Paolo Albani
LA RICORRENZA

   


                                                                        Per Alessandra

 
    Oggi, 27 marzo, è un giorno triste, tristissimo per me. Scusate se ne parlo, ma ricorre l’anniversario della scomparsa (non mi piace dire morte, suona più lugubre di quanto non lo sia già la scomparsa) di mia moglie. Sono due anni esatti da quando Rita, mia moglie, se n’è andata e mi ha lasciato da solo. Nostra figlia vive all’estero, ha sposato un giornalista francese e ora abita a Parigi dove ha trovato anche un lavoro da psicologa.
    Come ogni anno, il 27 marzo è un giorno particolare per me, vado al cimitero per mettere dei fiori sulla tomba di mia moglie, una tomba sobria, un piccolo rettangolo di terra, su cui ho seminato dell’erba e delle margherite bianche e gialle, e messo una lapide, ritta, in verticale, la classica lapide con foto (ne ho sistemata una in cui Rita è sorridente), data di nascita e di scomparsa, e un verso di Sibilla Aleramo a lei particolarmente caro: «NULLA M’IMPORTA COME DI TE», dove quel “te” del verso è ambiguo, perché può avere una doppia lettura: riferirsi a Rita, se scritto dal marito, che sono io («sei te, mia dolce Rita, che m’importi, più di ogni altra cosa»), oppure come una dedica di Rita a me («solo di te, mio caro marito, m’importa, di nient’altro»).


