Paolo Albani
SULL’UMORISMO
INVOLONTARIO






 1. Devo confessarvi che ho sempre nutrito una certa istintiva diffidenza verso la parola «creativo». Non so spiegarvi bene perché, ma la parola «creativo» l’ho sempre percepita come una parola narcisistica, vanagloriosa, compiaciuta di sé, e poi, se devo essere sincero, la trovo un tantino abusata, elargita spesso in modo disinvolto, troppo generoso: ho letto una volta un articolo dedicato alla creatività dei barbieri, con tutto il rispetto per questa benemerita categoria. 
Anche le cosiddette Scuole per aspiranti scrittori, mi domando perché mai le chiamano Scuole di scrittura creativa? La scrittura letteraria dovrebbe essere, come diceva Manganelli, non solo arbitraria, ma anche viziosa, provocatoria, disubbidiente, beffarda. E allora sarebbe più giusto che quelle Scuole fossero chiamate, che ne so, Scuole di scrittura bizzarra, irriverente.
Mi piace molto invece, e la preferisco di gran lunga alla parola «creativo» in fatto di fantasia e d’immaginazione, la parola «ri-creativo», per quello scarto in più di svago, di divertimento, di umoristico che contiene. Ecco, in questo mi sento vicino a Queneau e ai suoi sodali oulipiani.
 L’umorismo, per quanto sia una delle cose più difficili da spiegare (ci hanno provato scrittori, filosofi, psicanalisti, tutta gente qualificata a parlare sull’argomento), è certamente ri-creativo, nel senso che ci fa riflettere predisponendoci allo stesso tempo al buon umore, è un congegno, un dispositivo capace di produrre il riso o il sorriso arricchendo le nostre conoscenze.
 Che sia un fenomeno complesso, l’umorismo, lo testimonia il fatto che esistono svariate forme di riso. Come ricorda Rostilav Nikolaevic Jurenev, teorico e storico della commedia cinematografica, il riso può essere:

gioioso e triste, buono e indignato, intelligente e sciocco, superbo e cordiale, condiscendente e insinuante, sprezzante e sgomento, offensivo e incoraggiante, sfacciato e timido, amichevole e ostile, ironico e sincero, sarcastico e ingenuo, tenero e rozzo, significativo e gratuito, trionfante e giustificatorio, spudorato e imbarazzato. È ancora possibile allungare l’elenco: allegro, malinconico, nervoso, isterico, beffardo, fisiologico, animalesco. Forse anche un riso tetro! (Vladimir Jakovlevic Propp, Comicità e riso. Letteratura e vita quotidiana, Torino, Einaudi, 1988, p. 15).

 Fra le molteplici declinazioni in cui l’umorismo può articolarsi, forse quella più nutriente, e per certi versi sublime, è l’umorismo involontario
Così lo definisce Achille Campanile nel suo Trattato delle barzellette (1961): «quando uno vuol fare o crede di fare una cosa seria e invece, o per errore, o per sbadataggine, o per ignoranza, o per caso, fa una cosa comica» (Achille Campanile, «Trattato delle barzellette», in Opere. Romanzi e scritti stravaganti 1931-1974, Milano, Bompiani, 1994, pp. 557-1005, si cita da pag. 897).
 Dunque esiste una «creatività» - se mi è concesso per una volta l’uso di questo termine discutibile - involontaria (inconscia direbbe Freud). Del resto Alberto Savinio sosteneva che gli errori, come vedremo meglio più avanti, si risolvono non di rado in un effetto comico, e sono non soltanto felici, ma addirittura provvidenziali. Perciò non c’è da stupirsi che nella Grammatica della fantasia (1973), testo canonico sul versante della ri-creazione, Rodari abbia dedicato un capitolo a «L’errore creativo». «Gli errori», afferma Rodari ne Il libro degli errori (1963), «sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa».
 

 2. Una prima sfumatura dell’umorismo involontario è data dagli strafalcioni degli scrittori.
Un vero maestro in questo campo è Pierre-Alexis Ponson du Terrail (1829-1871), autore del popolare ciclo di Rocambole, composto di 22 volumi usciti nel periodo 1859-1867. Ponsons du Terrail è uno scrittore prolifico, inarrestabile, anche per motivi biecamente economici, ma non sempre - viene da pensare - rilegge quello che scrive, così dissemina il suo romanzo di frasi come queste:

Con la mano destra afferrò il pilota, con la sinistra strinse a sé la fanciulla, e coll'altra chiamò al soccorso!

