Paolo Albani
UN
CURIOSO
GENERE LETTERARIO
Quello delle biblioteche
immaginarie o degli pseudobiblia
(termine quest’ultimo coniato da Lyon Sprague De Camp in «The
Unwritten
Classics» apparso sulla The Saturday Review of Literature
del 29 marzo 1947, e che opportunamente viene qui ristampato)
è
un vero e proprio genere letterario, su cui si sono esercitati numerosi
scrittori: si pensi in primo luogo a François Rabelais che, con
il suo burlesco catalogo della Biblioteca di San Vittore, è un
po’
l’inventore di questo tipo di fantasie bibliografiche, o più
recentemente
alle «finzioni da bibliofilo» di Jorge Luis Borges, e
ancora
alle recensioni di Stanislaw Lem in Doskonala próznia
(Vuoto
assoluto) (1974) per arrivare fino al falso manuale di letteratura
contenuto
ne La literatura nazi en América (1996) di Roberto
Bolaño.
Sull’argomento esiste una vasta letteratura di studi storico-critici:
fra questi il ruolo di classico gioca l’Essai sur les
bibliothèques
imaginaires (1851) di Gustave Brunet, che muove dalle ricerche
condotte
da Édouard Fournier e Pierre Jannet nel 1848-49 sul Journal
de
l’amateur de livres. Una conferma dell’importanza del genere
letterario
degli pseudobiblia viene dal prestigioso Manuale
Enciclopedico
della Bibliofilia (1997), curato da Vittorio Di Giuro, dove
compaiono
le voci «Biblioteche immaginarie» e «Cataloghi
immaginari»,
curate rispettivamente da Gianni Guadalupi e Hans Tuzzi, e inoltre dai
numeri monotematici dell’Almanacco del Bibliofilo dedicati alle
«Bibliocorrispondenze dai nostri inviati speciali nel ventunesimo
secolo» (10, 1 gennaio 2000), a «I libri dei prossimi venti
anni. Segnalazione di alcune interessanti opere pubblicate dal 2002 al
2021 selezionate e descritte da arguti bibliografi» (12, 1
gennaio
2002) e alle «Bibliofantasie di una estrosa équipe di
scanzonati
favolatori» (13, 1 gennaio 2003).
Cosa sono i libri
immaginari?
Ne «Gli pseudobiblia di Chtulhu» di Domenico Cammarota
(in Gianni Pilo, L’orrore di Chtulhu, Roma, Fanucci, 1986, pp.
217-233),
gli pseudobiblia sono suddivisi in quattro categorie
fondamentali,
a loro volta suscettibili di ulteriori definizioni microstrutturali: 1)
Libri che sono esistiti, ma che oggi non esistono più (per
dispersione,
distruzione, perdita, ecc.); 2) Libri che non sono mai esistiti, ma che
potrebbero esistere (per ricostruzione apocrifa, giochi di citazione,
ecc.);
3) Libri che esistono, ma è come se non esistessero (per
irreperibilità,
estrema rarità, censure, ecc.); 4) Libri che esisteranno, ma che
ora non esistono (work in progress, lavori in nuce, non ancora attuali,
ecc.).
«È ovvio che con questo sistema intrecciato,»
precisa
Cammarota, «i libri della categoria 1 possono scivolare nella
categoria
3, poiché è sempre probabile, prima o poi, che qualche
singolo
esemplare esca fuori dal dimenticatoio dei secoli, pronto ad essere
(ri)stampato
e diffuso; così come i libri della categoria 2 possono scivolare
nella categoria 4, dato che è possibilissimo che qualcuno, oggi,
(ri)scriva dei testi immaginari, dando così loro una patina di
legittimazione
su carta» (p. 218).
La fluidità che avvolge il concetto di «libro
inesistente»
è ben espressa dall’Antologia apocrifa (1933) di Paolo
Vita-Finzi,
raffinato parodista. In essa Vita-Finzi si diverte a imitare lo stile
di
Achille Campanile, dando vita al romanzo di un finto Campanile, M’hanno
detto che Beppe va soldato, dove si parla di uno scrittore, Achille
Cattedralle, autore del romanzo intitolato Capitolo sesto, a
sua
volta parodia del celebre «capitolo dei morti» del vero
Campanile.
