MUSICA E NO
Santa Maria della Scala
Siena
febbraio-marzo 1998
catalogo a cura di Eugenio Miccini
Edizioni META, Firenze
Paolo Albani
Un filo di voce (1997)
cm 33x35x15, tecnica mista
Collezione Piero Maffessoli
Nella scheda da me redatta per illustrare la mia opera è scritto:
La voce come musica è "phílos", cioè "amica", in più di un senso.
Come strumento che «ha amore, disposizione, simpatia» per
l'indicibile, per l'inesprimibile a parole; tendenza che può
aiutare, come il filo di Arianna, a non smarrirsi in situazioni difficili,
confuse, intricate, a ritrovare il senso delle cose improbabili, che può
sollecitare collegamenti diretti, discendenze filologicamente inusitate o
meravigliosi cortocircuiti. E tutto ciò senza esagerare sottolineature o
timbri altisonanti, ma con l'impiego di una quantità minima:
appunto con un filo di voce.
Eugenio Miccini
Prefazione
al catalogo della mostra
L'idea di questa mostra parte da
lontano. Negli anni '60 io e Pignoni
facemmo una serie di spettacoli dal titolo sintomatico di «Poesia
e no». Ispirandoci - mi si perdoni il termine - alle ibridazioni
linguistiche in atto nelle arti e nella comunicazione sociale,
mettevamo
insieme in una sorta di unità, alla maniera del cinema, recital,
proiezioni, affissioni, audizioni di canzonette e di musica classica,
poesie
visive e partiture, azioni pittoriche ed happenings, ecc. In un
convegno
coevo avevamo a lungo discusso con i più autorevoli esponenti di
ogni disciplina e di ogni pratica estetica sulla
interdisciplinarilà
delle forme espressive, sulle varie contaminazioni tra i generi
artistici.
Questa mostra parte, appunto, da quelle tesi e da quei presupposti.
Gli autori che vi partecipano ne sono consapevoli: hanno fatto
interagire
codici espressivi diversi seguitando quelle pratiche di sconfinamento
inaugurate
dal nostro declinante secolo e che in qualche modo configuravano, o
presumevano,
nuove convenzioni simboliche ed inedite espressioni artistiche. Il
nostro
secolo, dicevo, è stato attraversato - e non saprei onestamente
se quell'attraversamento si sia arrestato – da un'ondata, e da una
passione
analitica, sottoponendo ogni universo di discorso e perfino ogni sapere
a una revisione, critica, investendo insomma tutta la cultura con una
furia
investigativa, che in qualche modo ne disciplinasse le antiche
strutture.
In altre parole, il punto cruciale di tutto il Novecento era, e forse
continua
ad essere, il problema del linguaggio. L'unità del sapere, ha
subito
una sorta di trauma epistemologico; ogni linguaggio si è votato
alla ricognizione dei propri statuti, alla scomposizione delle forme
complesse,
alla ricerca degli elementi primari... «L'uomo strutturale -
scriveva
Roland Barthes - separa, divide e poi rimonta e ricompone. Tutto qui?
In
questo propriamente consiste nientemeno che l'intelligibile
generale».
Ma questa vocazione, analitica, questo ritorno alle origini, alle
sorgenti
di una «grammatica» purificata, doveva produrre - proprio
in
virtù di una riacquistata capacità combinatoria -
esattamente
il proprio contrario e cioè una spregiudicata attività
sintetica,
un desiderio sfrenato - cadute le barriere istituzionali e i dogmi
ontologici
- di contaminazione delle corporazioni estetiche con corpi estranei,
con
intrusioni extraestetiche, con interazioni con altre convenzioni
grafiche,
semantiche. Sembrava non vi fossero limiti e che la creatività
si
assestasse ormai nelle zone franche, in un'area di confine.
A soffiare sul fuoco di questa forte eccitazione novecentesca sono
state ovviamente le Avanguardie Storiche, in primo luogo il Futurismo,
che hanno inaugurato il secolo sollecitando quelle radicali mutazioni
culturali,
del resto omologhe, se non proprio tributarie, delle altre e cogenti
novazioni
che anche drammaticamente anticiperanno le vicissitudini
sovrastrutturaii
degli anni '60 e delle Neoavanguardie.
La musica, che si è spesso trovata a rimorchio
delle arti
sorelle,
ha subito anch'essa i contraccolpi delle vicende estetiche generali,
non
solo rivoluzionando le proprie convenzioni scritturali, ma anche
introducendo
nel suo geloso dominio nuove, sonorità, il rumore della
fonosfera
urbana, il noise e perfino il silenzio; non solo inventando nuovi
strumenti,
ma anche elevando a strumento musicale qualsiasi oggetto. l'uso di
strumentazioni elettroniche, ad esempio, ha realizzato la profezia di
Marshall Mc Luhan: «il tram elettrico non solo - diceva - fa meglio il lavoro
del tram a cavalli, ma ha inventato delle prestazioni che prima erano impensabili».