Egli passeggiava su e giù pel giardino con le mani dietro la schiena, leggendo tranquillamente il giornale.

E la carrozza partì al rapido trotto di due cavalli lanciati al galoppo!

Ah! Ah! - fece egli in portoghese.

 Odo il passo di un mulo… È il mio amante.

Si toccò la mano... Orribile!! La sua mano era viscida e ghiacciata come quella di un serpente!

 In un saggio dedicato a «Gli spropositi» di Americo Scarlatti (1855-1928), pseudonimo di Carlo Mascaretti, bizzarro collezionista di amenità letterarie e non, raccolte in Et ab hic et ab hoc, enciclopedia in dodici volumi (1920-1934), troviamo altre perle di umorismo involontario, come il passo di questo «terribile dramma» di cui non viene riportato l’autore:

Il Sultano – Qual rumore è questo?
Il Gran Vizir – Sire, vi sono dinnanzi al palazzo cinquantamila muti che chiedono ad alte grida di parlarvi.
Il Sultano – Ma sono realmente muti?
Il Gran Vizir – Essi lo dicono, Sire!

o questa frase attribuita a un non meglio specificato «valoroso romanziere» Dennery:

 Non aveva che settant’anni, ma ne dimostrava il doppio.

 I vecchi romanzi d’appendice d’un tempo, ricorda Campanile, erano fonte inesauribile di umorismo involontario, e riporta questo esempio:

La fanciulla aveva due candide braccia perfettamente tornite, come quelle della Venere di Milo.

che notoriamente è una statua greca senza braccia.
 Tanto per citare un esempio a noi contemporaneo, si dirà che nel romanzo Questa storia (2005) Alessandro Baricco scrive: 

la strada scivolava in salita con la freddezza di un serpente.

3. Un altro campo fruttuoso di umorismo involontario è rappresentato dai lapsus (dal verbo latino labi «cadere, scivolare»), che sono degli errori linguistici involontari, scritti o verbali. 
Delle cose interessanti sui lapsus ha scritto Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901). Per il professore viennese, in estrema sintesi, ogni lapsus scaturisce da un pensiero rimosso, censurato dal nostro inconscio. È pur vero tuttavia che ci si sbaglia, si fanno dei lapsus, non solo o non sempre per ragioni inconsce profonde, ma anche semplicemente e banalmente per stanchezza, per distrazione, per ignoranza.
Lo scrittore Ennio Flaiano ha stilato un «Prontuario d'Italiese» (cfr. Frasario essenziale per passare inosservati in società, Milano, Bompiani, 1986, p. 87), collezionando una serie di frasi strampalate dalla comicità irresistibile:

Per il gran freddo ho dovuto far mettere due gladiatori in più al termosifone.

Saluti dalle pernici del Monte Bianco.

Apriamo una paralisi.

Si sono tutti alcolizzati contro di me.

Le zucchine mi piacciono trafelate.

Si accorse di essere incinta perché non le venivano le amministrazioni.

Ho un salottino tutto di Rimini.

Mi sono tagliato il pipistrello del pollice e ho dovuto farmi un'iniezione sottocatania.

Mia moglie fa una cura contro le vene vanitose.

Tutto il giorno sul pavimento prostituite a dare la cera.

Ha un completo di inferiorità.

Recentemente Stefano Bartezzaghi ha raccolto una gran quantità di «frasi matte da legare» in un libro che non a caso s’intitola Non ne ho la più squallida idea (Torino, Einaudi, 2006). Come si legge nella seconda di copertina il libro contiene strafalcioni di ogni genere, dichiarazioni maldestre, lapsus, sciami di parole ribelli, imbizzarrite, deragliate, dotate di sorprendente sapienza involontaria.
Dal libro di Bartezzaghi riprendo questi dialoghi realmente avvenuti durante i processi in alcuni tribunali degli Stati Uniti:

- Data di nascita?
- Quindici di luglio.
- In che anno?
- Tutti gli anni.

- Le hanno sparato nel trambusto?
- No, mi hanno sparato fra il trambusto e l’ombelico.

- Ogni sua risposta deve essere orale, va bene?
- Va bene.
- Che scuola ha frequentato?
- Orale.

