Paolo
Albani
IL TERAPEUTA
ovvero
L'INARRESTABILE
CAMMINO
DELLA MEDICINA
ALTERNATIVA
A quei tempi (si parla almeno di
trent’anni fa), Manlio Girolami era
ancora un uomo di bell’aspetto. Alto, spalle larghe e imponenti,
capelli
bianchi folti che, da dietro, scendevano appena a lambire il collo,
portava
bene i suoi sessantasette anni. Camminava strascicando i piedi, come se
calzasse delle pantofole aperte, sprecandosi in lunghe falcate.
Avanzava
con il mento e il naso protesi in aria, lo sguardo fiero e penetrante.
A vederlo, metteva una certa soggezione: si sarebbe detto il
discendente
di una nobile casata, un professore universitario, di quelli potenti,
sempre
circondati da un codazzo di leccapiedi, o l’addetto culturale di
un’ambasciata.
La mattina del 27 ottobre 1974 Manlio Girolami fu arrestato nei
corridoi
di una delle cliniche chirurgiche dell’ospedale Careggi di Firenze.
Quando
il maresciallo Parenti, insieme all’appuntato De Filitto, gli
notificò
il fermo, Manlio Girolami non fece una piega, rimase in silenzio, come
se si aspettasse la visita dei carabinieri. Indossava un camice bianco
sotto il quale s’intravedevano una giacchettina con lo scollo a V e dei
pantaloni di stoffa leggera, entrambi di un colore verde acceso, di
quelli
che il personale ospedaliero usa nelle sale operatorie. Dalla parte del
cuore, sul camice pendeva un cartellino su cui era scritto:
«Prof.
Manlio Gerolami».
In mezzo ai due carabinieri che lo tenevano sottobraccio, Manlio
Gerolami
si fece largo, sdegnoso, fra un gruppetto di persone che sostava
mugugnando
vicino alla stanza del capo sala. Non appena fu ammanettato, come un
pericoloso
delinquente, dal gruppetto si levarono delle voci ostili: «Hai
finito
di tormentarci!» gridò un’anziana signora trattenendo a
stento
le lacrime, «Bastardo!» incalzò un altro che
stringeva
in mano una cartella clinica.
«Per favore, per favore» si limitò a protestare
sottovoce il maresciallo Parenti cercando di calmare gli animi, e
tenendo
ben stretto a sé, con l’aiuto dell’appuntato De Filitto, il
prigioniero,
se mai avesse tentato un’improbabile fuga approfittando della
confusione
creatasi nei corridoi della clinica.
Di quale delitto era
accusato Manlio Gerolami? Di quale nefandezza
deontologica si era macchiato, odiosa al tal punto da giustificarne
l’arresto,
eseguito in quel modo teatrale, in pieno giorno, davanti agli occhi di
un pubblico sospettoso e poco incline allo scherzo, come quello che
frequenta
le corsie degli ospedali?
A parte i singoli capi d’accusa (abuso di titolo professionale, truffa,
procurato allarme, ecc.), in breve e al di là della specifica
giurisprudenza,
il fatto è che Manlio Gerolami non era un medico. Aveva
sì,
in gioventù, seguito per due anni alcuni corsi della
facoltà
di medicina, ma non si era mai laureato. Per tutta la vita, fino alla
pensione,
aveva fatto il rappresentante presso una grande impresa del Nord, la
Borletti,
specializzata nella produzione di macchine da cucire, mestiere in cui
si
era anche distinto avendo buone doti oratorie (tanto da meritarsi un
«premio
fedeltà» dalla Borletti).
Arrivato alla pensione, un po’ per ingannare il tempo, ma anche
(così
dichiarò, serio, al maresciallo Parenti) a «scopo di
bene»,
Manlio Gerolami si era inventato un mestiere: il terapeuta contro
il
dolore, rispolverando la sua giovanile passione per la medicina. In
che cosa consistesse la «terapia contro il dolore»
praticata
da Manlio Gerolami lo si può ricostruire esaminando il verbale
del
suo primo interrogatorio avvenuto nella caserma di via Borgo
Ognissanti.
