Paolo Albani
«OSTRIGOTTA, ORA CAPESCO!»



            Di solito quando si pensa alle lingue immaginarie vengono in mente quelle fantasiose inventate da François Rabelais nel Gargantua e Pantagruele, come il Lanternese o l’Utopiano, o quelle presenti nei romanzi di avventura del Settecento ambientati in eldoradi lontani o «pays de nulle part», il marziano o il lunare di certi libri di fantascienza o ancora le lingue artificiali per la comunicazione internazionale tipo Esperanto.

            Più difficile figurarsi che esista un’invenzione linguistica che riguardi e coinvolga la nostra lingua naturale, quella parlata, come l’italiano ad esempio. Eppure sono molteplici gli esempi di un italiano immaginario, cioè di un finto italiano, di uno pseudo-italiano, un italiano facsimile che si burla del suo alter ego vero facendone una sorta di parodia, allo stesso modo in cui il turco di Clèonte ne Il borghese gentiluomo (1670) di Molière è apertamente un finto turco.

            Vediamone alcuni di questi esempi e così, tanto per iniziare, partiamo dal frasketiano, un esercizio di scrittura tracciato su pergamena all’età di quattordici anni da Baudolino, un furfantello nato nella Frascheta Marincana, là dove nel 1168 nascerà la città di Alessandria. Il frasketiano ha questa forma: «habeo facto il rubamento più grande de la mia vita cio è o preso da uno scrinio del vescovo Oto molti folii ke forse sono cose de la cancelleria imperiale». Il brano è tratto da Baudolino (2000), romanzo picaresco di Umberto Eco che si apre con un capitolo interamente scritto dal protagonista in un volgare della sua zona, un italiano irreale su cui non esiste alcun documento. Poco prima dell’uscita del romanzo, a proposito del dialetto della Frascheta, Eco ha dichiarato in un’intervista: «Ho inventato un italiano immaginario».

            Una delle espressioni più apprezzabili e seducenti dell’italiano immaginario è la cosiddetta «poesia metasemantica» di Fosco Maraini. Le Fanfole (1994) di Maraini sono poesie in cui le parole hanno perduto il loro significato e sono rimaste solo come puri suoni, scintille musicali. È ciò che si percepisce ad esempio leggendo «Il lonfo» che ha questo incipit: «Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s'archipatta».

Non molto lontani dallo spirito della poesia metasemantica appaiono i sonetti che Julio Cortázar dedica a tre donne di fantasia, Simonetta, Carla e Eleonora, sonetti usciti in «Ars amandi», sezione di Salvo el crepúscolo, pubblicato postumo a Madrid nel 1985. Lo scrittore argentino usa una lingua inesistente, o «italiano sosia» come l’ha chiamato Valerio Magrelli, un trompe-l’œil linguistico in parte suggeritogli dal ricordo dell’italiano maccheronico usato da Francesco Colonna nell’Hypnerotomachia Poliphili (1499). In questi sonetti si accumulano frasi senza senso in cui si mescolano voci italiane con altre inventate al volo. Il sonetto dedicato a Carla si apre così: «Vae victis, Carla, se le strombe urlante / ti immérgono fra i túrpidi stormenti! / Lo so: supplicherai che ti ramenti / la guancia rotta e le pestiglie umante».

            Come tutte le lingue che si rispettano anche l’italiano immaginario ha i suoi neologismi, anzi per dirla meglio con Luigi Malerba, i suoi «neologissimi», termine coniato sulle pagine de il Caffè di Giambattista Vicari dall’autore de Il serpente per indicare una parola novissima che non appare in altri luoghi letterari. Fra i neologissimi malerbiani troviamo: bèrla cioè sberla simbolica; senza la s, sberla perde ogni efficacia fisica, ma acquista forza simbolica; dimenticchiare che sta per dimenticare con allegria, con leggerezza.

            James Joyce eseguì, aiutato da Nino Frank, un giovane antifascista conosciuto a Parigi nel 1926, una traduzione italiana del capitolo ottavo dedicato a Anna Livia Plurabelle del Finnegans Wake (1939), testo plurilingue scritto in un idioma inventato, il Finneganese. Nell’intento di riprodurre le sonorità e i meccanismi allusivi del Finneganese, Joyce affronta l’italiano in modo giocoso esibendosi in una totale ricreazione della nostra lingua, come emerge chiaramente da questo brano: «Dillo in lingua franca. E chiama piena piena. T’hanno mai imparato l’ebro all’iscuola, antabecedariana che sei? È proprio siccome circassi io a mal d’esempio da tamigiaturga di prossenetarti a te. Ostrigotta, ora capesco! Mairavrei credutala così bassenta».

            Nell’Edipus (1977), opera drammatica di Giovanni Testori, si ascolta una lingua di pura invenzione che si nutre di forme dialettali genericamente padane e venete, ma anche di latinismi, francesismi, ispanismi, neologismi, ripescaggi dalla tradizione milanese (Maggi, Porta, Gadda) e di quello che in Brianza chiamano l’italiacano, ovvero l’italiano storpiato da chi abitualmente usa il dialetto e cerca, senza averne gli strumenti, di emulare un italiano colto.

            Un’ulteriore prova della capacità di produrre testi dotati di virtù poetica e energia visionaria, l’italiano immaginario la offre con il grammelot che Dario Fo, nel Manuale minimo dell’attore (1997), definisce il gioco onomatopeico di un discorso articolato arbitrariamente, capace di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto. «Devo confessare» - scrive Fo - «che uno dei miei sogni segreti è quello di riuscire, un giorno, a entrare in televisione, sedermi al posto dello speaker che dà le notizie del telegiornale e parlare, per tutto lo spazio della trasmissione, in grammelot... Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe: Oggi traneuguale per indotto-ne consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparetico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto…»

            Fra i numerosi esempi d’italiano immaginario in forma di grammelot c’è la «supercazzola brematurata», lingua incomprensibile che il conte Mascetti (Ugo Tognazzi) e i suoi compagni di lazzi e bagattelle farfugliano in Amici miei (1975) di Mario Monicelli.



Domenica - Il Sole 24 Ore, 32, 2 febbraio 2014, p. 32.
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Sull'italiano immaginario ho fatto una relazione al Colloque organisé à l'occasion de l'Année Européenne des Langues tenutosi presso l'Auditorium del Musée d'Art Moderne et Contemporain di Strasburgo nei giorni 24 e 25 ottobre 2001, per leggerla cliccate qui.

Ho parlato dell'italiano immaginario, insieme a Paolo Nori, in un incontro su Letteratura e lingue inventate durante una manifestazione intotolata Testi&contesti. Cinque percorsi tra le pieghe della scrittura, svoltasi nell'ottobre-novembre 2007 a Pasian di Prato, presso la sede dell'Enaip (Ente Nazionale ACLI Istruzione Professionale).

L'italiano immaginario è stato argomento anche di una mia conversazione, introdotta e coordinata da Andrea Grignolio, al Festival delle Scienze di Roma, nona edizione dedicata a I linguaggi, il 24 gennaio 2014, presso l'Auditorium del Parco della Musica, che ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Noam Chomsky.

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