Paolo Albani
IL SOGNO


      Stanotte mi sono sognato Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. È stata un'esperienza onirica molto intensa e coinvolgente.
    Ecco una breve descrizione di quello che ricordo di questo curioso sogno. (Tutti i sogni hanno una qualche stranezza che li differenzia dalla realtà: in sogno si può volare o precipitare nel vuoto, fare l’amore con una persona che non conosciamo, affrontare situazioni assurde e anche incontrare personaggi famosi come nel sogno che ho fatto stanotte).

     Mi trovo nello studio viennese di Freud che conosco bene perché quello studio l’ho visto tante volte in foto. Io sono seduto su una poltroncina in pelle verde con una penna e un blocchetto degli appunti in mano, mentre Freud, con un sigaro stretto fra le dita, è sdraiato sullo storico divano, coperto da un tappeto rossastro e vari cuscini appoggiati alla parete. Il fatto che le parti siano clamorosamente invertite, ovvero che Freud, lo psicanalista, si trovi sdraiato sul divano e io, l’ipotetico e più credibile paziente, sia invece seduto alle sue spalle, non mi meraviglia affatto. La scena mi appare del tutto plausibile, non ci trovo nulla di strano. Per di più, mentre sto sognando, non sono consapevole che si tratti di un sogno, ovvero, in altre parole, ho la netta sensazione che tutto accada realmente (nei sogni è una percezione molto ricorrente: una volta ho sognato che mi avevano rubato la macchina e quando mi sono svegliato mi sono subito affacciato alla finestra, pieno d'angoscia, per vedere se la mia macchina fosse ancora parcheggiata sotto casa).

Premetto che io non sono mai stato in analisi e condivido quello che diceva Karl Kraus sulla psicanalisi ovvero che la psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia. Ho letto solo qualche libro di Freud, in modo particolare, per certe mie predilezioni letterarie, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio.

Ma torniamo al sogno.

Domando a Freud:

− Quand’è successo il fatto? Quanti anni aveva?

− Avrò avuto tre, quattro anni – risponde Freud che parla in italiano.

− Mi racconti accuratamente quello che ha visto e provato.

Freud si accarezza la barba ben curata e, guardando il soffitto, dice:

         − Quel giorno mi sono svegliato più presto del solito. Mi allontano dalla mia stanzetta ancora in pigiama, cammino a piedi nudi lungo il corridoio dell’appartamento dove vivo con i miei genitori, apro la porta del bagno e d'improvviso vedo mia madre completamente nuda che si asciuga il corpo con un telo bianco. È appena uscita dalla vasca. Lei si volta verso di me e mi sorride, senza coprirsi. Il mio sguardo s’incolla d’istinto sul sesso di mia madre, è un triangolino peloso, un groviglio morbido e sensuale di peli castani…

    − Era la prima volta che vedeva quel “triangolino peloso”? – domando a Freud.
      − Sì – risponde Freud senza la minima esitazione.
   − E questo trauma – domando ancora a Freud – può aver influito sull’elaborazione della sua teoria della sessualità?
    − Non saprei – dice Freud e, dopo una piccola pausa, aggiunge: – In ogni caso, in quel momento, ricordo di aver provato un grande desiderio di possedere mia madre…

      Sto per fare un’altra domanda a Freud quando, con la coda dell’occhio, mi accorgo che in un angolo dello studio, in disparte, c’è una persona, un uomo con la faccia triangolare, gli occhiali e i capelli folti che gli si aprono in mezzo alla fronte. Lo guardo bene: è un volto conosciuto. Non sono sicuro, ma mi sembra Massimo Recalcati.

        − Cosa ci fa lei qui? – domando un po’ irritato all'uomo che forse potrebbe essere Recalcati, ma non è detto.

        − Semplicemente per ricordarle che Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile – risponde l’uomo che penso sia Recalcati. Mentre il primo è centrato sull'avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull'appropriazione dell'oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull'idiozia del fallo, quello femminile appare senza misura, irriducibile a un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all'ingombro fallico.

       Il riferimento a Lacan, ma soprattutto l’espressione «ingombro fallico», mi convincono che si tratta proprio di Recalcati.

       Mi dimentico di Freud sul lettino e mi rivolgo a Recalcati con una certa titubanza mista a soggezione, data la notorietà del personaggio:

          − Sono felice che lei sia qui. È da tanto tempo che volevo chiederle: perché il fallo dovrebbe essere un ingombro per il maschio?

        − Un punto sensibile relativo alla differenza tra i sessi – mi spiega con calma Recalcati – è che il femminile esige che l’amore si annodi al godimento; il maschile teme invece questo annodamento e tende a separare l’amore dal godimento perché l’accesso all’amore appare ingombrato dalla presenza del fallo e dalla sua idolatria. Se il godimento dell’idiota non arretra, se l’ingombro fallico persiste a ottundere il corpo e la mente rendendo anche la fantasia erotica schiava delle sue condizioni feticistiche, se, insomma, il corpo erotico del desiderio non si lega alla dimensione dell’amore, il rischio è che ciascuno diventi sadianamente oggetto di puro consumo per l’altro.

         A questo punto Freud, che ha ascoltato in silenzio, perde le staffe. Si alza con una certa fatica dal divano e, poggiate entrambe le gambe sul pavimento ricoperto da un lungo tappeto persiano, grida:

          − Ma cos’è questa stronzata dell’ingombro fallico?

          Recalcati non reagisce, si gira di scatto e esce velocemente dallo studio.
          Sulla precipitosa uscita di scena di Recalcati mi sveglio e finisce qui il mio sogno di stanotte.

luglio 2014

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Questo racconto è uscito sul n. 76/77/78, gennaio-giugno 2014, di Il Caffè illustrato, pp. 6-7. Per vedere il sommario delle mie collaborazioni alla rivista cliccate qui.




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