Nel verbale c'era scritto che quasi tutti i giorni feriali (a volte
anche le domeniche e i festivi), Manlio Gerolami si recava all’ospedale
Careggi, il più grande di Firenze (lo stesso dove fu arrestato),
e lì, con grande professionalità, entrava in azione: si
aggirava,
sicuro di sé, fra i corridoi e le stanze delle cliniche
chirurgiche
indossando un camice bianco, che gli stava bene, gli dava quell’aria un
po’ fatua e supponente che hanno i medici quando sono nel pieno delle
loro
funzioni. E infatti i pazienti, quando lo incrociavano, lo salutavano
cortesemente
scambiandolo per un vero medico, impegnato nel consueto giro di
controllo
nelle corsie.
Naturalmente Manlio Gerolami prendeva ogni precauzione per non essere
scoperto. Non appena vedeva qualcuno dell’ospedale, un
«collega»
o un infermiere, dirigersi pericolosamente verso di lui, si precipitava
dentro un bagno o sgattaiolava nella prima stanza che gli capitava
sottomano.
Se poi nella stanza c’era qualcuno, Manlio Gerolami non si lasciava
prendere
dal panico: forte del suo aspetto signorile e dall’alto dei suoi
sessanta
e più anni portati bene, che davvero poteva sembrare il primario
di una clinica, si schiariva la voce e domandava calmo: «Avete
visto
per caso il professor tal dei tali?», che lui, per via del suo
lavoro
terapeutico, ne conosceva molti di primari e di aiuti di Careggi, nel
senso
che sapeva com’erano fatti fisicamente, o più semplicemente se
ne
usciva con un «Scusate, avete del cotone?»
L’attività di terapeuta
contro il dolore di Manlio Gerolami
consisteva in questo.
Quando notava un gruppetto di familiari e di amici intorno al letto
di un paziente appena operato o li vedeva gironzolare lungo un
corridoio
in attesa che il loro caro uscisse dalla sala operatoria, Manlio
Gerolami
si fermava di colpo. Ne inquadrava uno, quello che, sulla base della
sua
esperienza e dell’intuito, gli sembrava il più
«influenzabile»;
lo prendeva in disparte e gli diceva assumendo un atteggiamento severo:
- Mi scusi, permette? Sono il professor Manlio Gerolami. Vorrei dirle
una cosa delicata, se mi concede un minuto di attenzione. Vede, io
temo...
ho seri motivi di ritenere che lei sia malato. Gravemente malato. Mi
dispiace
darle questa notizia così, in modo brutale, ma fa parte del mio
lavoro. Mi creda, spero di sbagliarmi, ma non le resta molto da vivere,
se non si cura subito. Ravvedo in lei i sintomi classici del... - e
qui,
per impressionare la sua vittima, Manlio Gerolami tirava fuori una di
quelle
espressioni mediche astruse, incomprensibili ai più, che
incutano
paura solo a sentirle pronunciare.
Le vittime di Manlio Gerolami erano in preferenza donne di una certa
età, segnate da una smorfia di dolore sul volto, occhi tristi e
spenti, vestite sciattamente, capelli cotonati di un azzurrino
elettrico,
oppure uomini calvi, leggermente obesi, dal carnato giallastro e la
barba
trasandata, per lo più con accento meridionale. In particolare,
per i suoi esperimenti, Manlio Gerolami prediligeva soggetti di bassa
statura,
tarchiatelli, meglio se claudicanti e quasi totalmente privi
dell’attaccatura
del collo: erano queste le prede su cui si accaniva con più
gusto,
forse per qualche motivo inconscio, legato alla sua infanzia.
