Paolo Albani
LA VOCAZIONE


Il mio primo pensiero, sui cinque anni,
fu quello di diventare imperatore.

Antonio Delfini, Lo scrittore e le donne

 La vocazione è un trasporto interiore, una tendenza innata che ti conduce a seguire certe attività invece di altre. Ognuno, nella vita, coltiva la propria vocazione, anche se non sempre ne è cosciente. «Quello lì – dice la gente – si vede lontano un miglio che è nato per fare il baritono o l’avvocato o il cercatore d’oro».
    La mia vocazione, fin da piccolo, è sempre stata una e una soltanto: fare il capo, il capo assoluto, incontrastato, ovvero, per dirla in modo più diretto e non lasciare margini di dubbio, fare il DITTATORE. Sì, non ho alcun ritegno a confessarlo: mi piacerebbe essere un dittatore, comandare su tutti, avere sempre l’ultima parola, non essere mai contraddetto o contestato. Decido io, e basta! Gli altri devono adeguarsi alla mia volontà, altrimenti peggio per loro, che stiano ben attenti, possono fare una brutta fine.


       


    Quella della dittatura è una vocazione che ho sempre sentito muoversi prepotentemente dentro di me, cui non posso sfuggire, tanto mi risulta irrefrenabile. Non c’è nulla da fare: sono nato per ricoprire il ruolo del dittatore.
    Come si diventa dittatori? Non esiste una scuola dove t’insegnano il mestiere del dittatore, un’università a cui uno s’iscrive per seguire dei corsi, ad esempio, su «Scienza dell’abolizione progressiva delle libertà individuali» o «Tecnica delle torture più efficaci per far parlare un oppositore» o «Storia comparata dei colpi di stato più cruenti nelle società moderne». Bisogna avere – prima di tutto – la vocazione, sentirsi all’altezza di questo tipo di attività, che per un verso ha i suoi rischi, ma può riservare grandi soddisfazioni e benefici non solo in termini economici; bisogna esserci portato, avere le qualità giuste per esercitare la professione del dittatore. È una scelta che va ponderata seriamente.

   
Uno si deve allenare ogni giorno, con impegno e regolarità, per diventare dittatore, seguire un metodo prestabilito; non è una professione che s’improvvisa quella del tiranno, da prendere sottogamba, è necessario esserci tagliato, avere l’attitudine al comando, la lungimiranza dell’uomo forte, altrimenti il rischio è finire male, tragicamente. La storia è piena di dittatori morti ammazzati, pugnalati, appesi a testa in giù, fucilati o avvelenati, magari dai propri uomini di fiducia o da un congiunto traditore.

   
La prima cosa che devi avere per fare il dittatore è il fisico, il phisique du rôle, adatto alla parte da interpretare. In primo luogo un dittatore si caratterizza per la testa quadrata, cioè con tutti i lati uguali, simbolo di forza maschia, decisionismo, intransigenza. Per fortuna fin da bambino ho avuto una certa predisposizione naturale alla forma quadrata della testa; per facilitarne la realizzazione geometrica, a suo tempo, mi feci costruire da mio padre una specie di imbracatura di ferro da applicarmi intorno alla testa, poggiante sulle spalle, un telaio metallico in modo che la testa non avesse cedimenti laterali e si sviluppasse secondo la conformazione desiderata, cioè la quadratura.

    All’inizio i miei compagni di classe, vedendomi con quello strano arnese in testa, che mi comprimeva le tempie e gli zigomi, mi prendevano in giro, li sentivo sghignazzare alle spalle; io, senza perdere la calma, spiegai loro che quel telaio era come l’apparecchio ortodontico che si mette in bocca a un bambino o a un adulto per far sì che i denti non crescano sbilanciati in fuori, e loro, dopo un po’, ci fecero l’abitudine, e non mi presero più in giro, anche perché, quando vennero a sapere che da grande volevo fare il dittatore, si dettero delle occhiate fra lo stupito e il compassionevole e non tornarono più sull’argomento.

    Un’altra cosa che un dittatore deve avere, dal punto di vista fisico, sono i capelli corti, cortissimi, quasi rapati a zero, e non lascarsi allungare la barba, e nemmeno i baffi, che sono segni di decadenza e di sciatteria. Un dittatore, almeno per l’idea che mi sono fatta io, dev’essere completamente glabro, liscio come una patata pelata; una peluria eccessiva rimanda all’idea dei primati, delle scimmie di cui si può dire tutto, ma non che siano degli esseri viventi con un quoziente d’intelligenza elevato. Gli uomini ricoperti di peli in tutto il corpo sono ripugnanti, hanno un che di primitivo, di zotico.