 Molto divertenti sono i lapsus in ambito medico: ne ha collezionati in abbondanza Antonio Di Stefano in uno Stupidario medico uscito presso Mondadori nel 1996 (dello stesso Di Stefano, sempre editi da Mondadori, si vedano anche Dottore, ho i dolori aromatici, 2001, e, in collaborazione con Pippo Franco, L’occasione fa l’uomo ragno. Strafalcioni, cartelli, scritte sui muri e altri capolavori di umorismo involontario, 2008).
 Sulla scia della fortunata antologia di Bartezzaghi, è nato un vero e proprio filone di libri sugli strafalcioni e le frasi sgangherate, improbabili; ricordo solo due titoli usciti presso la Piemme firmati Martino Campanaro: Latte parzialmente stremato (2007) e A furor di polipo (2008).
Certamente imputabili all’ignoranza sono alcune richieste «curiose» di libri effettuate nelle librerie Feltrinelli e pubblicate su Effe, rivista delle medesime librerie, negli anni 1999-2000:

Primo Levi, Sequestro un uomo
Oscar Wilde, Il risotto di Dorian Gray
Alexandre Dumas, Il ponte di Montecristo
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattosilvestro
Andrea Camilleri, Ladri di mutandine
Italo Calvino, Il barbone rampante

 4. Certo è che parlando di «frasi matte» vengono subito in mente alcune battute di Totò, molte delle quali, come sappiamo, erano improvvisate durante le riprese di un film. Nel caso di Totò non credo si possa parlare di umorismo involontario, tuttavia mi piace ugualmente ricordarle, alcune battute di Totò:

Nella vita non siamo mai soli, abbiamo sempre qualche appendicite.

Una volta tandem, un favore lo posso anche chiedere.

I numeri di telefono e gli indirizzi li annoto sul tacchino.

Voi non ci crederete, ma c'è chi si avvelena con i barbabietoli.

Nello spazio non c'è la forza di gravidanza.

Io e mia moglie siamo troppo fini per andare d'accordo con la gente di campagna: siamo areostatici.

Da un occhio ci vedo male, sono preside.

Vado soggetto ad amnistie cerebrali.

Sono napoletano e quindi ho molta stitichezza col caffè. Pardon, volevo dire dimestichezza: è stato un qui pro quo.

Se mi fai arrabbiare, con un colpo solo ti taglio la carota della gola.

Ho cercato di fermarlo con la forza, c'è stato un vero collutorio.

Sei un cafone, hai agito con modi interurbani.

Ammazzo il cane e con la pelle mi faccio un bavero di astracane.

Sia ben chiaro che i nervi partono dai piedi e arrivano alla culotta cranica.

5. Nella storia degli strafalcioni s’incontrano figure di grandi portatori di umorismo involontario. Se aprite un dizionario di inglese vi troverete la parola spoonerism, accompagnata da questa definizione: «gioco di parole che consiste nello scambio delle iniziali di due termini». È come se in italiano io dicessi CACCIA FURIOSA invece di FACCIA CURIOSA. 
Ora, il termine spoonerism deriva da William Archibald Spooner (1844-1930), prete anglicano, rettore del New College a Oxford, uomo nervoso, famoso per i suoi lapsus costruiti invertendo l’ordine di due lettere o sillabe. Ad esempio, durante un banchetto, nel bel mezzo di un discorso, invece di dire our dear Queen (la nostra cara Regina) gli venne l’espressione our queer Dean (il nostro svitato Decano).
Spooner era talmente distratto che una volta incontrò un collega e gli disse:

- Venga a cena, conoscerà Stanley Casson, il nostro nuovo professore.
- Ma Casson sono io!, rispose il collega.
- Non importa, venga lo stesso.

In Spagna il termine piquiponismo è sinonimo di espressione maldestra e deriva da Joan Pich i Pon (1878-1937) (pronunciare: Pikipon), uomo politico che è stato anche sindaco di Barcellona, noto per i suoi spropositi linguistici, per le frasi assurde che assumono un significato esattamente contrario a quello desiderato dal suo autore. 
Una volta ad esempio Pich i Pon disse a una riunione: 

«Egregi signori e amici, più amici che signori»; 

un’altra volta a uno sportivo, fratello del celebre filosofo José Ortega y Gasset, si rivolse così: 

«Lei è all’antilope di suo fratello»; 

parlando dell’immigrazione Pich i Pon affermò: 

«L’ideale sarebbe che ognuno vivesse nel proprio paese. I francesi in Francia; gli inglesi in Inghilterra; i murciani in Murcia; i belgi a Belgrado».

