Paolo Albani
LA TERRAZZA SUL MARE

                               
                                                                           
«Jaime Duarte Vascon» diceva il giornale «giovane
                                                                            scienziato di sette anni figlio di un generale ha
                                                                            scoperto che il mondo è caduto in un bicchiere.»
                                                                                                                                                    Antonio Delfini
 

Ero seduto al mio solito tavolo, il numero quattro, sulla terrazza a vetri con vista sul mare della pensione Eden ed aspettavo che mi venisse servita quella che Giacomo, il cameriere, chiamava scherzosamente una «briosciante e cappuccinosa colazione».
Come ogni mattina, mi accingevo a sfogliare i giornali, operazione che assaporo sempre con un gusto nuovo ed un'avidità sensuale, anche quando non sono in vacanza. 
Per me la lettura mattutina dei giornali è un rito che invoglia al rilassamento, fatto di pause ben misurate, di brevi ammiccamenti ai sottotitoli, di distrazioni fotografiche, di sguardi alla ricerca delle novità più stuzzicanti, ecc.; insomma una specie di cerimoniale religioso che nessun altro avvenimento deve interrompere.
Spesso, dal tipo di notizie che i giornali riportano, traggo gli auspici per il resto della giornata. La caduta di un governo ad esempio mi mette di buon umore, mentre la brutta recensione di un libro mi predispone all'intolleranza, e così via.
Fuori c'era una calma assoluta (lo si capiva dall'immobilità con cui la bandierina rossoblù penzolava dal palo del bagno Eden), diffusa nell'aria insieme ad un piacevole odore di salmastro.
Ogni tanto mi voltavo a guardare la spiaggia sottostante, ancora deserta, attraversata dai solchi paralleli lasciati dal rastrello del bagnino. Con una frazione di secondo di ritardo mi arrivava il mesto sciabordio delle onde che a macchie irregolari si distendevano spumeggianti lungo la costa.
Finita la colazione, mi feci portare una bottiglietta d'acqua minerale che, oltre a togliermi dalla bocca il sapore amarognolo del caffè, mi serviva a mandar giù una pasticca che prendevo ormai da qualche mese, causa il mio fegato mal ridotto.
Nell'attimo stesso in cui portai il bicchiere alle labbra, mi accorsi di qualcosa, un'ombra, una macchia indistinta, sulla mia destra, che si muoveva in maniera frenetica. Per sincerarmi meglio di ciò che stava accadendo, lanciai un'occhiata in direzione di quel parapiglia.
Nella trasparenza cristallina dell'acqua, vidi un uomo che annaspava agitando disperatamente le braccia. Le sbatteva con forza dall'alto in basso come fossero state le pale di un mulino, creando attorno a sé un piccolo anello di riccioli schiumosi.
Era in netta difficoltà. Faticava a restare a galla, impacciato dalla pesantezza dei vestiti che aveva ancora indosso. Lottava disperatamente, incapace però di coordinare i movimenti, come se qualcosa di molto greve, attaccato ai piedi, minacciasse di trascinarlo sotto. Per quattro o cinque volte lo vidi andare giù e poi riaffiorare in superficie. S'immergeva completamente e dopo un secondo rispuntava fuori, mezzo morto, con un guizzo da foca impaurita ed il respiro soffocato dall'acqua che gli stava riempiendo i polmoni.
Alla fine, stremato, scomparve sotto un vortice di bollicine gassose senza riapparire più. In quel punto la massa d'acqua che se l'era inghiottito riprese l'abituale conformazione del mattino; ritornò cioè calma e liscia. 
Tutto si era svolto in un tempo brevissimo e con tale rapidità che pensai di essere stato vittima di un'illusione ottica. Avevo la luce del sole in faccia; quindi, quello che in un primo momento m'era sembrato un uomo, forse con uguale fondatezza, avrebbe potuto essere un relitto di legno, coperto di alghe sbattute dalla corrente oppure la pinna di un grosso pesce a caccia di cibo sul pelo dell'acqua.
Mi ricordai tuttavia di aver visto in controluce, lì dov'era accaduta la disgrazia, la silhouette di una camicia a maniche corte, poi il lembo di una cravatta color rosso fiammante, e ciò bastava a confermarmi la prima ipotesi perché in genere né un legno alla deriva né un pesce affamato viaggiano in acqua combinati a quel modo.
Posai il bicchiere sul tavolo e mi voltai allibito. La terrazza della pensione era vuota. Nessun altro cliente aveva assistito alla scena. Ero l'unico testimone.
Se almeno fosse stato presente Giacomo, avrei potuto chiedere a lui una conferma del dramma avvenuto sotto i miei occhi. Ma nemmeno a farlo apposta Giacomo era sparito in cucina.

