LE INQUIETUDINI 
DEL SIGNOR SMARGIASSI
di
Paolo Albani

 L’altra notte ho sognato di essere un altro (je est un autre diceva Rimbaud). Ma la cosa non mi turbava più di tanto. Al contrario, mi piaceva. Il sogno era a colori, fenomeno abbastanza usuale per me, dato che i miei sogni sono sempre colorati, con una forte dominante (chissà perché) di azzurro e di giallo.
Nel sogno mi trovavo in una grande libreria dal nome tedesco (Seuren o roba del genere), affacciata su una delle strade più frequentate e alla moda del centro storico di Firenze; una libreria di quelle antiche, nata verso la metà del secolo XIX, con una vetrina luminosa, scaffalature di legno alte fin quasi al soffitto e lunghi tavoli su cui erano appoggiate pile di libri di formato e spessore diversi.
Ricordo che, nel sogno, avevo un titolo che suonava bene, passabile, per certi versi anche seducente. Mi sembra, ma non vorrei sbagliarmi: Le inquietudini del Signor Smargiassi e l’affare del cagnolino d’oro. Sì, forse era proprio questo il titolo per intero. Niente di speciale, comunque sempre più dignitoso di quello – ridicolo, da fruttivendolo impenitente - che mi ha affibbiato il mio autore che, se devo essere sincero, ho sempre considerato un pazzoide, un fanatico, un perdigiorno frequentatore di una combriccola di artisti e letterati anch’essi un po’ fuori di testa.
Quanto al nome dell’autore di Le inquietudini del Signor Smargiassi, nel sogno non riuscivo bene a capire quale fosse. Sulla copertina le lettere del nome dell’autore erano sbocconcellate, ne intravedevo soltanto alcuni frammenti, OVAN e poi MEG, ma niente di più. O forse la verità è che, quel nome, l’ho rimosso, dimenticato inconsciamente.
La cosa straordinaria, che mi rendeva felice, è che io me ne stavo lì vestito di carta, di una carta finemente patinata, protetto da una splendida copertina in pelle. E ancora, c’erano molti fogli a separare la mia testa dal piede, fogli leggeri, maneggevoli facilmente, come hanno tutti i libri di questo mondo, o quasi, che uno prova piacere a sfogliarli, ne sente (o s’illude di sentirne) l’odore d’inchiostro quando li apre e si stordisce a divorarli con gli occhi. 
Nel sogno avevo il corpo di un libro tenero, flessuoso come sono i libri degni di questo nome, da Gutenberg in avanti, che si lasciano scoprire voluttuosamente, in un crescendo quasi erotico. In tutto e per tutto ero un libro cartaceo (apparente tautologia), dai lineamenti delicati e non un arnese, un marchingegno rigido come sono nella realtà, una specie di Pinocchio meccanico, innaturale, che aspira in cuor suo a diventare un libro vero.
Accanto a me, nello stesso scaffale di ciliegio - situazione che mi gratificava molto, lo ammetto - c’erano dei classici: I demoni, Moby Dick, L’educazione sentimentale, L’immoralista e altri ancora. Stavamo l’uno a fianco dell’altro, dorso a dorso, come un gruppetto di amici seduti ai tavoli di un’osteria e io sentivo un’aria buona, rigenerante provenire dal contatto di quei libri così importanti, più grandi di me.
Non so spiegarmi in virtù di quale singolare dispositivo della mia mente, ma avvertivo che, in un angolo dei sotterranei della libreria, esistevano altre copie di Le inquietudini del Signor Smargiassi, un numero sufficiente a soddisfare le esigenze di mercato. Insomma, nella finzione onirica, ero un libro comune, di quelli che, ogni giorno, i librai trattano in grande quantità, acquistabile su ordinazione, duplicabile con un semplice passaggio di rotativa.
Avevo perduto il marchio della rarità (e della diversità compositiva), del libro stampato in pochi esemplari, condizione cui sono costretto, ahimè, dal 1934, anno in cui, scomodando un anonimo tipografo di Savona, il Capitano Vincenzo Nosenzo, «editore futurista unico al mondo», quel ceramista da strapazzo del mio autore si mise in testa di mettere in pratica la sua bella trovata d’avanguardista.

