Paolo Albani
IL ROSSORE

Ci sono persone che arrossiscono per un nonnulla, che s’infiammano non appena sentono una parola volgare, o una frase spinta, indecente (sembra che il fenomeno sia più diffuso fra le donne che fra gli uomini). Queste persone, per un fatto di pudicizia estrema o forse perché insicure interiormente, hanno una certa predisposizione ad arrossire con facilità.

 L’agronomo Alfonso Turi, un quarantenne scapolo di Latina, era uno che arrossiva di continuo, senza motivo e a sproposito, e si vedeva bene quando arrossiva perché aveva una carnagione bianca, lattea, e i capelli chiari come uno svedese. 
Se qualcuno, un amico o un parente, gli diceva: «Sai, ieri al cinema Cristallo mi è sparito il portafoglio», sebbene il Turi non fosse mai stato al cinema Cristallo, perché non ci andava mai al cinema, e sebbene la sera del furto in questione si trovasse per lavoro in un’altra città, a Colle Val d’Elsa per l’esattezza, in Toscana, e quindi lontanissimo dal cinema Cristallo di Latina e avesse incontrato un sacco di gente che poteva testimoniare che lui non era a Latina quella sera, nonostante tutte queste circostanze che l’avrebbero scagionato dal minimo sospetto, per altro assurdo perché lui non era un ladro, e non aveva mai rubato niente in vita sua, nemmeno la marmellata da piccolo, malgrado ciò se uno per l’appunto gli diceva: «Sai, ieri al cinema Cristallo mi è sparito il portafoglio», il Turi arrossiva, avvampava in un secondo.
 Era una reazione spontanea, incontrollabile. D’improvviso scattava nella mente del Turi un processo psicologico d’identificazione con il ladro, una sorta di gioco delle parti rovesciate, dove lui non era più lui, ma finiva per calarsi nei panni del malfattore, in questo caso del ladro del cinema Cristallo. Insomma, nelle situazioni più normali, come la confidenza di un banale furto, il Turi si lasciava sopraffare da idee assurde (l’idea ad esempio che lui, in seguito a una serie di congiunture imprevedibili, di casi sfortunati, sarebbe potuto diventare un ladro nella vita e mettersi, perché no?, a rubare portafogli come quel tizio del cinema Cristallo), idee al limite della perversione, comunque tali da farlo arrossire di colpo.

 Una domenica stava a cena dal suo amico Cristiano Rughi, anche lui agronomo; a tavola c’erano la moglie di Cristiano e un’altra coppia di amici dei padroni di casa. A un certo punto, durante una discussione su un caso di violenza contro dei bambini di una scuola elementare di Latina, un episodio riportato a grandi titoli nelle locandine dei giornali locali, la moglie di Cristiano, guardando il Turi dritto negli occhi semplicemente perché nella distribuzione dei posti ce l’aveva seduto di fronte, aveva detto infervorandosi: 
«Ah, io questi pedofili li castrerei tutti, senza pietà, non ci penserei su due volte, davvero», al che il Turi, abbassando lo sguardo sul piatto, era diventato improvvisamente di un rosso ciliegia, le gote gli avevano preso fuoco e anche tutto il resto del volto, e aveva cominciato a tossire, come se gli fosse andato di traverso qualcosa, nel tentativo, goffo, di giustificare con quella messinscena il suo rossore.
 La verità è che il Turi si sentiva inspiegabilmente responsabile di ogni fenomeno negativo che gli veniva comunicato, anche il più insignificante (vedi il furto di un portafoglio) e la negatività che assorbiva dentro di sé la manifestava poi sul suo volto attraverso l’arrossamento della pelle, un rossore che, visto dall’esterno, era quasi un’esplicita, per quanto ingiustificata, ammissione di colpa. 
Come quella volta che a mezzogiorno in un bar affollato un signore di una certa età dall’accento palesemente siciliano, rivolto alla cassiera, aveva detto ad alta voce:
«I gay sono dei pervertiti e bisognerebbe ricoverarli con la forza in cliniche specializzate», e il Turi che stava in fila proprio dietro il signore siciliano, aspettando il suo turno per pagare l’aperitivo, sentita quell’invettiva, si era acceso in volto come una torcia, e tutti nel bar, vedendolo arrossire, avevano pensato che si fosse risentito perché omosessuale. 
O come quando a un posto di blocco, appena fuori Latina, un carabiniere con il mitra in braccio aveva chiesto per scherzo al Turi: 
«Mi dica subito se ha delle bombe nascoste nel portabagagli», e il Turi, infastidito perché non gli piaceva che si scherzasse su di lui, aveva risposto di no, che di bombe nel portabagagli non ne aveva, che controllasse pure, ma mentre diceva questo, era arrossito violentemente. 
Come pure arrossì, sempre senza motivo, una volta che in treno una suora olandese, corpulenta, che occupava quasi due posti, se la prese con quelli che si spretano e gettano via la tonaca, «la raze peggiora di tratitori e okportunisti» disse la suora in un italiano storpiato, o quando una sua cugina che studiava legge raccontò a un pranzo natalizio un aneddoto su un famoso avvocato di Latina che, durante le arringhe in tribunale, faceva delle puzze terribili, alzando la voce ad arte nei momenti critici di flatulenza.

 Alla fine, dopo aver collezionato una gran quantità di quegl’attacchi inconsulti di rossore, per mascherarli, il Turi ebbe un’idea geniale, risolutiva: comprò una lampada a raggi ultravioletti e si abbronzò il volto, e decise di tenersi l’abbronzatura tutto l’anno, che la gente, vedendolo combinato a quel modo, nero come il carbone, il volto bruciato dai raggi ultravioletti, lo avrebbe scambiato per un maestro di sci o una guida di montagna. 
Dopo la trovata della lampada nessuno si accorse più quando il Turi arrossiva.

novembre 2008

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Una versione ridotta di questo racconto è apparsa su il Caffè illustrato, 49/50, luglio/ottobre 2009, p. 10.
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