Insomma siamo qui di fronte a un libro immaginario, il Capitolo
sesto,
che sta all’interno di un altro libro fittizio, M’hanno detto che
Beppe
va soldato: in altre parole, il primo titolo si configura come un
meta-libro
inventato, un libro-fantasma alla seconda potenza.
Ne «Il labirinto dei libri falsi, inesistenti e immaginari.
Alcune storie e qualche esempio» (in Maria Cristina Misiti, a
cura
di, Collezionismo, restauro e antiquariato libraio, Milano,
Sylvestre
Bonnard, 2002, pp. 331-358), a proposito di «libri inesistenti e
immaginari», Roberto Palazzi distingue fra: a) libri stampati, ma
non pubblicati; b) libri citati in bibliografia, ma in realtà
mai
esistiti; c) libri cassati dai cataloghi storici delle case editrici;
d)
libri annunciati, ma non pubblicati; e) libri che risultano stampati,
ma
di cui a tutt’oggi non sono stati trovati esemplari; f) libri
inventati,
e infine g) libri che l’autore non si rende conto di avere scritto (a
quest’ultimo
genere appartengono quelle opere pubblicate, generalmente postume, cui
l’autore aveva però rinunciato).
Crediamo che ciò sia sufficiente a restituire la vasta
e articolata realtà che circonda la definizione di «libro
inesistente».
La storia delle
«biblioteche immaginarie» è costellata
di scherzi e mistificazioni eclatanti, cosa che la rende ancora
più
vitale e interessante ai nostri occhi (sul tema delle beffe in generale
si veda la sempre gustosa Encyclopédie des farces et attrapes,
curata da François Caradec e Noël Arnaud, patafisici
impenitenti,
pubblicata a Parigi da Jean-Jacques Pauvert nel 1964). Burle come
quella
ideata nell’estate del 1840 dal conte di Fortsas (di cui parla
diffusamente
anche il Fumagalli nel saggio che qui si ristampa).
Fra le più curiose e riuscite si ricorda quella architettata,
all’inizio del secolo scorso, ai danni di un rispettabile circolo, l’Authors
Club di New York, i cui membri sono in maggioranza rispettabili
professori
universitari e distinti bibliofili. William George Jordan e Richardson
Wright, due membri dell’associazione newyorchese, s’inventano e fanno
passare
per vero lo scrittore Fedor Vladimir Larrovitch, che avrebbe
influenzato
tutta la letteratura russa. Il 26 aprile 1917 più di trecento
membri
del circolo statunitense assistono a un solenne banchetto per ascoltare
la lettura delle poesie del grande scrittore russo e cantarne le lodi.
A coronamento del loro scherzo Jordan e Wright pubblicano nel 1918,
presso
lo stesso Authors Club, il libro Feodor Vladimir
Larrovitch:
an appreciation of His Life and Works.
Altrettanto curiosa, e poco conosciuta, la vicenda delle
recensioni
di Giovan Pellegrino Dandi (1664-?), figlio di uno stampatore
forlivese,
giornalista, laureato in diritto civile e canonico. Avviato alla
carriera
ecclesiastica nel 1687, Dandi ricopre nella Chiesa incarichi di un
certo
rilievo, non senza contrasti coi superiori. Per quattro anni, dal 7
febbraio
1701 al 21 gennaio 1705, esce a Forlì in fascicoli settimanali
di
4 pagine su due colonne (la data è normalmente quella del
mercoledì)
il Gran Giornale de’ Letterati, dove compaiono recensioni a
opere
pubblicate in aree di periferia (per esempio in Sicilia) e all’estero
(soprattutto
in Germania) che si rivelano dei falsi. I libri recensiti sono quasi
sempre
inesistenti. L’operazione «letteraria» del Dandi consiste
nell’attribuire
ad autori di fantasia scritti vecchi di qualche decennio, prelevando
interi
estratti da altri periodici senza nominare la fonte e falsificando i
dati
bibliografici. Un procedimento normale del Dandi è l’omissione
della
data di stampa o la presentazione di libri annunciati come imminenti in
località lontane (Lione, Palermo, Norimberga, Erfurt, ecc.), in
modo da sottrarre il falso a ogni possibilità di verifica. Anche
su altro materiale giornalistico, come lettere, relazioni scientifiche,
dissertazioni accademiche, descrizione di casi clinici, grava
più
di una volta il sospetto di falsificazione.