Nel sogno facevo strani incontri. 
All’inizio vedevo una signora di una certa età, con un cappellino in bilico sui capelli, da cui spuntava, maliziosa, una penna di fagiano. In modo brusco, la signora domandava al direttore della libreria, un uomo sui cinquant’anni, volto simpatico e impertinente, baffoni alla Giovanni Guareschi, di procurarle tre copie di Le inquietudini del Signor Smargiassi
Una copia aveva intenzione di regalarla al suo nipotino, perché imparasse a distinguere tra le sensazioni immaginarie e le sensazioni psicofisiche, come insegna Bernhard Berenson; un’altra era destinata al suo panettiere, che al pari del Signor Smargiassi, amava follemente le uova bazzotte e la terza – confidò la signora aggiustandosi il cappellino – voleva che finisse fra le mani di una sorellastra che a giorni sarebbe rientrata da una lunga vacanza trascorsa sull’isola di Robinson Crusoe, una delle Isole Juan Fernandez, situata davanti alla costa cilena. Dopo un viaggio così esotico, disse la signora che sembrava molto sicura di sé, la sorellastra avrebbe apprezzato maggiormente la lettura di quel libro.
Tre copie in una sola richiesta: un risultato davvero lusinghiero. Su di me (durante il sogno) sentivo allungarsi quell’alone d’interesse che fa di un libro, una volta preso nel vortice del tam tam dei lettori, un’opera di successo. Altro che libro per quattro gatti di bibliofili, da esporre nella fredda bacheca di una galleria d’arte contemporanea!

Un giorno (il sogno si snodava su un flusso ampio, sebbene imprecisato, di tempo) entrò in libreria un giovane che mi osservò attentamente. Aveva l’aspetto tipico del professorino di filosofia, il vestito trasandato, gli occhi persi in cerca di una verità inconfutabile, un accenno insignificante di peluria intorno alla bocca. Dopo aver letto avidamente la quarta di copertina, mi ripose nello scaffale e, avvicinatosi al commesso, lo sentii affermare: 
- Quest’anno, nel mio corso, mi piacerebbe adottare Le inquietudini del Signor Smargiassi -, quindi si allontanò, con le mani unite dietro la schiena e lo sguardo curvo, incollato sulla punta delle scarpe.
Non nego che l’idea ventilata dal professorino mi procurò una gioia immensa, indescrivibile. In un certo senso riscattava (in sogno, si capisce, dove l’emotività percettiva del sognatore il più delle volte si amplifica a dismisura) la frustrazione che mi derivava, nella vita reale, dal fatto di appartenere alla categoria dei libri d’élite, di essere un oggetto da collezionista, una cianfrusaglia museale.
Sì perché, ancora non l’ho detto, ma quel bellimbusto del ceramista savonese, uno che, figuriamoci, per farsi pubblicità, si presentava esibendo un biglietto da visita di latta, si era preoccupato di farmi stampare in 101 esemplari di cui soltanto 50 in commercio. Bravo, no, il Tullio Mazzotti, originario d’Albisola? Un espediente da furbetto che aspira a lasciare un segno indelebile nella storia del libro d’artista!

Qualche tempo dopo, sempre nel sogno che sto raccontando, mi capitò di ascoltare la conversazione tra due liceali, due sbarbatelli con velleità da critici letterari, che si erano fermati a discutere proprio sotto di me, davanti al mio scaffale.
- Mi ha colpito la cifra stilistica e lo spessore morale di Le inquietudini del Signor Smargiassi - disse il primo.
- Bisognerebbe tenerlo sempre sul comodino accanto al letto e leggerne almeno una pagina prima di addormentarsi - ribatté l’altro.
- Mio padre l’ha divorato in una sola notte.
- La cosa non mi stupisce. Fra l’altro, ha una bella copertina.
- Sì, la riproduzione della «pittrice Marcia» è indovinata.

