SULL'ANARCHICO DOBBIAMO ANCORA (S)RAGIONARE Ogni volta che rientro in Italia da Lugano, mi viene un groppo alla gola e con gli occhi luccicanti, quasi in preda a un riflesso condizionato, maledetto Pavlov!, mi metto a cantare Addio Lugano bella, scritta dall’avvocato anarchico Pietro Gori. Forse questo mi accade perché ho una visione romantica dell’anarchia, della sua storia di uomini generosi, piena di nobili ideali («nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà»), una storia fatta di solidarietà, di lotte contro i soprusi e il potere autoritario degli Stati, di ingiuste persecuzioni e anche, diciamolo pure, di qualche bombetta tirata contro gli odiati monarchi. Pietro Gori (1865-1911) Sulla figura dell’uomo anarchico, oggi quanto mai anacronistica e controversa, ma allo stesso tempo suggestiva, “sragiona” Paolo Morelli, scrittore-scrittore come ce ne sono pochi nel panorama italiano, autore di libri e pamphlet stimolanti, esperto di camminate per perdersi in montagna, traduttore, anche di testi cinesi (di recente per Quodlibet ha curato il libro di poesie di Yang Wanli (1127-1206) La contrada natale dei sogni), performer, curatore di collane, e forse mi sono dimenticato qualcosa. “Sragiona” Morelli perché, guarda un po’, l’ultimo suo testo l’ha intitolato Sragionamenti sull’anarchia, nella collana «Biblioteca di letteratura inutile» di Italo Svevo, e sottolineo inutile, che torna a pennello con quanto si dirà dopo. Titolo quanto mai manganelliano, se posso permettermi, pensando a Sconclusione, libro farneticante e urticante del Manga. Sì, perché, con gli “sragionamenti” di Morelli, siamo nei dintorni mirabili del farneticante, ma di un farneticante nutritivo, denso di un pensiero critico, di gocce pungenti di filosofia (parafrasando Wittgenstein: «In una goccerella di grammatica si condensa un’intiera nube di filosofia»), di una scrittura che non ti lascia scampo, che ti prende dentro, ti smuove l’anima e le budella. Per il lettore, non c’è tregua, Morelli lo incalza, con le sue argomentazioni spericolate, non gli lascia sogni tranquilli. Non per nulla la frase-manifesto del libro è questa di Errico Malatesta, tra i principali teorici del movimento anarchico, più di dieci anni della vita passati in carcere e in esilio all’estero: «Non ho bisogno di stare tranquillo». Che trovo bellissima, terribilmente sconcertante. Come pure quella, in esergo al libro, di Camillo Berneri, filosofo e scrittore anarchico, ucciso nel 1937 dai comunisti stalinisti: «Non ci posso niente, in questo mio non trovarmi d’accordo con quasi nessuno». Che se l’avesse scritta Morelli medesimo in persona non ci troverei niente di strano. Ma veniamo al dunque. Nella prima parte del libro, Morelli gira intorno, aggiornandola di continuo, a una possibile (potenziale) definizione di uomo anarchico. Che per Morelli, in breve, è un disgraziato testardo, anzi cocciuto, dotato di alto senso di responsabilità e che non è furbo. In altri termini è ciò che solitamente viene dipinto come una mina vagante per la società e la civiltà, in ogni epoca e luogo. L’anarchico, tanto per rastremare un po’ le idee facendo disordine, dice Morelli, è uno che dà fastidio, insofferente della mediocrazia, delle leggi del più forte e in specie, il che non è una quisquilia, di essere comandato dagli scarsi, dai codardi, dagli incapaci e dai mediocri, appunto. Ciò che muove l’uomo anarchico è una forte carica sovversiva, un’energia confortata dalla fiducia nelle possibilità e nelle opportunità, e pure nella fantasia (che forte!), nel desiderio di conoscere le cose al mondo. È un attempato delle cause perse, un collezionista di errori benefici, l’anarchico di Morelli, uno che aderisce al pensiero di Robert Louis Stevenson quando sostiene che lo scopo nella vita non è riuscire, bensì fallire nella migliore delle intenzioni. La parte più innovativa e originale degli “sragionamenti” morelliani è quella in cui la causa anarchica s’intreccia con l’antico pensiero filosofico cinese, con le domande irrisolvibili dei kōan, formulate per aiutare la meditazione e risvegliare una profonda consapevolezza. Una pratica che insegna, in sintesi, a mettere al centro della propria esistenza l’inutile, a reimparare la naturalezza del non-conoscere, a non esercitare un qualsivoglia traffico d’influenze, a non prendersi mai troppo sul serio. Tutto ciò, ahimè, conduce inevitabilmente alla solitudine, scrive l’anarco-scrittore Morelli, a collocarsi in una posizione scomoda che però è da sempre una garanzia di sapere come stanno veramente le cose. Paolo Morelli Sragionamenti sull'anarchia Italo Svevo, pagg. 144, € 16
Domenica - Il Sole 24 Ore, N. 48, 18 febbraio 2024, p. IX.
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