Un’altra preziosa rarità che illumina la lunga storia
delle finzioni librarie coinvolge lo scrittore Max Aub che, nel 1958,
presso
l’editore messicano Tezontle, pubblica Jusep Torres Campalans,
un
libro contenente, insieme a una biografia dell’artista Campalans,
inventore
con Braque e Picasso del cubismo, la riproduzione di alcune sue opere,
il resoconto di un incontro-intervista avvenuto a San Cristóbal
Las Casas, nello stato messicano del Chiapas, e un «Quaderno
verde»,
con le riflessioni annotate dallo stesso Campalans negli anni
1906-1914,
quaderno che porta in testa alla prima pagina l’ammonimento: «Non
copiare». Tutto regolarmente non vero, illusorio, frutto di una
beffa
che Aub svela soltanto nel 1961, in occasione della ristampa del libro
presso Gallimard. Nell’estate 2003 si è tenuta al «Museo
Nacional
Centro de Arte Reina Sofía» di Madrid una mostra
intitolata Jusep
Torres Campalans ingenio de la vanguardia, dove, accanto a quadri
di
Matisse, Picasso, Mondrian, Chagall, Delaunay, Gris, Modigliani,
figurano
numerose opere (a olio, disegni, collage) di Campalans.
Di biblioteche immaginarie
si è occupato Giuseppe Fumagalli
(Firenze 1863-ivi 1940) in un opuscolo (qui riprodotto), dedicato alla
moglie Lina «nata Sajni» in ricordo del giorno delle loro
nozze,
pubblicato nel 1892, in soli 60 esemplari, presso la tipografia
Lombardi
di Milano e già comparso in parte sul Giornale della Libreria
di quello stesso anno (n. 27, 28, 31 rispettivamente del 3, 10, 31
luglio,
p. 263, 274 e 302). L’opuscolo viene ristampato nel 1963, in 150 copie
numerate, a cura della figlia Paola Moroni Fumagalli, in occasione del
centenario della nascita del padre.
Bibliotecario capo in diverse città (Torino, Milano,
Modena),
Fumagalli è autore di numerose opere di bibliografia, memorie
erudite
e iniziative bibliografiche. Fondatore della Società
bibliografica
italiana, operante dal 1897 al 1908, crea a Bologna la prima
«Raccolta
bibliografica della guerra» e organizza mostre
storico-bibliografiche
in Italia e all’estero. Nel 1896 fonda, e compila fino al 1937,
l’«Almanacco
italiano» della casa Bemporad (più tardi Giunti-Marzocco).
Fra le sue opere ricordiamo Biblioteca bibliografica italiana
(1889-95),
in collaborazione con Giuseppe Ottino; Bibliografia del giuoco del
calcio
fiorentino (1931); Chi l’ha detto? (1934), raccolta di
motti,
citazioni e frasi celebri che ha avuto larghissima diffusione e molte
ristampe;
e postumi Vocabolario bibliografico (1940) e una monografia su Guglielmo
Libri (1963).
Lo studio Delle biblioteche immaginarie e dei libri che non
esistono è un piccolo gioiello della letteratura in
questione,
unico a nostra conoscenza in lingua italiana, una plaquette
introvabile,
«rarissima» come già sottolineava la figlia Paola
nella
nota introduttiva alla ristampa. Un testo, che pure nella sua
brevità
e nella levità dell’occasione che lo ha suscitato, testimonia
della
sapiente e appassionata erudizione del Fumagalli in materia di libri.
Di
un’erudizione «non noiosa» (quasi un ossimoro), si premura
a specificare lo stesso Fumagalli, dato che nell’opuscolo, fra le
diverse
tipologie di libri che non esistono, egli si concentra su quelli
«ideati
per facezia», lasciando sullo sfondo i libri rimasti inediti o
perduti
e i libri creduti veri, pur non essendo mai stati scritti.
