IL TUNNEL SENZA USCITA
Costruito
negli anni 1931-33 dall'impresa A. Patrikios & figli per collegare le città
greche di Mouzáki e Pramanda, passando attraverso il ventre roccioso dei monti
Athamánon, il «tunnel sospeso» - come lo chiamano gli abitanti della zona - è
ancora oggi meta di frotte di turisti che lo visitano, indossando elmetti
gialli di protezione, a bordo di carrelli scoperti che viaggiano su rotaia,
muniti di comodi sedili e potenti fari per fendere il buio. Il «tunnel sospeso», aperto
dal lato della città di Mouzáki, è alto quasi sette metri per cinque di
larghezza, e s'inoltra dentro la montagna in linea quasi retta per ben 57
chilometri, 459 metri e 32 centimetri. Nel suo genere, cioè quello dei trafori
non finiti (quasi un ossimoro), è il più lungo che si conosca. Un vero record
che lo ha trasformato in un'attrazione turistica. Per un errore di calcolo,
un'inspiegabile leggerezza tecnica (un teodolite difettoso?) compiuta dallo
studio incaricato dei rilevamenti topografici, il «tunnel sospeso» non ha mai
avuto il conforto di un'uscita, di un'apertura finale. È rimasto cieco, senza
sbocco. E infatti, a un certo punto
della perforazione, esattamente come s'è detto dopo 57 chilometri, 459 metri e
32 centimetri, il tunnel s'interrompe, muore. Esaurito quel lungo tratto
sotterraneo, si arresta davanti a una parete di terriccio rossastro a forma di
campana, bagnata in vari punti da infiltrazioni d'acqua. Un blocco
insormontabile, almeno così pare, oltre il quale si estende di nuovo la
montagna, corposamente integra, massiccia. Applicando scrupolosamente le
indicazioni topografiche risultate in seguito erronee, i lavoratori della A.
Patrikios & figli si adoperarono per circa tre anni, notte e giorno, anche
le domeniche e le festività, alla realizzazione dell'imponente opera, fiduciosi
che prima o poi, come sempre accade quando si scava una galleria, sarebbero
sbucati dalla parte opposta dei monti Athamánon. Tuttavia, dopo chilometri e
chilometri di terra sottratta alla montagna, nessuno dei lavoratori vide mai
accendersi davanti a sé il sospirato filo di luce, quel bagliore che,
penetrando dall'esterno, libera il tunnel dalla sua temporanea incompiutezza, e
fa esultare gli scavatori che, di fronte all'ultimo, decisivo smottamento, gettano
in aria gli elmetti e corrono a abbracciarsi con il volto ancora sporco di
fango. Nel settembre del 1933 la
situazione iniziò a farsi insostenibile. Ancora non si era raggiunta
l'uscita del tunnel, e l'attività di perforazione brancolava - è il caso proprio
di dirlo - letteralmente nel buio. Al tempo stesso cresceva il malumore fra i
lavoratori. Questi cominciarono a insospettirsi, a avvertire che qualcosa non
quadrava nelle direttive dei capi ingegneri, e si persuasero che, andando
avanti così, in modo incerto, precario, rischiavano di veder compromessa la
fine del tunnel. Il fallimento della perforazione incombeva sulle loro teste. Pertanto,
stanchi di procedere a vuoto, incrociarono le braccia proclamando uno sciopero
a oltranza. Dopo circa due mesi di lotta
durissima il cantiere venne chiuso, e il tunnel rimase senza sbocco, incompiuto
- «sospeso» come dicono dalle parti di Mouzáki e Pramanda - in attesa che si
facesse avanti un'altra impresa e riprendesse a perforare la montagna con più
fortuna e competenza.
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