Il riferimento alla «pittrice Marcia», miniatura contenuta in un manoscritto del 1402 del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio, fu per me una pugnalata al cuore. Mi venne spontaneo il raffronto con la mia copertina di latta. Che poi dire mia non è proprio esatto, perché io me la sono trovata cucita addosso, con dei fili di rame, senz’avere la minima possibilità di scelta, com’è nello stato naturale delle cose; del resto, nessun individuo, credo, sceglie il naso che il Padreterno gli ha sistemato in mezzo agli occhi. 
L’artefice della copertina che mi affligge da quel lontano 1934 si chiama Bruno Munari. È lui il brillante illustratore cui si deve il capolavoro (sic) che sta all’inizio di L’anguria lirica (lungo poema passionale): una sfera rossa, con una teoria circolare di piccole linee nere all’interno, e il disegno schematico di un coltello che l’attraversa sulla parte sinistra. Che orrore!

Questo, in breve, è il sogno che ho fatto l’altra notte. E la ragione per cui l’ho fatto – ne accenno qui in modo schematico, senz’avventurarmi in tortuose discettazioni psicoanalitiche - penso vada ricercata nell’insofferenza che provo di fronte alla mia vita di libro-oggetto, di libro metallico stampato a litolatta con un tubolare, anch’esso di latta cromata, che funge da dorso. 
Una vita grigia, priva di contenuto, o meglio dove il contenuto s’identifica nell’aspetto fisico, nella corporeità dell’oggetto artistico, dove non ha più importanza quello che si racconta, l’intreccio, la storia dei personaggi, come nelle pagine dense di un romanzo ottocentesco, ma si guarda solo all’estetica delle forme materiali.
Mi sono stancato di fare il libro-oggetto, di mettermi in mostra, di recitare la parte dell’attrazione da baraccone nel vorticoso circo dei bibliofili, di lasciarmi vivisezionare dallo sguardo accademico degli storici del futurismo, come se fossi una creatura orribile uscita da un racconto di Jules Verne. 
Non sono decrepito come una cinquecentina, ho ancora la possibilità di rifarmi una vita, una vita nuova da libro normale, riproducibile...


Almanacco del Bibliofilo, 14, 1 gennaio 2004, pp. 221-228.
Questo numero dell'Almanacco, intitolato "Confidenze di libri. Divagazioni autobiografiche di libri antichi e moderni con un suggestivo monologo interiore di un e-book", a cura di Mario Scognamiglio, contiene testi di (in ordine di apparizione) Umberto Eco, Mauro Giancaspro, Giulio Andreotti, Gianfranco Dioguardi, Oliviero Diliberto, Mario Scognamiglio, Gino Moncada Lo Giudice, Matteo Collura, Elio Palombi, Gianandrea de Antonellis, Armando Torno, Pietro Spirito, Annalisa Bruni, Curzia Ferrari, Giuseppe Marcenaro, Paolo Albani e Paolo Della Bella.

Ecco cosa scrive Gianfranco Dioguardi sul numero 97-98, marzo-giugno 2004 de L'esopo, rivista trimestrale di bibliofilia, a proposito di questo racconto:

«[...] Questa sorta di erotismo induce a introspezioni freudiane, che puntualmente giungono con Le inquitudini del signor Smargiassi di Paolo Albani dove un libro caratterizzato - scrive l'autore - da "una vita grigia, priva di contenuti, o meglio dove il contenuto s’identifica nell’aspetto fisico, nella corporeità dell’oggetto artistico, dove non ha più importanza quello che si racconta, l’intreccio, la storia dei personaggi, come nelle pagine dense di un romanzo ottocentesco, ma si guarda solo all’estetica delle forme materiali" sarà indotto a fare sogni fantastici pervasi da "quell’alone d’interesse che fa di un libro, una volta preso nel vortice del tam tam dei lettori, un’opera di successo"» (Gianfranco Dioguardi, «Confidenze di libri», L'esopo,97-98, marzo-giugno 2004, pp. 7-16). 


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