Adesso vi leggerò alcune frasi pronunciate da una persona molto influente nel mondo:

Comprendo perfettamente la crescita delle piccole imprese. Io lo sono stato.

Se continua così, io dirò al paese ciò che penso di lui, sia come essere umano che come persona.

Be’, io penso che se uno sostiene di voler fare una cosa e poi non la fa, allora è quel che si dice una persona degna di fiducia.

La famiglia è il luogo in cui dimorano le speranze del nostro paese, in cui alle ali spuntano i sogni.

Ciò che è più importante per me è ricordare qual è la cosa più importante.

Io sono un uomo paziente. E quando dico che sono un uomo paziente intendo dire che sono un uomo paziente.

Tutti quanti converrete con me che ormai il passato è finito.

 Forse avrete capito che si tratta di frasi pronunciate dal presidente George W. Bush junior, un campionario di frasi sconclusionate raccolte dal giornalista Jacob Weisberg in un libro intitolato Bushismi. Saggezza e umorismo involontario del 43° presidente degli USA (Milano, Mondatori, 2003).

 6. Una categoria accomunabile sul piano dell’umorismo involontario ai lapsus è quella dei refusi o errori di stampa. 
Alberto Savinio ha dedicato al refuso una voce della sua «personale» Nuova Enciclopedia, cui lavorò negli anni quaranta. In quella voce commenta un passo in francese che suona: «È utile cosa che la verità, questo bene primario, sia conosciuta solo dagli animi saldamente ingannati (trompées in francese)». La novità di questa idea, «fertile e suadentissima», e cioè che l’animo per conoscere la verità debba essere «fortemente ingannato», suscita nella mente di Savinio «una catena di pensieri inaspettati, vispi ed eccitanti». Tanto che lo scrittore, quando si accorge che trompées è un refuso, e che bisognava leggere trempées, temprati, resta profondamente deluso: la frase rientra d’improvviso «nella grigia regione delle verità ovvie. Dire che la verità non può essere conosciuta se non dagli animi saldamente temprati, è come dire - afferma Savinio - che per fare la frittata occorrono le uova».
 Il refuso è felice - la voce dell’Enciclopedia saviniana s’intitola proprio: REFUSO (FELICE) - poiché amplia le nostre capacità interpretative (trompées al posto di trempées offre una nuova interpretazione della verità); dunque nel refuso si nasconde l’Inaspettato, tanto più fascinoso e misterioso, e degno di essere onorato, quanto più si presenta in modo candido e sincero.
 Il refuso è non solo felice, ma anche fonte di umorismo. In una nota al commento del Fuoco pallido (1962), poema in distici eroici, per l’esattezza la nota 803 intitolata un refuso, Vladimir Nabokov racconta questo episodio:

Il resoconto di un giornale sull’incoronazione di uno zar russo conteneva, in luogo di korona (corona), il refuso vorona (cornacchia), e quando il giorno dopo lo si “corresse” con tante scuse, la parola venne nuovamente stampata con un errore di stampa come korova (cornuta). 

 Per l’anniversario della nascita della regina, segnala Campanile nel Trattato delle barzellette, un importante articolo di fondo si concludeva così: 

«Perché in tutti gli italiani è vivo il culto della regina»

dove la parola «culto» figurava priva di una consonante che vi lascio immaginare.
 Le potenzialità ri-creative del refuso sono state esaltate da Jean Charles d’Avec Sommeils (1943) (pseudonimo ottenuto francesizzando Giancarlo Consonni, professore d’urbanistica e poeta), in arte D’Avec, che per tre anni tenne sulla pagina libri de L’Unità una rubrichetta intitolata «Rebusi», ovvero «rebus dei refusi». D’Avec ha redatto un «Manuale di riciclaggio dei refusi», intitolato Il corruttore di bozze (Milano, La Vita Felice, 2000), dove si è divertito ad attribuire un significato ai refusi collezionati, come negli esempi che seguono:

angusciato
chi è fortemente preoccupato di rompere le uova

beontologia
la deontologia dell’ubriacone

divulvativa
la stampa osé

grullatore
l’elettrodomestico che rincitrullisce

Linesplicabile
l' assorbente mistero dell' essere

 Tutti - credo - siamo stati vittima degli scherzi maliziosi e perversi del correttore automatico del computer. In certi casi il non voluto cambiamento eseguito dal correttore automatico provoca effetti comici godibili (lo stesso avviene con il traduttore automatico). 
Nel romanzo Fìdeg di Paolo Colagrande (Padova, Alet, 2007) c’è una frase:

Salve meno li conobbe a neo porco.

che è il risultato devastante delle correzioni automatiche del computer: «Salve meno è Salvemini, storico antifascista, neo porco è una popolosa città dello stato statunitense di New York».