    Ci sono andato anche oggi, che è il 27 marzo, al cimitero.
Non che non lo faccia anche in altri giorni dell’anno di andare al cimitero, ma la visita che compio il 27 marzo, anniversario della scomparsa di mia moglie, lo capite da soli, ha un sapore diverso da quello che ha negli altri giorni, è una visita più intensa, vibrante, commovente. Anche temporalmente, il 27 marzo mi soffermo di più, tre-quattro ore, sulla tomba di mia moglie.
    Poiché oggi è il 27 marzo, come sempre, depongo un mazzo di fiori sulla tomba di mia moglie. M’inginocchio sul bordo del praticello tombale, non prima, però, di aver piazzato un cuscino che mi porto da casa, per le mie povere ginocchia, che mi danno sempre filo da torcere, un dolore fastidioso; ogni volta che mi piego scricchiolano come le assi di un parchè calpestate da un uomo corpulento. In quella posizione, scambio due chiacchiere con Rita. Gli racconto delle mie giornate, che non hanno niente di speciale, ma almeno passiamo un po’ di tempo insieme, sono contento di tenerla aggiornata sul mio vissuto, che Rita conosce bene. Quelle chiacchierate mi rilassano, sono una boccata di ossigeno, per me, e forse, in un’altra modalità di ricezione, tecnicamente imponderabile, mi auguro anche per lei.
    Mentre mi alzo per tornarmene a casa (sono passate da poco le undici), sulla destra, cinque tombe più in là da quella di Rita, vedo un giovane capellone, barba lunga castana, l’aria trasandata da hippy, un figlio dei fiori. Indossa blue jeans bucati all’altezza della coscia sinistra, scarponi neri con para rialzata, militareschi, e, nonostante la temperatura non sia proprio clemente, una maglietta di cotone con le maniche lunghe, bianca a strisce blu, che gli arriva fin quasi alle ginocchia. Una specie di tunica. Un laccio di cuoio gli cinge la testa, dietro la schiena porta uno zainetto.
    Se avesse l’aureola potrebbe essere la raffigurazione beata di un Gesù Cristo tornato fra noi.
    Il giovane è di fronte a una tomba chiusa da un lastrone di pietra. Sul lastrone sono incise delle scritte che non riesco a leggere. Lui sembra intento a pregare, la testa china, gli occhi chiusi in atteggiamento meditativo.
    Chi ci sarà nella tomba che il giovane ha di fronte? Un genitore? Un parente? Un amico? Una sua compagna?
    Sto per incamminarmi lungo il vialetto che porta all’uscita del cimitero e s’immette nel parcheggio circostante dove ho lasciato la mia auto, quando il giovane, lentamente, si sfila lo zainetto e lo posa in terra, allarga le braccia, e con lo sguardo fisso verso la tomba sento che, a voce alta e sicura, pronuncia la frase:
    – Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!
    Rimango sorpreso, mi blocco. Forse ho capito male. Sono incuriosito, chi non lo sarebbe, e spaventato
allo stesso tempo. Magari il giovane è un po’ fuori di testa, un esaltato, se ha detto veramente quello che mi sembra di aver sentito. Spero non sia pericoloso. Oggi si leggono tante brutte notizie, di gente aggredita per strada, a tradimento, senza alcun motivo, a una fermata del bus, in metropolitana.
    Guardo il giovane aspettando che succeda qualcosa. Infilo una mano dentro la tasca della giacca per afferrare il mio cellulare nel caso avessi bisogno di chiamare aiuto, il 113, la polizia.
    Lui non si è accorto di me, o almeno finge di non vedermi.
   Il suo sguardo è sempre fisso sul lastrone della tomba. Non si preoccupa di quello che ha intorno, se ci sono altri frequentatori nel cimitero. È immobile, non ha mai girato la testa. Sembra non abbia paura di quello che sta per compiere, sempre che sia sul punto di compiere qualcosa. Magari un gesto inconsulto, o magari no, vuole solo pregare, inscenare un rito esclusivo praticato in qualche comunità hippy.
    Sono lì che lo osservo e lui, sempre con le braccia spalancate, come un Cristo in croce, parla di nuovo:
    – Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!
    Questa volta, cazzo, ho sentito bene. Il suono è chiaro. Non ho dubbi, anche perché, come la prima volta, la frase «Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!» l’ha scandita parola per parola, a voce alta.
    Non ho preso un abbaglio, sono sicuro, ha proprio detto:
    – Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!
    Sono tentato di avvicinarlo e chiedergli una spiegazione. Che senso ha quella frase? Perché continua a ripeterla, come se si trattasse di un’imposizione? Rivolta a chi? Chi è il Giovanni a cui ordina di uscire dalla tomba? E verso dove dovrebbe incamminarsi?
    Vorrei porgergli queste domande, mentre lui se ne sta fermo a pochi passi dalla tomba di mia moglie. Ma capite bene che non mi fido. Ho paura, potrebbe aggredirmi, reagire in malo modo, da persona fuori controllo, che si sente minacciata nel raggiungimento di non so quale insano progetto.
    Non ho la minima idea di cosa si nasconda dietro quella frase dal sapore biblico.
    «Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!» potrebbe essere solo una metafora, la metafora di un desiderio che quel giovane ha di riabbracciare una persona cara, e quindi, alla fine, «Giovanni, esci di lì, alzati e cammina!» potrebbe essere niente di più che un’espressione innocua, dettata dal dolore di un lutto, come quando, parlando di una persona che non c’è più, sospiriamo: «Ah, se tu fossi ancora qui!».
    Comunque sia, alla fine, decido di soprassedere e non affrontare il giovane hippy. In fondo non m’importa un fico secco se alla fine Giovanni si alzerà, se uscirà dalla tomba e prenderà a camminare. Sono fatti suoi.
    E poi non so nemmeno chi sia questo Giovanni.
    Preferisco non intromettermi, non rischiare, lasciando quel povero Cristo alle sue farneticazioni (magari è tutta una burla, uno stupido scherzo per impressionarmi).
    Così m’incammino verso il parcheggio.
   Prima di raggiungere l’uscita del cimitero, confuso al rumore provocato dai miei passi sul ghiaino, sento uno strano scricchiolio dietro di me, una specie di sibilo come di un gesso che struscia su una lavagna. Mi volto e vedo che il lastrone della tomba davanti al giovane hippy si sta muovendo, ruota lentamente.


aprile 2023

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Una versione modificata e ampliata
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Exorma di Roma, copertina
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