Paolo Albani
Dalla
finestra aperta dell’appartamento dirimpetto al mio, quarto piano, in via
Giacomo Puccini, una stradina stretta, tanto stretta che è a senso unico e ci
passa una macchina appena, considerando lo spazio occupato dalle vetture in
sosta su un lato della carreggiata, vedo Gaetano che, sbracciandosi per
attirare la mia attenzione, mi urla: – C’è l’acqua alta! C’è l’acqua alta! Sono le otto e mezzo circa del mattino. È una giornata
primaverile, fa un caldo insolito, la temperatura è sopra la media stagionale. – L’acqua alta? Ti sei fumato il
cervello? – rispondo a Gaetano. – Sì, c’è l’acqua alta, cazzo –
insiste Gaetano. Continua a urlare come un disco incantato. – L’acqua alta! L’acqua alta! Ha i capelli arruffati, che sembra uno scienziato pazzo o
Branduardi da giovane. – Mica siamo a Venezia, Gaetà – gli
urlo a mia volta, ma la mia voce non riesce a sovrastare la sua. – Guarda giù, per strada, se non ci
credi, coglione – mi dice Gaetano che ogni tanto entra nella sua stanza e poi
ritorna alla finestra, entra e esce, entra e esce, di continuo, come un
forsennato; poi si sporge in avanti e lancia un’occhiata in basso. Non si ferma.
Non so cosa gli sia preso. Non l’ho
mai visto così agitato. – L’acqua alta! E ora che si fa?
Questa non ci voleva – impreca Gaetano. Ha i lucciconi agli occhi, sta per
mettersi a piangere. A questo punto, mi sporgo anch’io
dalla finestra e abbasso lo sguardo verso la strada, filtrando la visuale in
mezzo al filo dove sono stesi i miei panni, tre camicie, calzini e mutande. In strada c’è un fiume d’acqua che
scorre. Ogni tanto affiorano oggetti di ogni tipo, una bicicletta, un bidone
della spazzatura o il tavolino di un bar portati via dalla corrente. Gli
oggetti sbattono contro i fianchi delle macchine parcheggiate, sommerse quasi
per metà dall’acqua, e proseguono il loro movimento incontrollato,
capovolgendosi e riaffiorando subito dopo. È una scena terrificante. Ne ho viste
di simili durante l’alluvione a Firenze, nel 1966, quand’ero ospite di un amico
che abitava vicino a piazza del Duomo. Una giornata storica, indimenticabile,
purtroppo: venerdì 4 novembre 1966. E chi se la scorda. Giù in strada si sentono dei colpi secchi nel momento in
cui gli oggetti trascinati dalla corrente urtano qualche ostacolo, macchine in
sosta o cartelli stradali. Stamani presto, mentre mi stavo
preparando la colazione, ho sentito dei rumori in strada, ma credevo venissero
dall’officina meccanica sotto casa. Fanno sempre un gran casino lì dentro. Non
ci ho dato peso. – Porca troia, ma che è successo? –
chiedo a Gaetano, senza attendermi una risposta. Lui ormai è nel pallone. Io sono
moderatamente spaventato. Adesso comprendo la sua agitazione. – Si è rotto un
tubo dell’acquedotto? Più tardi, alle 12:30, devo andare a un appuntamento
importante con il responsabile di marketing di una compagnia assicurativa, devo
fargli vedere delle prove di manifesti per una campagna pubblicitaria. Ci ho
lavorato due settimane, notte e giorno. Voglio far fare bella figura al capo
della mia agenzia, e allo stesso tempo non deludere il mio cliente, che è uno
pignolino, difficile. Non gli va mai bene nulla, e togli questo, e aggiungi
quest’altro, e il colore dev’essere più acceso, e quella parola non funziona, e
cambia il font dello slogan, ecc. ecc. Certe volte mi verrebbe da dirgli a muso
duro: Guardi, se lo faccia da solo il manifesto e non mi rompa i coglioni, che
ho anche altri lavori in ponte, altri clienti da prendere in considerazione,
