Paolo Albani
LA VERITÀ POETICA
Al
convegno organizzato alcuni anni fa dal Dipartimento di Italianistica
dell’Università di Genova sul tema «Felice Corsetti: un precursore
dell’idea di poesia come verità», cui parteciparono illustri studiosi
fra cui Edoardo Sanguineti e Sergio Pautasso, suscitò un certo scalpore,
anche per il taglio provocatorio e non propriamente accademico, la
relazione del professor Luciano Brandi che si apriva con queste
considerazioni preliminari:
«Una sera, al Teatro Costanzi di Roma dove
si rappresentava la commedia Così sia di Gallarati Scotti nella
magistrale interpretazione della Duse, al termine dello spettacolo,
Gabriele D’Annunzio rivelò al conte Ruggero Ruggeri che il 9 luglio del
1918, durante il clamoroso volo su Vienna, al comando della squadriglia
Serenissima, sporgendosi dal finestrino dell’aereo per gettare dei
manifestini tricolori, perse il berretto da aviatore che fece due o tre
capriole in cielo, vicino alla punta dell’ala sinistra dell’aereo, e poi
velocemente precipitò a terra finendo (il fatto gli fu riferito da un
amico che, all’epoca, lavorava nella capitale austriaca) sul davanzale
di una delle finestre della casa di Karl Kraus, in Hintere
Zollamtestraße 3, proprio nel momento in cui lo scrittore austriaco,
sorseggiando una tazza di tè, stava scrivendo un pezzo per la sua
rivista Die Fackel (La fiaccola).
L’episodio, come ha osservato William Dummet, uno dei
biografi più autorevoli del conte Ruggeri, si è rivelato completamente
falso, inventato di sana pianta dal vate abruzzese. Quel giorno infatti,
il 9 luglio del 1918, è certo che Karl Kraus non era in casa, ma si
trovava in visita da una cugina di parte materna.
In una lettera a Charles Toubin del
28 dicembre 1847, Baudelaire confidò all’anziano prelato che un giorno,
in prossimità del natale, saranno state sì e no le cinque del
pomeriggio, mentre se ne stava tranquillo a leggere il Corsaire, di cui
era uno dei collaboratori più illustri, seduto a un tavolino del café de
la Rotonde a Parigi, noto anche come café Turlot, dal nome del gestore,
si era accorto con la coda dell’occhio che, di fianco a lui, una
vecchietta dal volto grinzoso e il naso sfrontatamente adunco, lo stava
fissando da alcuni minuti in modo sfacciato, ostentando un’aria severa,
quasi di disprezzo, e che allora lui, d’istinto, come soggiogato da una
forza indomabile, si era alzato e aveva schiaffeggiato la vecchietta
gridandole insolentemente: "La vostra faccia, Madame, è una poesia senza
colore!"
Di questo fatto increscioso, sintomatico del
caratteraccio del poeta francese, non vi è alcuna traccia nei numerosi
libri scritti sulla sua vita, nemmeno in quello, mostruosamente
documentato, di Claude Pichois e Jean Ziegler, cosa che fa sospettare, a
buon diritto, che la vicenda non sia mai accaduta e che sia, con ogni
probabilità, solo il frutto della fantasia di Baudelaire.
In un appunto autografo di Edgar
Allan Poe, datato 22 settembre 1843, ritrovato fra le sue carte nella
casa della zia paterna, Maria Clemm, a Baltimora, si legge che, in quel
periodo, allo scrittore de La lettera rubata capitava spesso di
svegliarsi presto al mattino e d’incrociare la cara vecchia zietta che
già frullava per casa, strascicando i piedi impantofolati, avvolta in
una vestaglia scura e con una pezzuola ugualmente nera che gli copriva i
capelli non più brillanti, e le grandi orecchie di cui si vergognava
moltissimo, e che lei, la zia, si metteva in testa quello straccio
perché da tempo soffriva di una fastidiosa otite, e che una volta,
chissà per quale strana associazione d’idee, quell’immagine fece venire
in mente a Poe il profilo di un uccellaccio del malaugurio e che subito,
lui, il poeta, dopo la sesta o la settima di quelle apparizioni
mattutine della zia imbacuccata, vestita di nero come una donna italiana
del sud, si mise a scrivere Il corvo (The Raven), così di getto, senza
pensarci su troppo, in uno stato quasi di trance, una poesia che per
altro, non appena pubblicata nel 1845, ebbe un grande successo.