 7. A volte l’umorismo involontario viene creato, non da un errore ortografico o dalla sostituzione di una parola con un’altra dal significato assolutamente improprio rispetto al contesto della frase in cui è inserita, bensì da una particolare disposizione sintattica delle parole o da una scelta infelice delle parole stesse. 
Questo tipo di meccanismo è molto diffuso ad esempio nei titoli di giornale o nei cartelli dei negozi, negli avvisi, nei manifesti pubblicitari, ecc. Riporto alcuni esempi:

SI È SPENTO L’UOMO CHE SI È DATO FUOCO 
(Giornale di Sicilia).

TROMBA MARINA PER UN QUARTO D’ORA 
(Corriere del Mezzogiorno).

Si fabbricano lettini per bambini di ferro con palle di ottone.

La domenica siamo aperti soltanto per i polli.

 8. Sull’umorismo suscitato dalle frasi dei bambini, quasi sempre un umorismo involontario, spontaneo, non intenzionale, mi limito a citare questa considerazione di Campanile:

Negli studi sui vari tipi di comico, non è stato segnalato mai il riso che suscitano le frasi dei bambini.
Ho visto vecchi austeri, persone gravi, signore fatue, giovanotti vanitosi, ridere fino alle lagrime per la risposta d'un bambino. La cosa più strana è che, se la frase, o la parola, vien fatta ripetere dal bambino parecchie volte, per altrettante volte gli ascoltatori scoppiano in risate. Questo non accade ai più grandi maestri del comico. Che diavolo hanno, i marmocchi, per far tanto ridere, senza pensarci e senza bisogno di rendersi ridicoli? Che posson dire di così divertente?
Ma, forse, quello che suscitano è un riso diverso dagli altri, perché viene dal cuore. La vis comica dei bambini agisce su tutti, ma più sulle persone che li amano, a cominciare dalla mamma e dal babbo, fino a tutto il parentado e agli amici, in ordine decrescente. E un riso dettato dal cuore. E forse questo potrebbe essere un buon umorismo: suscitare il riso, come il pianto, parlando soltanto al cuore (Achille Campanile, Cantilena all’angolo della strada, Milano, RCS Libri, 2000, pp. 23-24).

9. In conclusione vorrei raccontarvi una storia vera, riferitami durante un festival intitolato Le parole, i giorni, a cura di Idolina Lanfolfi, tenutosi nel maggio 2008 a Poggibonsi, una storia di un umorismo (nero) involontario davvero sorprendente.
Ai tempi della spagnola, altrimenti conosciuta come «la Grande Influenza», che fra il 1918 e il 1919 uccise circa 50 milioni di persone nel mondo, un certo Varno Vannini di Colle Val d'Elsa ricopriva i morti con un lenzuolo bianco dopo che il medico ne aveva accertato il decesso. Il medico esaminava le persone colpite dalla spagnola e stabiliva se erano morte oppure no. 
Quando il medico diceva: «Morto», Vannini stendeva sul poveretto un lenzuolo bianco. Questa era la funzione del Vannini. Un giorno accadde che uno dei presunti morti, non appena il medico ebbe pronunciato la parola «Morto», sollevò appena la testa e con un filo di voce, quasi scusandosi, disse: «Ma io sono ancora vivo». Subito intervenne il Vannini che lo redarguì dicendogli bruscamente: «Stai zitto tu, vuoi saperne più del dottore?»



Intervento tenuto il 13 dicembre 2008 a Camogli nell'ambito del convegno su Filosofia del pensiero laterale. Incontro sulla creatività e i suoi meccanismi, per ricordare Gualtiero Schiaffino.

Sul tema dell'umorismo involontario ho scritto un libro, Umorismo involontario, pubblicato nel 2016 da Quodlibet, nella collana Compagnia Extra diretta da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon.

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