UNA LETTURA PARTICOLARE
di
Paolo Albani

 Quel libro, Beniamino Traversari - Bebo per gli amici - l'aveva comprato due mesi prima in una cartoleria del centro storico di Siena, su consiglio di una vicina di casa appassionata di gialli. Era un romanzo in edizione economica, 2.134 pagine, copertina azzurra su cui spiccava il famoso disegno di Escher Convesso e concavo. Un romanzo che però Traversari non si era ancora deciso a cominciare a leggere. Al solito gli mancava il tempo, o la voglia, o forse tutte e due le cose insieme. 
 Dunque quel libro, probabilmente destinato, come tanti, a una fine ingrata (il silenzio della non-lettura), oziava da almeno due mesi in un angolo dello scrittoio del soggiorno, vicino a un apparecchio telefonico con fax.
 Traversari s'inventava sempre delle scuse per rinviarne la lettura. Una volta era stanco perché aveva lavorato troppo (gli avvocati, si sa, non hanno orari); un'altra volta non trovava gli occhiali e gli faceva fatica mettere a soqquadro la casa per scovare dov'erano finiti («Gli occhiali spunteranno fuori all'improvviso», si consolava Traversari, «quando uno meno ci pensa; basta solo aspettare: "la casa prende, la casa rende"»), oppure una sera davano un bel film in televisione, un western che era tanto che voleva vedere, ma l'aveva sempre perso, e allora, quella sera, s'impuntava giurando a se stesso che doveva vederlo a tutti i costi quel film, che niente e nessuno l'avrebbero distratto: il romanzo poteva aspettare, non scappava mica. E poi: «I romanzi non hanno una scadenza», sentenziava, ipocrita, Traversari in quelle occasioni, «non sono come certi generi alimentari che se uno non li mangia subito, freschi, dopo un po' vanno a male, si deteriorano, fanno la muffa». Perciò il suo romanzo l'avrebbe iniziato il giorno dopo, sì, domani, con calma.
 Domani, si ripeteva ogni volta. «Domani comincerò a leggerlo». Domani, ora non c'è fretta. 
 Per rassicurarsi, diceva ancora a se stesso che, prima di prendere in mano un romanzo, ovvero un genere particolare di libro - che lui, in cuor suo, non riteneva né più facile né più difficile di altri - bisognava che uno, comunque, quel benedetto romanzo si sentisse in animo di leggerlo. Era importante, cioè, che uno scegliesse il momento opportuno, avesse la concentrazione giusta, si predisponesse psicologicamente all'impresa come fanno gli atleti prima di una gara importante. Altrimenti correva il rischio di farsi andar via la voglia appena lette due o tre pagine (o nei peggiori dei casi, due o tre righe), di perdere lo stimolo a continuare, di essere tentato di mollare tutto e riporre il libro, con le sue 2.134 pagine, da qualche parte in casa, di dimenticarselo, com'era capitato a Traversari, in un angolo dello scrittoio, facendosi venire un senso di frustrazione («Vedi, sei uno che lascia continuamente le cose a metà!»).
 E così, aggrappandosi alle sponde insicure di quei ragionamenti tortuosi, e un po' pretestuosi, succedeva che Traversari, in un modo o in un altro, rimandava sempre il momento in cui sprofondarsi tranquillo su una poltrona o sotto le coperte e mettersi a leggere quel romanzo. In questo, nell'arte difficile, ma sublime di prendersi del tempo, di traccheggiare, di tirarla per le lunghe, di indugiare, e perciò alla fine di non decidersi mai, su tutto, e quindi anche sul fatto di per sé innocuo di dedicarsi alla lettura di un romanzo, era molto abile.
