Paolo Albani
Lo uccisi perché era di Vinaroz.
Max Aub, Delitti esemplari.
1.
Se qualcuno, in buona fede, non lo discuto, giuntagli notizia da un’amica comune (forse Anna
o Giulia) di una mia indisposizione – da circa tre giorni ho un forte raffreddore,
accompagnato da febbre alta e dolori da tutte le parti del corpo, e ho pure lo
stomaco in subbuglio e ho vomitato anche l'anima nel cesso di notte –, mi dicesse al telefono, per
sollevarmi il morale, impostando una vocina pietosa e commiserevole: «Coraggio»,
non ci penserei su due volte, butterei giù la cornetta, m’infilerei il cappotto,
se fosse inverno, e andrei subito in un negozio di animali, a
piedi o in macchina fa lo stesso, per comprare il serpente più velenoso che
esiste al mondo, costi quel che costi, e se non lo trovassi lì, il serpente
velenoso, nel supermercato di Zooland, mi farei in quattro per procurarmene uno
su internet (nel “dark web”), anche per vie clandestine, illegalmente, sul
mercato nero degli animali esotici; lo metterei in un cestino di vimini, come
quelli che usano gli incantatori indiani di serpenti, e con uno stratagemma,
che ora non ha importanza che stia qui a spiegare, senza farmene accorgere, con
l’aiuto di un complice zelante, lo ficcherei nella tasca dei pantaloni a quel
tale che mi ha detto «Coraggio» quando non mi sentivo bene, e sospirerei fra me e
me: «Coraggio un paio di zeri!». Sarebbe il minimo che potrei escogitare. 2.
Se qualcuno in bicicletta, vedendomi sbucare d’improvviso a piedi sulle strisce,
mettendo a fuoco i miei capelli bianchi e l’andatura un po’ sbilenca, realizzato
con un colpo d’occhio che sono una persona di una certa età, mi dicesse dandomi
del tu come se ci conoscessimo da vecchia data e avessimo mangiato insieme: «Ehi,
nonnetto, fai attenzione!», io lì per lì non mi agiterei, farei finta di nulla,
lo lascerei passare senza discutere; poi però mi metterei a correre quanto più
posso, girerei subito a sinistra tagliando da una stradina laterale per
riprendere il ciclista che ho visto dove si dirigeva; una volta raggiuntolo
alle spalle, mentre è fermo a un semaforo rosso (la fortuna vuole che il
semaforo sia diventato rosso proprio quando sopraggiungeva il ciclista,
obbligandolo a fermarsi e a mettere un piede a terra), lo colpirei sulla nuca con
un sanpietrino trovato lì sulla strada dove stanno eseguendo dei lavori di manutenzione;
lui, in seguito alla botta inaspettata, perderebbe l’equilibrio, verrebbe sbalzato
dalla bicicletta e cadrebbe a terra, stordito; a questo punto ne approfitterei
e gli affibbierei un calcio in bocca, fortissimo, provocandogli la caduta di
tutti i denti davanti, rovinandogli quella sua boccaccia larga, ora sanguinante,
da cui è uscito l’incauto avvertimento: «Ehi, nonnetto, fai attenzione!». Poi,
terminata la missione punitiva, mi allontanerei salutando cordialmente il ciclista
semi-svenuto sull’asfalto: «Il nonnetto è sempre vigile, non credere».
3.
