Paolo
Albani
LA BALLATA
SOTTO IL TIGLIO
«L’ispirazione»,
ha detto il critico d’arte Buster
Gordon, «non è come un buon cane: essa non obbedisce agli
ordini». Così, per evocarla (l’ispirazione), per stanarla
e tenerla in caldo, per coccolarla, gli scrittori e gli artisti in
genere
si sono inventati gli espedienti più curiosi, hanno perpetrato
le
abitudini più strane, blandito ogni sorta di tic, di
comportamento
maniacale.
Fra gli ingredienti utili a stimolare l’ispirazione,
l’abbigliamento
ha giocato spesso un ruolo importante. Al riguardo si sa che
Georges-Louis
Leclerc conte di Buffon poteva scrivere solo a condizione d’indossare
l’abito
di corte, e di avere la spada accanto, al pari di Guido Reni che, per
dipingere,
doveva vestirsi elegantemente, attorniato dagli allievi che lo
servivano
in silenzio. Il drammaturgo Crébillon, autore di tragedie con
effetti
truculenti, piazzava sul tavolo di lavoro due corvi («i miei
cospiratori»)
e s’infilava degli abiti sporchi, untuosi. Il pittore Girodet-Trioson,
che amava lavorare di notte, nel suo atelier sfoggiava un immenso
cappello
ornato di candele. Si sa inoltre che Franz Joseph Haydn, quando
componeva
al pianoforte, portava al mignolo un grosso anello con sigillo, che
guardava
di continuo.
Per altri è stato l’ambiente, il luogo fisico in cui
svolgevano
le loro attività creative, l’elemento cruciale, quello decisivo
ai fini dell’ispirazione. Se Jacques Cujas, brillante professore di
diritto
all’Università di Bourges nel secolo XVI, lavorava bene solo
accucciato
per terra, Gioacchino Rossini preferiva sdraiarsi sul letto, mentre
Christoph
Gluck, per ispirarsi, non esitava a far trasportare il suo clavicembalo
in mezzo ad un campo.
C’è poi chi, come Jacques-Bénigne Bossuet, maestro
di orazioni funebri e di sermoni composti fra il 1656 e il 1687,
lavorava
di preferenza chiuso in una camera fredda cingendosi la testa di
asciugamani
caldi, al contrario dell’economista Pierre Antoine, marchese
d’Antonelle,
autore del Catéchisme du tiers état (1789), che
si
metteva al lavoro avendo accanto a sé una pila di piatti che via
via appoggiava sul collo, sostituendoli non appena s’intiepidivano: era
convinto che ciò gli permettesse di rinfrescare i vapori del suo
cervello. Per concentrarsi, in attesa di essere baciato
dall’ispirazione,
il grande scrittore Friedrich Schiller ficcava a volte i piedi in un
secchio
di acqua gelata o respirava voluttuosamente i fumi delle mele in
fermentazione
sistemate in un cassetto del suo scrittoio.
Sullo sfondo di questi precedenti, a dir poco capricciosi, e
forse prendendo spunto da essi, all’inizio del secolo XX, un fioraio di
Madrid con la passione delle belle lettere e della medicina, un
certo Bartolomé Manrique, «poeta autodidatta» (la
definizione
è sua), vanaglorioso fino al punto di millantare amicizie fra
gli
intellettuali e gli scrittori spagnoli più in vista del tempo,
fra
cui Federico García Lorca e Dámaso Alonso, pensò
bene
di dare alle stampe un ingegnoso libretto su Las técnicas
para
l’inspiración (Madrid, Nueva Luna, 1923, ora tradotto in
italiano
da Franco Donati per l’editore Morassini di Venezia, pp. X + 68, Euro
24,00).
Legando il suo amore per le piante a quello per la poesia,
connubio
che ha illustri precursori (si pensi a Goethe e alle sue osservazioni
sul
significato simbolico dei fiori contenute nel West-östlicher
divan,
1814-19), Manrique ha redatto una specie di prontuario ad uso degli
aspiranti
poeti, e non solo, un vademecum in cui sono esposte le tecniche in
grado,
a suo giudizio, di «risvegliare l’ispirazione» (despertar
l’inspiración), accuratamente suddivise in base al tipo di
«arte
frequentata».
