Paolo Albani
A un certo punto, con la fronte che
già mi brilla di goccioline di sudore, sento che la zappa urta contro qualcosa,
un oggetto duro. Un sasso, penso. Appoggio su un lato la zappa e frugo con le
mani nel punto in cui ho sentito il colpo. Sposto il terriccio e affiora una
protuberanza strana, un grumo solido di un colore chiaro. Sembra un osso.
Potrebbe essere quello di un cane. Un po’ alla meglio tolgo dalla superficie densa dell’oggetto
i granelli di terra rimastigli attaccati. Poi lo avvolgo in un fazzoletto e lo
porto in un piccolo lavabo, costruito da me. Apro il rubinetto e pulisco
l’oggetto misterioso piazzandolo sotto il getto d’acqua. Adesso è limpido, senza alcuna incrostazione.
Lo guardo attentamente. Da ogni lato. Ne saggio la consistenza. Dopo che l’ho
esaminato, vedo con estrema nitidezza che è un aggettivo. Precisamente un
aggettivo dimostrativo: «QUELLA». Sono perplesso. Che ci fa il fossile di un aggettivo dimostrativo sepolto nel mio orto?(*) Torno sui miei passi. Raggiungo
velocemente l’orto. Rovisto nel solco in cui ho rinvenuto l’aggettivo.
Difficile che un aggettivo se ne stia lì da solo. Ho come il presentimento che
ci sia dell’altro nascosto dentro il terreno. Se viene alla luce qualcosa
d’interessante, è probabile che dovrò rinunciare ai pomodori. Ma non m’importa. Ormai la caccia al tesoro è aperta.
Non voglio abbandonare la ricerca. M’infilo dei guanti da lavoro, di
pelle, per evitare di tagliarmi dovessi imbattermi in frammenti di vetro o nei
cocci di un vaso. Il terreno dove scavo è abbastanza friabile. Mi faccio spazio
usando, oltre alle mani, la punta di un bastoncino ricavato dal ramo di un
ulivo (ho una quarantina di ulivi, potati nel fine settimana). Allargo il campo
ispezionato, formando un cerchio che lambisce gli estremi dei solchi vicini. Non trascorre molto tempo che scopro un nuovo reperto. Mi
sento un archeologo dilettante. La cosa mi diverte. L’oggetto appena dissepolto
è simile al precedente, fatto quasi certamente dello stesso materiale. Lo tiro
fuori con cura, non voglio si sbricioli. Ci sono oggetti antichi che, una volta
esposti alla luce del sole, vanno in pezzi. Lo esamino. Questa volta si tratta di un sostantivo:
«RAGAZZA». La prima «A» è leggermente
sbocconcellata, in basso nella stanghetta destra; per il resto il reperto si è
conservato in ottime condizioni. È perfettamente decifrabile in tutta la sua
estensione. Continuo a scavare. In poco meno di
mezz’ora estraggo altri resti archeologici che presentano differenti disegni
geometrici. Presumo tuttavia che appartengano a un identico ceppo, come i
gioielli dello scrigno di un sovrano del passato. Brancolo nel buio. Ancora non capisco in cosa mi sono
imbattuto. Nel raggio di un metro quadrato, il
terreno, da cui sono scomparsi i solchi che ho tracciato, è tutto sottosopra.
Continuo a smuovere la terra e spuntano fuori nuovi oggetti, come funghi, di
cui ignoro il senso: «CAPPELLO», «TRISTI», «RICORDERÒ», «MONACALE», e altri
ancora. Raggruppo
gli oggetti in una cassettina di legno, di quelle da ortolano. Ne ho una pila,
accatastate in un angolo del giardino. A protezione, li ricopro con uno strato
di muschio. Conosco un giovane archeologo che insegna alla Facoltà di Lettere
di Siena, ha eseguito scavi in Siria (prima della guerra) e a Cipro. È un
amico. Voglio fargli vedere il mio “tesoro”. Lui saprà mettere insieme i pezzi,
rintracciare un significato dalla loro connessione. È il suo mestiere. Incontro l’amico archeologo presso
il Dipartimento di Lettere dell’Università di Siena. Mi ha concesso la
mattinata, dato che non ha impegni accademici. Non appena ci vediamo, lui
prende i reperti dalla cassettina e li dispone sul tavolo della sua stanza,
dopo averlo liberato da penne, libri e altri ingombri. Ha infilato dei guanti in
lattice. Ogni tanto sposta un “ossicino”, con delicatezza, come se maneggiasse
piccole, fragilissime sculture di cristallo. Lo osservo mentre ispeziona il
materiale, usando una lente d’ingrandimento. Non l’avevo mai visto all’opera,
in veste professionale. È serissimo. Pondera ogni combinazione. Misura le
distanze, i possibili incastri, le conformità. A un certo punto si allontana
dal tavolo e consulta sul computer la pagina di un sito. Sbircio con la coda
dell’occhio, mi sembra che stia visionando delle foto. Alla fine si volta e mi guarda
soddisfatto. – Questa è la combinazione giusta –
mi dice. Ora sul tavolo i reperti sono
disposti in modo da formare una sequenza di parole plausibile: Per molto tempo ricorderò Quella ragazza cogli occhi Conscii tristi e tranquilli E il cappello monacale. – Cos’è? – gli chiedo. – Una poesia di Dino Campana –
risponde lui. I reperti risalgono con sicurezza
all’inizio del XX secolo. – Non mi meraviglia fossero nel tuo
giardino – dice il mio amico. – Biforco dista neanche due chilometri da
Marradi. Su chi l’abbia seppelliti, e perché,
non azzarda alcuna ipotesi. Resta un mistero.
febbraio 2021 _________________________________________
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