Lo stesso si potrebbe dire per la «Poesia sonora» "inventata" dal magnetofono,
per la «Video-arte», per l'architettura radicale e new-brutalist ecc. La stessa
nozione di "bellezza" - tra
le circa duemila catalogate da Ogden e Richards - è mutata forse a buon diritto identificandosi
con la definizione di "sinestesia".
La
quale è fortemente richiamata da quella "mutazione antropologica" di cui
parla Umberto Eco, che consiste nell'attitudine ormai invalsa e irreversibile ad
una percezione simultanea di messaggi multimediali e quindi di una risposta univoca
a una pluralità di stimoli, e tutto questo nel campo delle comunicazioni e della
vita di relazione. Nella famosa raffigurazione delle Muse di Giulio Romano le
Arti si danno la mano e danzano insieme, in una sorta di vagheggiamento mitico,
tanto auspicato dai Romantici e tuttavia mai postulato efficacemente. Forse solamente
oggi potremmo dire che tra certe Muse le relazioni si sono fatte assai strette.
La «Poesia Visiva», per citarne qualcuna, che ancora non ha santi in paradiso né
Muse nell'Olimpo, è stata spesso affiancata alla Pop-Art se non alla Pubblicità;
si è scritto di musicisti usando categorie in uso in altre discipline estetiche,
come «impressionismo, espressionismo, pointillisme, barocco, concretismo, new-dada,
ecc.» e si sono usate, per converso, termini musicali come «timbro, registro, tono,
ecc.» per indicare qualità pittoriche, poetiche e via dicendo. «Il rapporto tra
musica e arti figurative - scrive
Luciano Berio - è sempre stato problematico:
può essere individuato solo sulle grandi distanze, su percorsi già compiuti e su
linee molto generali […]. Sul
piano dell'attualità ogni tentativo di voler instaurare un rapporto coerente
tra pensiero musicale e pensiero pittorico è destinato all'aneddoto e al naufragio».
Diciamo, con un ossimoro, che si tratta di un rapporto di estraneità, di un dialogo
differito che, in quanto tale, produce nelle singole arti una specie di valore aggiunto,
che in questi ultimi anni ha dato anche notevoli risultati. Forse per venire incontro
a tante e troppe cautele, per accorciare le distanze tra le sponde spesso
lontanissime di questi oceani, per non confinare tutte le tensioni che si sono
accese tra le arti nel puro regno delle congetture, potremmo azzardare che -
come pareva sottintendere anche Berio -
non si tratta di definire un rapporto tra
segno e suono, tra suono e rumore o tra altre mille lemmi di coppie dialettiche,
bensì tra suono e senso, tra linguaggio e pragmatica culturale.
Mi
devo scusare dell'approssimazione e dell'inevitabile schematicità con la quale -
seppure a titolo indicativo - espongo dei problemi certamente troppo complessi,
ma lascio al visitatore della mostra il compito di fare il resto. Del resto, molti
autori qui presenti hanno risposto accettando ma anche ricusando la formula, destinando
tuttavia la loro partitura fatta per l'ascolto alla sola visione e viceversa.
Presumo,
concludendo, che la mostra parli non solo delle molteplici avventure formali delle
arti, ma anche e sintomaticamente della civiltà in cui agiscono. Il titolo «Musica
e no» allude a quelle scritture che vertono sui suoni e su tutto ciò che li
produce, ma anche sulle strutture linguistiche che li realizzano, sulle reciproche
addizioni ed elisioni, insomma tra le relazioni arbitrarie tra suoni e segni, tra
materie e funzioni, tra tradizioni e prefigurazioni. La mostra vorrebbe contribuire
a tracciare la lunga marcia dell'arte e di tutta la cultura verso un'enciclopedia
husserliana, verso la creazione di un'arte totale. Era inevitabile che i 78
autori (poeti e musicisti, architetti,
scultori e pittori) partendo da ciò che materialmente reifica idee e progetti cioè
il "libro", lo aggredissero in ogni modo e che tutti insieme volessero,
non fosse altro, sottolineare un comune disegno o un comune destino che investe
tutte le forme dell'arte e della vita. Ché anzi - a ben guardare le opere esposte - quel «no» che gioca anche un po' sinistro nel
sintagma del titolo potrebbe suonare come un monito severo, appunto, sul
destino dell'uomo e non solo dell'uomo di cultura.
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Questa
mia opera è stata usata come copertina per il libro di Gabriele
Marino, Britney canta Manson e altri capolavori... Recensioni e dischi
(im)possibili nel giornalismo rock, prefazione di Vittore Baroni, Crac
Edizioni, Falconara Marittima (An) 2011:
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