JOSEF ŠVEJK, IL BUON SOLDATO
di
Paolo Albani

 «Una grande epoca esige grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati e oscuri… l’esame della cui indole darebbe ombra perfino alla gloria d’Alessandro Magno. Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia di un’epoca grande e nuova come questa. Egli percorre tranquillamente la sua strada, senza che nessuno gli dia noia e senza dar noia a nessuno, e senza essere assediato da giornalisti che gli chiedano un’intervista. Se gli domandate come si chiama, vi risponderebbe con l’aria più semplice e più naturale del mondo: “Io son quello Švejk…”»
 Sono parole dello scrittore ceco Jaroslav Hašek, dadaplebeo e «padre dei poveri di spirito», parole prese a prestito per introdurre la figura di Josef Švejk, un uomo pacato e spontaneo: il disegnatore Josef Lada lo raffigura di bassa statura, con la barba incolta, una pancia dirompente e il naso bitorzoluto, segno evidente del suo amore per birrerie, mescite e cantine d’ogni ordine, specie quella chiamata «Al calice» in via Na Bojišti a Praga (in questo simile a Hašek che, come annota contabilmente Ripellino, frequentò più di cento bettole praghesi).
Il nostro Švejk, che non appartiene a nessuna confessione, ha una faccia di luna piena, gli occhi azzurri buoni e uno sguardo caldo e morbido da agnello; di solito indossa un giubbone rattoppato sui gomiti, unto e bisunto, mentre i calzoni militari gli stanno addosso come la tunica di un pagliaccio da circo, e il berretto gli cala giù fino alle orecchie grandi. 
Così agghindato ha «l’aria di un dio delle malefatte greco».
Švejk è la semplicità d’animo in persona. Da par suo si muove egregiamente nel ruolo del candido che non si strugge di fronte ai discorsi complicati, ampollosi: «È una brutta cosa - dice - quando uno, tutt’a un tratto, comincia a confondersi la testa a forza di filosofare; la cosa puzza sempre di delirium tremens».
Non di meno Švejk è perseverante e eroico, il suo nome al tempo dell’Austria era sulla bocca di tutti i cittadini del Regno di Boemia e la sua gloria, pronostica Hašek, non tramonterà neppure sotto la Repubblica, e in effetti non è mai tramontata e resiste ancora oggi, candida e sfolgorante.
 In ogni parte del mondo (le sue avventure sono state raccontate in quasi tutte le lingue europee, e persino in giapponese e in coreano; un frammento dell'opera che narra le sue gesta è stato tradotto anche in latino con il titolo Res gestae boni militis Švejk. Quomodo bonus miles Švejk in Bellum Gentium attigit), Josef Švejk è conosciuto con l’appellativo di «buon soldato».
Ciò dipende dal fatto che, dopo varie peripezie, Švejk fu arruolato nell’esercito imperiale austriaco durante la prima guerra mondiale, esattamente nel 91° reggimento di fanteria di guarnigione a Ceské Budejovice. Il motto di Švejk era: «Servire l’imperatore fino a rompersi le ossa». Quanto al termine «buono», dobbiamo andarci cauti, ma non c’è dubbio che esso indica la natura ingenua, paciosa di Švejk che non hai mai l’abitudine di nascondere agli altri i propri pensieri, virtù unita a una certa dose di ottimismo, di solidarietà umana e a una forma di astuzia tipicamente contadinesca.
A dire il vero, prima del suo arruolamento, Švejk era stato riformato dall’esercito perché ritenuto un idiota notorio, un idiota secondo tutte le leggi di natura, quelle inventate dai grandi maestri della psichiatria (in ceco il sostantivo «cretino» prende la forma bizzarra di «blb», un «groppo di labiali che stringono come due guitti una povera liquida», riprendendo una bella immagine ripelliniana).
Il collegio di tre periti che visitò Švejk stese una relazione rimessa al giudice istruttore in cui si consigliava di mandare il «buon soldato» in osservazione in una clinica psichiatrica per determinare fino a che punto il suo stato mentale poteva recare danno alle persone che lo avvicinavano.
La cosa sorprendente è che dei pochi giorni trascorsi in manicomio Švejk conservò un buon ricordo. Sono stati - raccontava quasi commosso - «fra i più bei momenti della mia vita», e non si tratteneva dal parlare in termini entusiastici della vita in manicomio:

Non riesco proprio a capire perché i pazzi s’arrabbino a stare rinchiusi. Lì la gente può rotolarsi in terra tutta nuda, urlare come uno sciacallo, far le furie e dar morsi. Se si facesse qualcosa di simile a passeggio, tutti resterebbero stupefatti; lì invece è la cosa più naturale del mondo. Là dentro c’è tanta libertà, che non se la sognano nemmeno i socialisti. 