    Altra peculiarità di un dittatore riguarda le donne, problema delicato, ma importante. A parte una moglie ufficiale, quella che gli permette di avere dei discendenti e lo accompagna durante le cerimonie istituzionali, stringendo le mani dei capi di Stato ricevuti nel palazzo di rappresentanza o incontrati all’estero, un dittatore deve avere molte amanti, giovani e carine, scelte da lui stesso in segreto, senza che la prescelta possa rifiutarsi di soddisfare gli appetiti (insaziabili) del dittatore, pena una condanna esemplare e un castigo terribile eseguito dalla polizia segreta. Un dittatore, per mantenersi in forma e rilassarsi dalla fatica che l’esercizio del potere implica (controllare un’intera nazione in tutti i suoi flussi di comportamento e di smistamento sociale è una responsabilità immensa), deve copulare spesso, a intervalli regolari e ogni volta con una femmina diversa, perché cambiare partner mette di buon umore il dittatore e sopisce, almeno in parte, lo stress che gli viene dalle preoccupazioni politiche cui deve far fronte tutti i giorni, che non sto qui a elencare tanto sono evidenti.

    Insomma si sarà capito che la mia vocazione, coltivata fin dall’infanzia, è riuscire con ogni mezzo a diventare un dittatore, un vero e proprio tiranno a tutti gli effetti e con tutti i crismi, a ricoprire questa funzione sociale, strategica e significativa, all’interno del mio paese per il benessere della collettività.

    Se riuscirò nell’intento, cioè se un giorno potrò coronare il mio sogno e dare uno sbocco concreto alla mia vocazione, i primi due provvedimenti che emetterò, com’è vero Iddio, seduta stante e con esecuzione immediata, saranno questi:

1) la fucilazione, senza che sia celebrato alcun processo, di quel mangiapane a tradimento di Remo Alberotti, il cuoco dell’istituto che mi ospita, colpevole di propinarmi da anni le stesse schifosissime minestrine, sciapide e con la pastina stracotta dentro il brodo, e tutte le pietanze comprese nel menu, altrettanto schifose e immangiabili, a giudizio anche degli altri commensali (stufati con carne dura come il marmo; foglie d’insalata semimarce lavate male che fra una foglia e l’altra puoi trovarci di tutto, dai vermi alle conchiglie marine; patate lesse galleggianti in olio da meccanico; affettati color moribondo; frutta appassita; ecc.). Il provvedimento di fucilazione dell’Alberotti sarà accompagnato da un’ordinanza suppletiva che impone al suddetto Alberotti, prima di cadere sotto il fuoco del plotone di esecuzione, di mangiarsi, quale ultimo pasto da condannato a morte, almeno dieci scodelle di minestrine in brodo da lui stesso preparate; le scodelle dovranno essere colme fino all’orlo;

2) l’arresto e la deportazione dell’eminente (sic) dottor Fulgido Spinaccioli, gran figlio di puttana, in una cella sotterranea della fortezza più buia, umida e scalcinata del paese, fino alla fine dei suoi giorni, con interdizione alle visite di qualsiasi persona, parente stretto o amico, in modo da porre termine alle lunghissime, estenuanti sedute in cui Spinaccioli, senza un attimo di sosta, mi rompeva i coglioni per sapere cosa pensavo di questo o quell’altro concetto astruso, di questo o quell’altro problema di cui non afferravo un briciolo di senso. L’unico a poter visitare lo Spinaccioli, grazie a una specifica ordinanza, sarò io, il dittatore – supremo e insindacabile – e lo farò almeno una volta alla settimana, non per interrogare quella merda di Spinaccioli e porgli, come disponeva lui durante le nostre spossanti sedute, chissà quali assurdi rompicapo e frasi inconcludenti, ma semplicemente per stargli di fronte, faccia a faccia, a un centimetro dal quel suo naso a becco d’aquila e le sue ridicole sopracciglia folte, e guardarlo negli occhi, in silenzio, e magari ogni tanto, in deroga allo spirito dell’ordinanza da me medesimo firmata, sussurrargli scandendo bene le parole: «Dottor Spinaccioli, lei è un coglione patentato!»
    E ritornare a guardarlo, in silenzio.


luglio 2019

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