Che Fumagalli non disdegni di frequentare i subdoli territori del gioco
lo dimostra il fatto di vederlo citato nell’introduzione di Pier Paolo
Rinaldi a Il piccolo libro del nonsense (Vallardi, Milano,
1997,
p. 34), insieme ad Americo Scarlatti e Giuseppe Ceccarelli
(«tutti,
guarda caso, famosi bibliotecari»), fra «i curiosi delle
patologie
del linguaggio e della letteratura», estimatori di valenti
artefici
di poesie nonsensiche come don Ferdinando Ingarrica, il medico Pietro
Lollobrigida,
il giornalista Tito Livio Cianchettini.
Il Saggio di una storia
delle più notevoli distruzioni
di libri di Leo Samuel Olschki (Johannesburg 1861-Ginevra 1940)
apparve
su Il Bibliofilo, numero 12, 1885, pp. 179-183 (citato in
Alessandro
Olschki, Centodieci anni. Catalogo storico della mostra,
Firenze,
Olschki, 1999, p. 5).
Con questo breve scritto l’editore di origine polacca, fondatore a
Verona nel 1886 della casa editrice omonima, poi trasferita a Venezia
(1890)
e Firenze (1897), c’introduce allo scottante tema della distruzione dei
libri che evoca immagini di tremendi roghi, di censure, di lotte
religiose,
di flagelli cartacei dettati da un folle desiderio di egemonia
culturale.
(Sul topos del rogo dei libri si veda l’infuocato testo di Michele
Santoro,
«Ecpirosi apocrife. Per una più rigorosa definizione di
biblioteconomia
letteraria», Biblioteche oggi, dicembre 2000, pp. 36-44,
dove
il termine «ecpirosi», dal greco ekpýrosis,
cioè
consumazione [ek-] col fuoco [pýr], indica nella
filosofia
stoica la conflagrazione universale che dovrebbe avvenire alla fine di
ogni anno cosmico).
La bibliolitia o biblioclastia, «distruzione
volontaria
di opere, fatta da persone interessate a sopprimerle, o dalla
Giustizia,
o dalla Chiesa o dagli stessi editori e persino dagli stessi
autori»
(definizione ripresa dal saggio «La bibliolitia» di Americo
Scarlatti in Et ab hic et ab hoc, Roma, Società Editrice
Laziale, 1900, pp. 137-149), è materia che ha prodotto un’ampia
letteratura, su cui spicca l’Essai bibliographique sur la
destruction
volontaire des livres ou bibliolytie (1889) di Fernand Drujon. Una
voce «Bibliolitia» si trova anche nel Vocabolario
bibliografico
del Fumagalli (Firenze, Olschki, 1940, p. 50) che riporta, qualche
pagina
prima, la voce «Bibliofagia» (p. 48) ovvero «l’atto o
la consuetudine di mangiare i libri».
A proposito dei bibliofagi, essi possono essere distinti in due
categorie:
bibliofagi per scelta deliberata, oppure per costrizione, intesa come
punizione
inflitta da un’autorità. In un articolo sulla rivista Le
Livre
del 1880 Brunet riporta alcuni casi esemplari di bibliofagia come
quello
di uno scrittore scandinavo che, per aver pubblicato nel 1643 un
libello
politico intitolato Dania ad exteros de perfidia Suecorum,
è
condannato a divorare il suo scritto bollito nella zuppa; o quello di
Isacco
Volmar (sec. XVII), costretto a ingerire alcune satire contro Bernardo,
duca di Sassonia, e del giurista tedesco Philipp Andreas Oldenburger
che
dopo aver pubblicato l’opuscolo Constantini Germanici ad Justum
Sincerum
Epistola de peregrinationibus Germanorum (1668) è obbligato
non solo a mangiarlo, ma a essere frustato durante il pasto.
Un elenco di libri mangiati per costrizione dai loro autori, «i
più disgraziati», si trova nel De bibliothecarum ac
librorum
fatis inprimis libris comestis (1756) di Johann Carl Conrad
Oelrichs,
mentre una curiosa dissertazione intitolata De la bibliophagie
(1866-1867)
sui libri mangiati dai loro autori, a cominciare dal profeta Ezechiele,
si deve a Octave Delepierre che, per l’occasione, si firma con lo
pseudonimo
di Onésyme Durocher.
Nel mondo dei libri: bizzarrie (Milano, Quinteri, 1912),
contenente un capitolo su «Bibliomani, biblioclasti,
bibliofagi!»