 C'è da aggiungere che Traversari non andava pazzo per i romanzi, nella sua vita ne aveva letti pochissimi. Qualche superficiale lettura scolastica: I Promessi Sposi, La certosa di Parma, Il dottor Živago, I giardini dei Finzi-Contini, Questa specie d'amore. Poi fino all'inizio dell'attività professionale, soltanto un piccolo elenco di best seller, fra quelli creati dalle penne di Wilbur Smith, John Le Carré, Stephen King, Harold Robbins, Ken Follett, Robert Ludlum, Michael Crichton, letti più che altro durante le vacanze estive, sotto l'ombrellone.
 Dal giorno in cui aveva aperto lo studio di avvocato, insieme a due compagni di università, in un bel palazzo antico vicino al duomo di Siena, Traversari non aveva più letto un romanzo, preso com'era dal suo lavoro e da altre occupazioni, a dire il vero, per lui più interessanti. 
 A Traversari ad esempio piaceva giocare a tennis, ogni sabato al mattino presto, in un campo di terra rossa gestito da un circolo ricreativo di dipendenti delle ferrovie, oppure andare a caccia, specie del cinghiale in Maremma, ma anche all'estero, in Ungheria o nell'attuale Repubblica Ceca, con gruppi organizzati di cacciatori, alcuni dei quali, in quei paesi dell'Est, intorno agli anni sessanta-settanta, abbinavano all'attività venatoria, la caccia di fanciulle slave ben disposte al passatempo. E poi ancora gli piaceva la pesca subacquea; fare jogging; correre in go-kart; giocare a calcetto (ogni tanto partecipava a qualche torneo in notturna fra squadre formate dai clienti di bar di sportivi); andare al cinema, alle Feste dell'Unità per mangiare la rosticciana e i bomboloni caldi con la crema dentro e ai raduni motociclistici (aveva un Harley Davidson del 1987), fasciato in una tuta di pelle nera e con un casco grigio metallico con su dei disegni strani, psichedelici, che a vederlo camminare per strada conciato in quel modo Traversari sembrava un astronauta; seguire le partite di basket, anche in trasferta, della sua amatissima Montepaschi Siena; collezionare boccali di birra; fare del volontariato con la Croce Verde; e per ultimo, ma più di ogni altra cosa, gli piaceva innamorarsi appena una ragazza carina gli faceva gli occhi languidi, salvo disimpegnarsi rapidamente quando si profilava all'orizzonte il pericolo di un legame duraturo, di un'insana richiesta di matrimonio.
 È dunque logico immaginare che, occupato in così tante attività ricreative (e dispersive in certi casi), Traversari non trovasse mai il tempo di leggere dei romanzi. Le sue letture si limitavano, com'è naturale, agli atti dei processi che seguiva, e agli aggiornamenti in fatto di nuove leggi e di sentenze storiche, controverse. Che lui, un po' carrierista, non voleva sfigurare nell'ambiente forense, gli piaceva emergere, diventare, come si dice, un «avvocato di grido», e perciò si teneva informato sulle novità giuridiche, consultava le riviste più accreditate di diritto (alle più importanti delle quali il suo studio era abbonato) divorandone i saggi innovativi.

