IL SOGNO Stanotte mi sono sognato Sigmund
Freud, il padre della psicanalisi. È stata un'esperienza onirica molto intensa e coinvolgente. Mi trovo nello studio viennese di
Freud che conosco bene perché quello
studio l’ho visto tante volte in foto. Io
sono seduto su una poltroncina in pelle verde con una penna e un
blocchetto
degli appunti in mano, mentre Freud, con un sigaro stretto fra le dita,
è
sdraiato sullo storico divano, coperto da un tappeto rossastro e vari
cuscini
appoggiati alla parete. Il fatto che le parti siano clamorosamente
invertite,
ovvero che Freud, lo psicanalista, si trovi sdraiato sul divano e io,
l’ipotetico e più credibile paziente, sia invece seduto alle sue spalle, non mi
meraviglia
affatto. La scena mi appare del tutto plausibile, non ci trovo nulla di strano. Per
di più,
mentre sto sognando, non sono consapevole che si tratti di un sogno,
ovvero, in altre parole, ho la netta sensazione che tutto accada realmente (nei
sogni è una percezione molto ricorrente: una volta ho sognato che
mi avevano rubato la macchina e quando mi sono svegliato mi sono subito affacciato alla finestra, pieno d'angoscia, per vedere se la mia macchina fosse ancora parcheggiata sotto casa). Premetto che io non sono mai
stato in analisi e condivido quello che diceva Karl Kraus sulla psicanalisi ovvero
che la psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia. Ho letto
solo qualche libro di Freud, in modo particolare, per certe mie predilezioni
letterarie, Il motto di spirito e la sua
relazione con l’inconscio. Ma torniamo al sogno. Domando a Freud: − Quand’è successo il fatto?
Quanti anni aveva? − Avrò avuto tre, quattro anni –
risponde Freud che parla in italiano. − Mi racconti accuratamente quello
che ha visto e provato. Freud si accarezza la barba ben
curata e, guardando il soffitto, dice: − Quel giorno mi sono svegliato più
presto del solito. Mi allontano dalla mia stanzetta ancora in pigiama, cammino a
piedi nudi lungo il corridoio dell’appartamento dove vivo con i miei genitori,
apro la porta del bagno e d'improvviso vedo mia madre completamente nuda che
si asciuga il corpo con un telo bianco. È appena uscita dalla vasca. Lei si
volta verso di me e mi sorride, senza coprirsi. Il mio sguardo s’incolla
d’istinto sul sesso di mia madre, è un triangolino peloso, un groviglio morbido
e sensuale di peli castani… − Era la prima volta che vedeva
quel “triangolino peloso”? – domando a Freud. Sto per fare un’altra domanda a
Freud quando, con la coda dell’occhio, mi accorgo che in un angolo dello studio,
in disparte, c’è una persona, un uomo con la faccia triangolare, gli occhiali e
i capelli folti che gli si aprono in mezzo alla fronte. Lo guardo bene: è un
volto conosciuto. Non sono sicuro, ma mi sembra Massimo Recalcati. − Cosa ci fa lei qui? – domando un
po’ irritato all'uomo che forse potrebbe essere Recalcati, ma non è detto. − Semplicemente per ricordarle che Lacan
distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile – risponde l’uomo che penso sia
Recalcati. − Mentre
il primo è centrato sull'avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di
prestazione, sull'appropriazione dell'oggetto, sulla sua moltiplicazione
seriale, sull'idiozia del fallo,
quello femminile appare senza misura, irriducibile a un organo, molteplice,
invisibile, infinito, non sottomesso all'ingombro fallico. Il riferimento a Lacan, ma
soprattutto l’espressione «ingombro fallico», mi convincono che si tratta
proprio di Recalcati. Mi dimentico di Freud sul lettino e
mi rivolgo a Recalcati con una certa titubanza mista a soggezione, data la notorietà del personaggio: − Sono felice che lei sia qui. È da
tanto tempo che volevo chiederle: perché il fallo dovrebbe essere un ingombro
per il maschio? − Un punto sensibile relativo alla
differenza tra i sessi – mi spiega con calma Recalcati – è che il femminile
esige che l’amore si annodi al godimento; il maschile teme invece questo
annodamento e tende a separare l’amore dal godimento perché l’accesso all’amore
appare ingombrato dalla presenza del fallo e dalla sua idolatria. Se il
godimento dell’idiota non arretra, se l’ingombro fallico persiste a ottundere
il corpo e la mente rendendo anche la fantasia erotica schiava delle sue
condizioni feticistiche, se, insomma, il corpo erotico del desiderio non si
lega alla dimensione dell’amore, il rischio è che ciascuno diventi sadianamente
oggetto di puro consumo per l’altro. A questo punto Freud, che ha
ascoltato in silenzio, perde le staffe. Si alza con una certa fatica dal divano e, poggiate entrambe
le gambe sul pavimento ricoperto da un lungo tappeto persiano, grida: − Ma cos’è questa stronzata dell’ingombro
fallico? Recalcati non reagisce, si gira di
scatto e esce velocemente dallo studio. ____________________________________
Questo racconto è uscito sul n. 76/77/78, gennaio-giugno 2014, di Il Caffè illustrato, pp. 6-7. Per vedere il sommario delle mie collaborazioni alla rivista cliccate qui. HOME PAGE TèCHNE RACCONTI POESIA VISIVA |