Non c'era un attimo da perdere. Dovevo dare subito l'allarme in modo che fosse possibile, se non salvare, almeno recuperare il corpo di quel poveretto, prima che la corrente lo trascinasse lontano.
Forse nessuno avrebbe creduto alla mia storia, ma c'era la vita di un uomo in gioco; quindi era meglio eccedere in scrupolosità, rischiare una brutta figura, magari l'accusa di essere un visionario, che lasciarsi paralizzare dai dubbi. Potevo essermi sbagliato, ma ritenevo comunque mio dovere avvertire la signora Matilde, proprietaria della pensione, affinché informasse le autorità del posto (la capitaneria di porto, i carabinieri, i sommozzatori dei vigili del fuoco, non so) per organizzare tempestivamente le ricerche.
Stavo per alzarmi e correre dalla signora Matilde quando Giacomo rientrò in terrazza, per sparecchiare il mio tavolo. Non appena mi fu accanto intuì che il mio umore era cambiato e ne rimase sorpreso.
Con l'aria mortificata, mi chiese:
- Qualcosa non va? - forse sospettando che avessi delle rimostranze da fare sulla qualità del servizio o magari sulla «cappuccinosità e briosciantezza» della colazione.
 - Una cosa orribile, Giacomo! - gli risposi tradendo una certa emozione.
Poi mi bloccai. Ero ancora sotto shock. Non sapevo come iniziare. Faticavo a scegliere le parole, a costruire una frase che stesse in piedi e mi permettesse di fornire una spiegazione plausibile dell'accaduto, o almeno tale da non indurre Giacomo a considerarmi un pazzo o il solito visionario in cerca di protagonismo. 

Alla fine, mi feci coraggio e gli confessai tutto senz'alcuna inibizione.
- Giacomo, ho visto un uomo che stava annegando! 
 Giacomo si voltò di scatto verso la striscia di mare sottostante la terrazza della pensione, immaginando (in realtà sono io che immagino che lui s'immaginasse) di scoprirvi la sagoma di un corpo alla deriva.
- Ma dove guardate? - lo ripresi subito, alzando un po' la voce e scuotendolo per un braccio.
- Laggiù - disse lui visibilmente contrariato dall'aggressività del mio gesto. Poi, per dare più forza alla sua risposta e non essere frainteso, indicò decisamente il mare, come se quella fosse stata l'unica direzione logica o quanto meno la più probabile.

Di fronte alla scelta perentoria di Giacomo mi sentii completamente disarmato. La sua sicurezza era uno schiaffo al buon senso. Come interpretarla: incoscienza, provocazione, arroganza? In ogni caso non mi lasciava alcuna possibilità di risposta. 
La delusione fu così grande che d'improvviso mi passò la voglia di dirgli come stavano realmente le cose. Peggio per lui, ma soprattutto per quell'infelice che avevo visto annegare.
«Meglio non insistere» pensai alla fine rassegnato.
La verità è che il mare non c'entrava per niente.
L'uomo era scomparso dentro il bicchiere d'acqua che un minuto prima avevo cercato di bere, svanito fra il gorgoglìo frizzante delle bollicine che si erano bruscamente alzate in quello specchio di cristallo colmo di effervescenza.

Lotta Poetica, 2, novembre 1987, pp. 124-126.


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