 Una sera, poco prima della mezzanotte, a casa, mentre stava parlando al telefono con un cliente, Traversari si accorse del libro dalla copertina azzurra, spostando dei fogli, alla ricerca di una fattura commerciale di cui doveva verificare il numero e la data di emissione. Il libro era lì, in disparte, abbandonato sullo scrittoio. Lo guardò distrattamente, quasi soprappensiero, continuando a parlare di faccende processuali con il suo interlocutore telefonico. Quindi, aiutandosi con la mano libera dalla cornetta, se lo avvicinò al volto e ne lesse il titolo, un titolo breve, facile da ricordare. Poi, lo poggiò di nuovo sullo scrittoio e cominciò a sfogliarlo cercando di non farlo cadere, ancora conversando al telefono.
 Casualmente, verso l'inizio del romanzo, sbirciò sulla parte in alto di una pagina e lesse questa frase: 

Un'ansia strana si accende dentro di me alla sera, e non è un rammarico delle gioie perdute, piuttosto...

 Quella frase, isolata dal contesto del romanzo, cioè da tutto quanto era scritto prima e dopo di essa, non aveva niente di speciale. Era una frase come tante, incolore, senza forza emotiva, il frammento di un'amara riflessione che può capitare di leggere fra i risvolti di una storia qualsiasi. Eppure, in quella banale circostanza (una telefonata di lavoro), chissà perché fece scattare in Traversari una molla che fino ad allora aveva creduto arrugginita, bloccata. 
 Sentì dentro di sé come un clic, uno sfregamento interiore, l'agitarsi di un pungolo, di una leggera brezza di curiosità. Niente di più. Ma sufficiente, lì per lì, a fargli venire in mente l'idea, non appena riattaccato il telefono, di portarsi il libro a letto e di cominciare a leggerlo, o almeno di fare un tentativo in quella direzione, felice come se avesse deciso di cominciare un nuovo gioco, di sperimentare una nuova sfida.
 Insomma, quella sera, gli parve di avere la concentrazione giusta per leggere un romanzo. E non volle farsela sfuggire.

 Saltò l'introduzione e le note bio-bibliografiche dell'autore, che occupavano una ventina di pagine, trovandosi subito ad affrontare, con un certo timore, il primo capitolo. 
 Il romanzo si apriva con la descrizione di questa scena:

 La stanza di Olga Miturič, una badante russa di 23 anni, era pervasa da un acre profumo di sandalo che si espandeva nell'aria, rilasciato da lunghi segnali di fumo che si contorcevano in modo sinuoso, danzando sulla punta di un bastoncino indiano incandescente, sostenuto per tre quarti da un portacenere di vetro.
 Di fronte al letto, appena qualche centimetro sopra un tavolino di ciliegio a tre piedi, spiccava la riproduzione di un quadro di Toulouse-Lautrec che ritraeva, al centro, una ballerina con le gonne sollevate. La luce dell'abat-jour, posta su uno dei due comodini di fianco al letto, era accesa e la sveglia elettronica segnava, in numeri rossi fosforescenti, le 10:30, con i due punti di separazione fra il 10 e il 30 che brillavano a intermittenza. 
 Completamente nuda, Olga era sdraiata sul letto, a pancia in giù, con un braccio che le penzolava verso il pavimento, quasi a sfiorare due ciabattine di peluche perfettamente allineate fra di loro. Il corpo della donna, ben fatto, di un rosa color tramonto estivo, mostrava in primo piano, entrando nella stanza, due natiche stupendamente rotonde, carnose e sensuali.
 Solo dopo che ebbe girato lentamente il corpo della donna, scoprendone il viso, il commissario Polidori si accorse che Olga aveva vicino a un capezzolo...