Dal manicomio Švejk uscì con un certificato da cui risultava che era «un simulatore debole di mente» (anche Hašek ha conosciuto il manicomio, una sera che voleva gettarsi dal Ponte Carlo e affermava di essere Ferdinando il Buono). In seguito Švejk fu accusato di essere un «volgarissimo disertore» e si arriverà persino a sospettarlo di fare la spia per i russi, ma se la caverà sempre bene, sia pure ogni volta sul filo del rasoio.
Nonostante i reumatismi e i gonfiori alle ginocchia, Švejk venne richiamato alle armi dopo l’assassinio dell’arciduca Ferdinando e diventò attendente, prima del cappellano militare Otto Katz, un ubriacone di origine ebraica cui piaceva ogni tanto fare un pokerino e ospitare a casa sua delle ragazze di strada, poi del tenente Lukáš, il prototipo dell’ufficiale di carriera dell’impero austroungarico, uno dei pochi ufficiali giusti che godeva di una grande popolarità fra i soldati e che non aveva il costume di perseguitare nessuno.
Il tenente Lukáš era un amante dei cani e guarda caso fra le attività svolte da Švejk prima della guerra (per qualche tempo aveva lavorato come apprendista in una drogheria da cui fu licenziato perché dette fuoco per sbaglio, nello scantinato del negozio, a un fusto di benzina) c’era quella di commerciante di cani (come Hašek, del resto).
Quando viveva del traffico di cani non si può dire che Švejk abbia seguito i canoni di una irreprensibile deontologia. Aveva fatto stampare dei pedigree con cui riusciva a mutare un cagnaccio di sobborgo, nato in una fornace, in uno dei più rari esemplari usciti dal canile dell’allevatore bavarese Armin von Barheim. Era capace di rifilare alla gente un cagnetto di Vérsciovize, peloso e con le gambe per niente corte, per un bassotto.
Se volete vendere un cane inoltrato negli anni per un cucciolino - suggeriva Švejk - dovete prendere un po’ d’argento vivo, farlo fondere e ridipingere il cane tutto nero così che sembri nuovo; per ridargli forza nutritelo come un cavallo con dosi di arsenico e lustrategli la dentatura con della carta vetrata, e prima di portarlo dall’acquirente fategli inghiottire un grappino, perché si riscaldi e diventi allegro e vivace.
Al tempo in cui Švejk faceva il commerciante di cani si stampava una rivista di zoologia intitolata Il mondo degli animali (vi collaborò anche Hašek) su cui comparve un allegro bestiario, redatto usando una terminologia scientifica inconsueta, dov’erano menzionati topi muschiati, pulci preistoriche, balene dalla pancia sulfurea e cuccioli di lupi mannari.

L’indole cicaliera del buon soldato Švejk lo porta a insaporire i propri discorsi, regolarmente preceduti come vuole il regolamento militare dalla frase in tedesco «Ich melde gehorsam» (Faccio rispettosamente notare), con delle storielle intriganti. Švejk ha sempre una provvista di casi da raccontare, è un fabulatore disincantato, un collezionista di aneddoti sgangherati che riguardano personaggi stralunati, gente semplice e reietta.
È con gran dovizia di particolari che Švejk racconta le sue storielle, come quella di una maestrina praghese che s’innamorò di un cameriere negro, il cui padre era un re abissino; dal cameriere negro la donna ebbe un figlio che, all’inizio, le nacque completamente bianco, ma dopo un mese prese a diventare nero; allora la donna lo portò in una clinica per malattie della pelle per farlo stingere, ma le dissero che non c’era niente da fare, la pelle del bambino era proprio pelle nera da africano, e così la poveretta ne uscì pazza, e cominciò a chiedere a varie riviste cosa si poteva fare per scolorire i negri, e alla fine dovettero portarla alle «Caterinette», una clinica praghese per alienati mentali.
O la storia di quel carbonaio imputato di alto tradimento che ad ogni interrogatorio rispondeva sempre con la medesima filastrocca: «Sia pure come sia, in qualche modo sia, / ancora non c’è stato che in nessun modo è stato», tiritera che ripeté, sembra, anche sotto il capestro. O ancora la storia di una donna accusata di aver strangolato i suoi due gemelli nati da poco, che però giurava che non avrebbe potuto strangolare due gemelli dato che le era nata soltanto una bimba, che aveva strangolato, senza però farla soffrire; nonostante questa precisazione, venne condannata per duplice infanticidio.
Un’altra storia toccante raccontata da Švejk ha per protagonista una sirena marina esibita da un certo Mestek dietro un paravento in piazza Havlícek nel quartiere Vinohrady di Praga. Il paravento aveva un’apertura da cui, a condizione si fosse compiuto sedici anni e pagato il biglietto, si poteva scorgere nella semioscurità un comunissimo divano sul quale si contorceva una femmina con le gambe avvolte in un velo verde che doveva rappresentare la coda, i capelli verniciati di verde e le mani fasciate da guanti sui quali erano state applicate delle pinne di cartone, anch’esse verdi; sulle spalle c’era un’altra specie di pinna direzionale, fissata con uno spago. La sirena aveva un grosso sedere sul quale si leggeva la scritta A rivederci! I seni le calavano giù fino all’ombelico come accade alle vecchie baldracche. Finita l’esibizione, alle dieci di sera la sirena si trasferiva in via Táborksá dove, passeggiando, diceva con aria indifferente a ogni signore che incontrava: «Bel signore, andiamo a fare l’amore?»

Linguacciuto, birroso, maldestro e con un’infrenabile parlantina da bettola (Ripellino), il buon soldato Švejk possiede un che di tristemente clowenesco nel suo comportamento e di malizioso (sedizioso) allo stesso tempo, la sua innocente cretineria, il suo fingersi idiota sono quanto di più sgretolante si possa dare contro gli ingranaggi assurdi della guerra e l’arroganza dei suoi fautori, contro «la friabile argillosità delle istituzioni ufficiali».
 

Almanacco del Bibliofilo, 20, 1 gennaio 2010, pp. 23-30.
Questo numero dell'Almanacco, intitolato "I ragazzi di via Rovello", a cura di Mario Scognamiglio, contiene testi di (in ordine di apparizione) Umberto Eco, Paolo Albani, Annalisa Bruni, Arturo Capasso, Salvatore Carrubba, Gianni Cervetti, Matteo Collura, Gianandrea de Antonellis, Oliviero Diliberto, Gianfranco Dioguardi, Curzia Ferrari, Mauro Giancaspro, Giuseppe Marcenaro, Antonio Mereu, Maurizio Nocera, Elio Palombi, Mario Scognamiglio,  Pietro Spirito, Armando Torno.


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