A questo punto, pensando di avere a che fare con un professorone, un
luminare della medicina, la poveretta o il poveretto, spauriti, si
mettevano
in agitazione. Su consiglio dello stesso Manlio Gerolami («Questo
depone a favore della mia buona fede» aggiunse lui,
sfacciatamente,
durante l’interrogatorio), andavano subito dal proprio medico di
famiglia
e si facevano prescrivere le analisi del caso.
Dopo due, tre settimane trascorse, com'è facile immaginare,
nell’angoscia più cupa, in attesa dei risultati che, alla fine
(nella
maggioranza dei casi) si rivelavano negativi, i malcapitati avevano un
guizzo di felicità, riprendevano a vivere con una gioia mai
conosciuta
prima di allora, accesi da un rinnovato desiderio di godersi la vita.
Insomma
succedeva che, scampato il pericolo, quei poveretti rifiorivano, si
trasformavano
profondamente sia dentro, nell’anima, che nel fisico, in molti casi
aprendosi
a nuove esperienze.
Durante il lungo periodo in cui
Manlio Gerolami svolse l’attività
di «terapeuta contro il dolore» (circa sei anni
stabilì
l’indagine del maresciallo Parenti), qualcuno dei suoi
«pazienti»,
uscito indenne da quella brutta avventura, diventò
all’improvviso
più buono, sensibile, generoso, accomodante; altri si misero a
filosofeggiare
sull’estrema precarietà dell’esistenza lasciandosi alle spalle
ogni
preoccupazione di tipo materiale. Ci fu persino qualcuno che, dopo il
grande
spavento, si avvicinò a Dio e cominciò a frequentare
luoghi
di culto (chiese, moschee, sinagoghe, templi valdesi, salette dei
Testimoni
di Geova, ecc.) o partì per l’oriente e si fece monaco buddista.
Era questo che intendeva esattamente per «terapia contro il
dolore»,
Manlio Gerolami, che insistette con il maresciallo Parenti
perché
il suo pensiero terapeutico fosse messo a verbale senza travisamenti o
mistificazioni.
La sua preoccupazione era che, dal verbale, risultasse chiaro che lui
diagnosticava mali terribili, devastanti, rarissimi, soltanto «a
scopo di bene», per ragioni, diciamo così, umanitarie. Lo
ribadì per l’ennesima volta, tradendo un moto di fastidio,
incalzato
dalle domande formulate in uno scialbo linguaggio burocratico dal
maresciallo
Parenti che, a dire il vero, a un certo punto non nascose che forse,
sì,
stiracchiando un po’ il codice penale, si sarebbe potuto anche
ravvisare
un’attenuante in quell’argomentazione.
In realtà, diffondere quelle notizie spaventose, costituiva
per Manlio Gerolami una specie di test, di esame preventivo, di prova
del
fuoco: voleva temprare, educare la sua vittima al peggio, gettarla in
uno
stato d’incertezza lacerante, costringerla a sperimentare sulla propria
pelle i dubbi atroci legati alla prospettiva di una fine inattesa,
prematura.
La terapia di Manlio Gerolami aveva un obiettivo ben preciso:
risvegliare
nel soggetto preso di mira il desiderio di godersi di nuovo la vita,
con
più intensità, facendo tesoro del dolore patito e dunque,
al termine del suo calvario, quando, cioè, la vittima, in una
catarsi
liberatoria, scopriva di non avere nulla, di essere sana come un pesce,
di aiutarla a «riveder le stelle» come lui stesso,
abbozzando
un sorrisino beffardo, spiegò al maresciallo Parenti, che mise
tutto
a verbale, anche il «riveder le stelle».
febbraio 2004
Una versione ridotta di questo racconto, con il titolo "L'inarrestabile
cammino della medicina alternativa", è apparsa su il
Caffè illustrato, 27, novembre/dicembre 2005, p. 7.
Per andare al sommario de il Caffè illustrato cliccate
qui.
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Il racconto è uscito anche in
La governante di Jevons. Storie di precursori
dimenticati, Campanotto 2007.
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