 L'inizio fece una buona impressione a Traversari che si rannicchiò nel letto, disteso su un fianco, le gambe ripiegate ad angolo, per concentrarsi meglio. Pagina dopo pagina rimase fermo in quella posizione, incollato al libro fino alle sei e mezzo del mattino, fino a quando, cioè, non sentì la sveglia lanciare, implacabile, i fastidiosi bip bip che aveva programmati in memoria.
 Dopo tre giorni, in modo sorprendente, e al di là di ogni aspettativa, Traversari aveva già letto più della metà del romanzo. Si era spinto, senza nemmeno accorgersene, fino al capitolo XVI, là dove il commissario Polidori faceva la conoscenza di un nuovo personaggio, la «candida Alina», una moldava dagli occhi di ghiaccio, figlia di un generale dell'esercito in pensione, una figura importante del romanzo, le cui rivelazioni saranno utili al commissario Polidori per scoprire i retroscena di un commercio internazionale di schiave bianche gestito dalla mafia russa.
 Più passavano i giorni e più Traversari si appassionava alla trama del romanzo. Ormai non riusciva a staccarsene più. Leggeva in media settanta-ottanta pagine per notte, senza interruzioni, tutte di un fiato, salvo qualche pausa fisiologica per andare in bagno. Volendo mantenere quei ritmi di lettura notturna (leggeva quasi sempre di notte per non sottrarre tempo al suo lavoro in tribunale), aveva persino sospeso o messo un freno ad alcune attività ricreative.
 Il romanzo fu una vera sorpresa per Traversari. Le storie si succedevano avvincenti, una dietro l'altra, in un vortice godibile, magistralmente strutturato, dentro il quale Traversari si gettava famelico, episodio dopo episodio. L'intreccio narrativo filava via serrato, coinvolgente. Il romanzo, ricco di spunti, sembrava non avere mai fine, somigliava a un enorme puzzle perechiano.
 A volte certi personaggi del romanzo sparivano, si eclissavano nel nulla e poi, d'improvviso, ricomparivano. Se una spia tedesca lasciava il passo a uno scrittore che, per via di una delusione d'amore, si era arruolato in Africa come mercenario, ecco che dopo cinque, sei capitoli la stessa spia tedesca rispuntava fuori, ed era più attiva che mai, per poi dileguarsi di nuovo tre capitoli più avanti, sostituita da un prete alcolizzato, succube di un feroce trafficante d'armi, sempre sul punto (il prete) di riscattare la propria miserabile esistenza, ma debole, condannato a piegarsi di fronte alle tentazioni del male, e via di questo passo, in un crescendo di azioni rocambolesche, di colpi di scena, di avventure intriganti.

 Ci vollero due anni a Traversari - tenendo fede mediamente a quei ritmi di lettura di cui s'è detto - per giungere fino al capitolo LXVI, che però, attenzione, non era destinato a essere l'ultimo. Altri capitoli lo attendevano, sebbene lui lo ignorasse, altre storie, altri colpi di scena, altre spie tedesche, scrittori mercenari o preti alcolizzati che sparivano di scena e ricomparivano qualche pagina dopo.
 Perché, mentre lui si prodigava, felice, nella lettura di quel libro, tutte le notti, senza il minimo segno di stanchezza, di noia, il romanzo era come se si allungasse piano piano sotto i suoi occhi, prendesse ogni volta una strada nuova, imprevedibile, inesplorata, fosse continuamente proiettato in avanti, in una dimensione di perenne irrisolutezza, capace di ordire, personificazione cartacea di una laboriosa Penelope, un'infinità di trame. 
 Insomma era come se Traversari stesse guardando, senza averne coscienza, non dentro le pagine di un romanzo, ma dentro uno di quei pozzi di cui non si riesce a scorgere la fine tanto sono profondi.
 Sembrerà strano, ma per tutta la vita, anche dopo essere diventato un «avvocato di grido» e aver sposato in chiesa, con una cerimonia faraonica, la figlia di un influente giudice senese, una brava ragazza dagli occhi dolci, da cui ebbe tre maschi e una femmina, l'unica che seguì le orme del padre, Traversari continuò a leggere, imperterrito, quel romanzo, a goderselo come un frutto esotico raro, a centellinarselo avidamente, inconsapevole che ogni notte, a sua insaputa, il libro - o forse l'idea che di quel libro Traversari s'era fatta, da lettore inesperto - si arricchiva costantemente di capitoli nuovi, di nuovi personaggi.
 Per di più, se si pensa che era da anni che non leggeva romanzi, lo continuò a fare in modo encomiabile, pieno di entusiasmo.


Almanacco del Bibliofilo, 15, 1 gennaio 2005, pp. 19-30.
Questo numero dell'Almanacco, intitolato "Antologia di racconti e saggi di bibliofilia", a cura di Mario Scognamiglio, contiene testi di (in ordine di apparizione) Giulio Andreotti, Paolo Albani, Annalisa Bruni, Gianni Cervetti, Gianandrea de Antonellis, Oliviero Diliberto, Gianfranco Dioguardi, Umberto Eco, Curzia Ferrari, Mauro Giancaspro, Giuseppe Marcenaro, Elio Palombi, Mario Scognamiglio,  Pietro Spirito, Armando Torno.

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