla Fondazione Collegio San Carlo di Modena, ne esistono molti, che se uno volesse potrebbe scriverci su un libro. Ce n’è uno, ad esempio, di quando Pignagnoli compose una lunga poesia (quasi trecento versi) dopo una tranquilla pedalata in campagna. L’ispirazione gli venne guardando, di lato, l’ombra della bicicletta e del suo profilo in sella, proiettata sull’asfalto: siccome lui si muoveva e l’ombra rimaneva ferma, incollata alla strada, il fenomeno colpì Pignagnoli. A casa, ripensando a quella curiosa contraddizione ottica, si mise a scrivere, di getto, una poesia sul «perché ci sono innamorati che si perdono di vista». Alcuni amici di Pignagnoli raccontano che lui andava spesso dal dentista o dall’urologo, anche se non ne aveva bisogno, solo per leggere quei settimanali scandalistici che si trovano nelle sale d’aspetto dei medici - Chi è?, Il Sabato e la Domenica dei vip, Dietro le quinte, La TV fra sorrisi e palloni - che in edicola lui si vergognava a comprarli. Prendeva spunto dalla lettura di quei giornaletti per scrivere aforismi sul tema dell’invidia e su quello della morte. C’è chi giura di aver visto Pignagnoli, una mattina d’estate, con un cappello di paglia a larghe tese, fasciato da un nastrino azzurro, come quelli che portava Maurice Chevalier in teatro, e di averlo sentito dire, mentre usciva dal barbiere, al termine di un’animata discussione sul ciclismo: «Che spettacolo le parole!» Una volta la seconda moglie di Pignagnoli confidò a un’amica che il marito aveva l’abitudine, un attimo prima di mettersi a tavola, di leggere a voce alta, con una certa enfasi, il titolo di un articolo della Gazzetta dello Sport, come se fosse stato l’incipit di una poesia. Le rivelò anche che Pignagnoli perse quell’abitudine quando Felice Gimondi si ritirò dalle corse. È un particolare risaputo che, in certe occasioni (di solito quando aveva bevuto del tamarindo o dopo una partita a bocce), Pignagnoli si abbandonava a un suo personale, arabizzante modo di scrivere: gli succedeva di srotolare le parole da destra verso sinistra. Così, se doveva scrivere la frase: «La curva è pericolosa, ma bella», la componeva sul foglio partendo da «alleb» e la finiva con «aL». Diceva che scrivere in quel modo gli ricordava lo sforzo eroico di quando si affrontano le salite in bicicletta. Da Orazio Tagliaferro, che fu a lungo amico intimo del Pignagnoli, sappiamo che nell’estate del 1989, Pignagnoli, che per il gran caldo non riusciva a scrivere niente, decise di comprarsi un ventilatore oscillante a velocità regolabile, di quelli da terra, con l’asta lunga poggiata su quattro piedi. Pignagnoli lo accendeva e si metteva a scrivere camminando su e giù davanti alla ventola, seguendone i movimenti oscillatori, in modo da sfruttare – diceva – tutta l’aria fresca che l’apparecchio produceva. Quando Tagliaferro gli suggerì di tenere fissa la ventola, per risparmiare le forze (anche perché vedersi l’amico ondeggiare avanti e indietro, come un animale in gabbia, gli faceva venire il nervoso), Pignagnoli lo guardò storto e gli rispose: «È un modo come un altro di fare della ginnastica attiva!» Si dice che una volta, guardando il mare dalla terrazza della Pensione Eden, a Zadina Pineta sulla costa adriatica, Pignagnoli se ne uscì con questa riflessione (ripresa anche in una sua poesia): «Se il mare fosse piccolo non sarebbe più il mare». In un racconto autobiografico, apparso sulla rivista Il Cortile, Pignagnoli ricorda che da bambino gli piaceva salire sopra i peschi, allineati su cinque file nel campo dello zio, e sputare il nocciolo delle pesche sulla testa dei bambini che giocavano sotto di lui. Finché un giorno la mamma se ne accorse e lo sgridò: «Learco, non si fa così». Allora lui, impermalito, salì di nuovo sopra un pesco e sputò su una bambina la polpa della pesca macchiandole il vestitino, che le macchie di pesca sono difficili da togliere. Una vecchia fiamma del Pignagnoli, una certa Alfea Santini, che per alcuni anni fu la sua Musa, sostiene che Pignagnoli aveva il portamento, ma soprattutto l’abilità trasformistica del camaleonte. Si accorse di questa sua stranezza un giorno, quando vide Pignagnoli, seduto su una panchina color oliva, diventare verde a causa di una pallonata sul naso; e poi quando notò che sbiancava fatalmente dopo aver bevuto un bicchiere di latte freddo o sciando sulle piste dell’Abetone nel bel mezzo di una nevicata, o quando, ancora, si rese conto che Pignagnoli, anima romantica, arrossiva ogni volta che si trovava davanti a un tramonto purpureo. Un pomeriggio, mentre in camera
da letto svitava una lampadina fulminata
da uno dei bracci ricurvi del lampadario, Pignagnoli cadde dallo scaleo
e si ruppe la gamba destra. Lo ingessarono fin sopra al ginocchio e sul
gesso, come risulta dalla testimonianza della sorella, scrisse a
caratteri
minuscoli una bella poesia sull’«immobilità
cosmica».
Dopo quaranta giorni gli tolsero il gesso, che fu buttato via, dentro
il
raccoglitore dei rifiuti inorganici dell’ospedale, insieme alla poesia
del Pignagnoli, che infatti non figura nei suoi libri. Il testo è uscito in La governante di Jevons. Storie di precursori dimenticati, Campanotto, Udine 2007, pp. 55-59. Su Learco Pignagnoli, si veda il mio intervento, intitolato Pignagnoli mineralogista, al convegno su La vita secondo Learco Pignagnoli, scrittore e filosofo, organizzato da Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati, convegno svoltosi il 20 settembre 2003 nel teatro della Fondazione Collegio San Carlo di Modena nell'ambito del Festivalfilosofia. HOME PAGE TèCHNE RACCONTI POESIA VISIVA |