Un appunto, questo di Poe, scritto su un foglietto
ingiallito delle dimensioni di 10x12 centimetri, leggermente lacerato in
basso a destra (oggi custodito presso la biblioteca dell’Università di
Baltimora), che contrasta vivacemente con quanto il poeta affermerà,
alcuni anni dopo, ne La filosofia della composizione (1846):
"La maggioranza degli scrittori – in special modo i
poeti – preferiscono far credere che il loro lavoro si svolga in una
sorta di raffinata frenesia – una intuizione estatica – e tremerebbero
al pensiero che il pubblico potesse dare un’occhiata dietro le quinte,
alle elaborate e brancolanti rozzezze intellettuali – alle vie giuste
imboccate solo all’ultimo istante – alle innumerevoli illuminazioni che
non arrivano mai alla maturità della piena coscienza – alle fantasie
giunte a maturazione e poi scartate per disperazione perché inservibili –
alle cernite prudenti e ai rifiuti – alle cancellature dolorose e alle
interpolazioni. [...] Il mio disegno" - spiega Poe - "è di mostrare come
nessun particolare della [...] composizione [di The Raven] sia
attribuibile al caso o all’intuizione – e come il lavoro abbia
proceduto, passo dopo passo, sino al compimento, con la precisione e la
rigida coerenza di un problema di matematica".
Dunque a quale dei due Poe dobbiamo
credere? A quello dell’appunto inedito, privato, che parla, in primo
luogo a se stesso, dell’ispirazione che gli è venuta guardando
l’abbigliamento ridicolo della vecchia zia Clemm in una fredda mattinata
baltimoriana oppure all’altro Poe, quello smaliziato, pubblico, allo
scrittore di professione, in cerca di riconoscimenti, che scrive
coscientemente per i suoi lettori e per gli addetti ai lavori, i critici
letterari, nella speranza d’invogliarli a recensire i suoi libri?
Davvero non lo sapremo mai.
Ma perché diciamo tutto questo? Per sostenere che cosa?
Semplicemente che è meglio non fidarsi dei poeti (e
degli scrittori in genere), che bisogna prendere le loro dichiarazioni
di poetica, i loro proclami con le molle, che bisogna dubitare
seriamente dei loro appunti autobiografici, delle loro scartoffie e
lettere private, scritte - un giorno sì e un giorno no - a Tizio e a
Caio, a un medico-confessore, a un critico compiacente, a una donna
amata, a un parente facoltoso magari per spillargli dei soldi. Che poi,
queste lettere cosiddette "private", tanto private non lo sono quasi
mai, perché, alla prima occasione, i poeti si fanno in quattro per
trovare un editore che le stampi, e in belle edizioni, in cofanetti
raffinati.
Perché "il poeta è un fingitore", come sosteneva
Pessoa, e "finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/
il dolore che davvero sente".
La letteratura stessa è menzogna, per dirla con Manganelli:
"un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale
destinazione. [...]. La letteratura si organizza come una
pseudoteologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il
suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mortali e
immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito. [...] Con le sue
proposizioni ‘prive di senso’, le affermazioni ‘non verificabili’, [la
letteratura] inventa universi, finge inesauribili cerimonie [...]
possiede e governa il nulla".
Ma allora, se è un fenomeno risaputo e
diffusamente accettato che i poeti mentono sapendo di mentire, che è
nella loro natura di poeti praticare esteticamente e in pubblico la
menzogna, abbandonarsi alla finzione, al gioco illusionistico, alla
logica dell’inganno, al trompe-l’œil linguistico, se tutto questo è
incontestabile, assodato, ben noto, e non da oggi, se già nella
Repubblica di Platone troviamo un monito contro la scrittura ingannevole
dei poeti, appare lecito domandarsi: "Che senso ha attribuire a Felice
Corsetti il ruolo di precursore dell’idea di poesia come verità?"»
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