(pp. 181-195), Matteo Cuomo scrive: «Un editore tedesco [...] ci
ha promesso che fra un paio d’anni metterà in vendita un
giornale
mangiabile. Invece della carta, egli userebbe una pasta nutriva e
gradevole
che si presta assai all’impressione, e l’inchiostro sarebbe surrogato
da
uno sciroppo deliziosamente profumato» (pp. 375-376). E
chissà
che un giorno, qualche editore in cerca di pubblicità non
finisca
per distribuirli davvero dei giornali commestibili (al sapore di...)
nelle
edicole e nei supermercati.
Ma torniamo a Olschki. A conclusione del saggio (finito di
scrivere
nel novembre 1885) in cui ha esaminato i casi «più
notevoli»
di distruzione dei libri, Olschki si lamenta che le distruzioni
continuano
anche oggi («Sarebbe quindi dovere di ogni persona civile di
togliere
di mano i libri a coloro, che non sapendone apprezzar il valore, se ne
servono come cartaccia») e si accomiata dal lettore invitandolo a
riflettere su un pensiero di grande attualità: «Quanto
più
istruzione tanto maggiore il benessere dello Stato», una goccia
di
saggezza economica fondata sul buon senso e forse, proprio per questo,
costantemente disattesa da coloro cui è delegata (in
verità
sempre meno entusiasticamente) la gestione del pubblico conquibus.
In appendice si propongono
in versione originale i saggi di due
scrittori che si sono occupati di biblioteche immaginarie: Books
Within
Books (1914) dello scrittore e disegnatore inglese Max Beerbohm
(1872-1956),
contenuto nel suo libro And Even Now (Essays), London, William
Heinemann,
1920, pp. 101-118, e The Unwritten Classics dello scrittore
statunitense
di fantascienza Lyon Sprague De Camp (1907-2000), apparso sulla The
Saturday Review of Literature, New York, 29 marzo 1947, vol. 30, n.
13, pp. 7-8 e pp. 25-26.
Si è ritenuto altresì utile fornire alcuni
riferimenti
bibliografici riguardanti ricerche di carattere generale sul tema delle
biblioteche immaginarie.
Prefazione al libro Giuseppe Fumagalli, Leo S. Olschki, Biblioteche
immaginarie e roghi di libri, Palladino
Editore, Campobasso, 2007, pp. 7-31.
Di alcune recensioni
al libro
Sul supplemento domenicale del Sole-24
ore del 6 maggio 2007
in un articolo di Stefano Salis intitolato "Bibliomania dell'assurdo"
si
parla di libri che trattano di biblioteche immaginarie e di roghi di carta e di
un'antologia
dei titoli (veri) più folli: come Racconti di fantascienza
di
femministe lesbiche, Il trombone nel Medioevo e nel Rinascimento
o La valutazione dei suini.
A un certo punto Salis scrive: "Di roghi di libri si era occupato da
par suo Leo S. Olschki. Il suo smilzo ma interessante saggio è
riedito
ora in un librino delizioso curato da Paolo Albani che contiene, in
apertura,
uno spassoso saggio di Giuseppe Fumagalli: Biblioteche immaginarie
e
roghi di libri (Palladino editore, pagg. 160, € 12,00)".
Per leggere per intero l'articolo di Salis cliccate qui.
Ne "La bustina di Minerva" intitolata Libri distrutti e reinventati,
apparsa su "L'Espresso" del 17 maggio 2007 (p. 250), Umberto Eco, dopo
aver
parlato di diverse tipologie di libri scomparsi, scrive: "Infine
c'è
un modo di sopperire alla scomparsa dei libri: inventarne di
inesistenti.
Tutti (almeno tra le persone che frequento e che non usano il
telefonino)
conoscono la lista dei libri dell'abbazia di San Vittore stesa da
Rabelais,
con titoli affascinanti come 'Ars honeste petandi' o 'De modo cacandi'.
Questi libri non sono mai esistiti ma sarebbero stati meglio di tanti
altri
esistenti o esistiti. A questo genere letterario è dedicato un
libro
('Biblioteche immaginarie e roghi di libri') pubblicato da Palladino
Editore,
con testi storici sul raffinato argomento".
* * *
Se vuoi leggere altre mie prefazioni, postfazioni e affini cliccate qui.
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