C’è da dire che le técnicas proposte da Manrique
non si risolvono quasi mai in un’unica, meccanicistica soluzione, ma
rimandano
ad una combinazione di fattori (le proprietà delle piante, le
ore
del giorno, le stagioni, il paesaggio circostante e mille altri piccoli
particolari) giudicati indispensabili per il raggiungimento di un buon
risultato artistico. Quello che conta, precisa Manrique, non è
tanto
la miscela dei fattori in sé, ma le proporzioni in cui essi (i
fattori)
entrano in gioco, la loro percentuale d’influenza sul totale delle
forze
che soccorrono l’ispirazione.
Una delle prime tecniche esposte da Manrique concerne il sonetto,
forma strofica d’arte per eccellenza, il metro più usato nella
lirica
italiana delle origini e sempre in auge anche in tempi recenti.
L’ispirazione
per scrivere un sonetto, argomenta Manrique, può essere
incoraggiata
con successo se si seguono certe istruzioni.
In primo luogo bisogna mettersi di notte sotto un pioppo tremolo
(pianta
volubile, come il sonetto, che vegeta in qualsiasi terreno e posizione
purché ricca di umidità), preferibilmente in un periodo
di
luna piena; poi, a testa nuda, occorre lasciarsi inondare per qualche
ora
dai riflessi lunari, in silenzio, magari (questo, s’intende, vale per
le
donne) avvolti in uno scialle di seta.
Poiché il sonetto si presta a una straordinaria polivalenza
di toni espressivi, nell’attesa sotto il pioppo meglio non avere con
sé
bottoni di madreperla, astucci per gli occhiali o scarpe aperte. A tale
proposito, in una nota a pagina 12 dell’edizione italiana, Manrique
avanza
questa ipotesi:
Se García
Lorca ha scritto dei sonetti meravigliosi
(Sonetos del amor obscuro), citando anche i pioppi nelle sue
poesie
(Amor immenso / y azul como los álamos del río),
credo
si debba in gran parte alla sua grande passione per gli scialli di seta
delle donne andaluse.
Alla canzone, componimento
strofico decisamente «forte e
pensieroso», si addicono invece, secondo Manrique, la presenza di
una quercia, bella ampia e piramidale, e le giornate solari, senza un
filo
di vento, gli abiti semplici e poco colorati, le tasche vuote, i
pensieri
liberi e infine, quando è possibile, la compagnia di un gatto.
Il fioraio spagnolo si sofferma poi sul tema di come facilitare al
meglio l’ispirazione per scrivere una ballata (qui i fattori messi in
luce
sono: il tiglio, le fontane zampillanti, i cappelli a tese larghe, un
muretto
su cui sedersi quando suona mezzogiorno, un metro da sarti, e poi a
piacere
un nastrino di velluto bordò o della frutta secca), e subito
dopo
si occupa del madrigale, e ancora dello strambotto, della lauda, del
sirventese,
dell’ode e di altre forme metriche fino al verso sciolto, illustrando
per
ognuna, minuziosamente, la técnica para l’inspiración
ritenuta
più efficace.
Va da sé che i consigli di Manrique prevedono una serie
di varianti, anche sostanziali, a secondo del taglio (amoroso,
drammatico,
comico, impegnato) che si vuole dare al futuro testo letterario.
In chiusura del libro Manrique dedica un fugace cenno all'arduo genere
del romanzo. Su questo punto le sue indicazioni sono lapidarie.
Farsi venire
l’ispirazione per scrivere un romanzo - si
legge alla fine dell’ultima pagina di Las técnicas para l’inspiración
-
non è facile. Ciò nondimeno, ai temerari, si consiglia di
passeggiare a lungo, verso il tramonto, per strada o sotto i portici
del
centro storico di qualsiasi città e osservare attentamente le
caviglie
delle ragazze che non abbiano più di vent'anni o, in
alternativa,
gli zigomi dei ragazzi della stessa età.
gennaio 2003
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Anche su il Caffè
illustrato,
11, marzo-aprile 2003, pp. 6-7.
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