che mi aspettano. Invece devo mantenere la calma e comportarmi da persona
educata, comprensiva. Il cliente ha sempre ragione, no? Al momento devo risolvere il dramma che si sta consumando
lì sotto: come faccio a uscire di casa con quel fiume minaccioso in strada? Ci
vorrebbe un gommone, una barchetta di salvataggio o uno di quei mezzi anfibi
dei vigili del fuoco. Già i vigili del fuoco. Telefono al
numero del vigili del fuoco. Speriamo risponda qualcuno. Il segnale è libero,
ma c’è un tempo d’attesa spaventoso. Ci rinuncio. Mentre spengo il cellulare, sento le
urla di Gaetano che non si placano e si spargono nell’aria come un mantra. – C’è l’acqua alta! C’è l’acqua
alta! Altre persone, richiamate dagli
schiamazzi di Gaetano, si sono affacciate alle finestre e hanno scoperto il
fiume che scorre in strada. Sono allibite. – Cazzo, la mia macchina! – sbraita
uno. Un’anziana signora con i bigodini si mette le mani in testa dalla
disperazione. Sono preso dal panico, avessi un
fucile sparerei a Gaetano per metterlo a tacere. Un colpetto preciso con il
silenziatore in mezzo alla fronte. Zip, e niente più urla! Vedo che è andata via la corrente. Sono
isolato. Non posso nemmeno accendere la tv, ascoltare un telegiornale per
sapere cos’è accaduto. Esco dal mio appartamento attirato
dal trambusto che proviene dal fondo delle scale. Mi sporgo dalla ringhiera e
vedo padre e figlio maggiore della famiglia Codacci, che abitano al primo
piano, portare sul pianerottolo situato due rampe sopra la loro abitazione
alcune suppellettili: hanno già depositato un paio di mobili, un paralume, un
materasso e due grosse valigie. Hanno l’aria degli sfollati, spaesata, distrutta.
Padre e figlio Codacci indossano stivaloni da pescatore (ogni domenica vanno a
pescare in un fiumiciattolo qua vicino). Il loro appartamento sarà stato invaso
dall’acqua. Ora che ci penso anch’io ho delle
galosce, le uso quando vado in campagna, a lavorare nell’orto, il mio
passatempo nei giorni festivi. Potrei fare una pazzia: scendere giù in strada e
con un po’ di fortuna, saltando da un tettino all’altro delle macchine bloccate
dall’acqua, arrivare dritto fino in centro, dove mi aspetta l’assicuratore. È
un’operazione rischiosa, perché magari anche il centro della città è sommerso
dall’acqua. Non posso saperlo. – ATTENZIONE! ATTENZIONE! – grida
una voce. È quell’invasato di Gaetano, suppongo.
Che Dio lo stramaledica. È mai possibile che debba rompere le scatole a tutti i
vicini. Rientro in casa e mi affaccio alla finestra, intenzionato a
scaraventare contro Gaetano un portacenere di cristallo o qualche altro oggetto
pesante, non importa, basta che gli faccia male, gli spacchi il naso o i denti.
Gaetano però non c’è, la sua finestra ora è chiusa. Mi ricredo. Niente lancio di oggetti pesanti contro Gaetano
(per ora). Cerco di scoprire da dove proviene quella voce metallica che
continua a ripetere: – ATTENZIONE! ATTENZIONE! – Mi accorgo che all’altezza della mia finestra sta
transitando un mezzo di soccorso della protezione civile, con due operatori a
bordo che indossano un giubbetto giallo e blu. – RESTATE IN CASA, NON SCENDETE IN STRADA – raccomanda uno
degli operatori della protezione civile tenendo davanti alla bocca un megafono.
L’altro manovra il timone della piccola imbarcazione a motore. – QUESTA MATTINA ALLE 4:37 – prosegue l’operatore con il
megafono – SI È SCIOLTA D'IMPROVVISO LA PARETE DESTRA DEL GHIACCIAIO SITUATO IN PROSSIMITÀ DI…
ottobre 2020 _________________________________________
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