Se qualcuno che ostenta indifferenza, un’aria pretesca, le guance pallide e ben
rasate, disgustosamente profumato, e che forse è davvero un prete perché
indossa un clergyman, durante un pranzo di beneficienza per la raccolta di fondi
a favore dei bambini denutriti dell’Africa Centrale, seduto casualmente accanto
a me, che sono con mia moglie, mentre in un tavolo rotondo (ce ne sono diciotto
di tavoli rotondi nella sala) stiamo mangiando, insieme a altri quattro commensali-benefattori,
del brasato e patate arrosto, secondo piatto di un menù fisso stabilito da un
gruppo di chef volontari, mi chiedesse senza nemmeno guardarmi, la bocca ancora
piena di cibo: «Lei crede in Dio?», io rifletterei un po’ prima di rispondere,
farei un bel respiro, quindi con calma poggerei le posate sul tavolo e anche il
tovagliolo e direi gentilmente a mia moglie di voltarsi un attimo dall’altra
parte; dopo di che, scusandomi con i miei vicini di tavolo, mi alzerei e metterei
una mano dietro la testa del prete e la spingerei violentemente sul piatto in
modo da spaccargli il setto nasale, e poi, già che ci sono, spalmerei lentamente
la testa del prete sul sugo del brasato che si riempirebbe del sangue uscitogli
dal naso creando un impasto rossiccio che si allungherebbe sui cocci del piatto
andato in frantumi e sul colletto del clergyman; a questo punto esclamerei
flemmatico, con diplomazia: «Ci tiene proprio a saperlo?». 4.
Se qualcuno in attesa dell’autobus, insieme a un piccolo gruppo di persone, riparato
dalla pioggia sotto la tettoia di una pensilina nei pressi dell’ospedale cittadino,
vestito in modo elegante, impermeabile bianco lungo fin quasi a lambire le
scarpe, stretto in vita da una cintura, e un cappello nero a tesa larga, che
ogni tanto, come se avesse un tic, si liscia i baffetti ben curati, e osserva,
nervosamente, il tabellone luminoso (lodevole servizio dell’amministrazione
comunale) in cui sono indicati i minuti che mancano all’arrivo degli autobus, mi
si avvicinasse alle spalle e mi domandasse a bruciapelo, quando meno me l’aspetto:
«Scusi, mi sa dire l’ora?», io francamente, su due piedi, non so quale sarebbe
la mia reazione, di sicuro l’istinto mi porterebbe a fargli volare via il
cappello con un manrovescio, gesto che metterebbe a nudo la ridicola calvizie
dell’uomo, e dopo, con un tempismo calcolato, mi sentirei di dargli una spinta
proprio nel momento in cui, a velocità moderata, ma pur sempre pericolosa, sta
arrivando un autobus semivuoto (non è il mio) che lo investe in pieno e lo trascina
sotto le ruote frantumandogli le gambe e qualche costola, deturpandogli il
volto per l’impatto, in particolare le labbra e le sopracciglia, e comunque, a
seguito della pronta frenata dell’autista, concedendogli il tempo di lanciare
un urlo di dolore, cosa che gli impedirebbe di sentire le parole della mia laconica
risposta: «Non porto l’orologio, mi spiace». 5.
Se qualcuno, nella fattispecie un amico di mia sorella, un avvocato cinquantenne
che forse flirta con lei – una volta li ho sorpresi che si baciavano in strada,
dalle parti del mercato centrale, confusi fra la gente – mi dicesse aggrottando
le sopracciglia in segno di rammarico: «Sai chi è morto l’altro giorno?», e lo
dicesse mentre conversiamo a una festa in casa dell’attore Martino Frisetti, un
collega di mia sorella cui piace dare delle feste, ospitare gente su una grande
terrazza romana, coperta da un gazebo di legno, quando esce un film dove ha
recitato una piccola parte, perché Frisetti è un attore mediocre, di seconda
fila, e nel film lo si vede in due, tre scene al massimo (una di spalle), io di
fronte a quella domanda: “Sai chi è morto l’altro giorno?”, guarderei dritto negli
occhi l’avvocato che fa il cascamorto con mia sorella, gli soffierei sul viso in
modo da spostargli all’indietro il ciuffo di capelli che gli copre la fronte,
dopo di che, sorridendo, gli conficcherei una forchetta in un occhio e glielo
caverai con un’operazione chirurgica un po’ maldestra, mostrandolo, come un trofeo,
agli ospiti della terrazza, e mentre questi strillano terrorizzati (qualcuno sverrebbe
di fronte allo spettacolo dell’occhio trafitto in punta di forchetta) prenderei
a calci l’avvocato polifemico, tenendolo per un orecchio, come fanno i maestri
con gli allievi indisciplinati, e lo spingerei, sempre a calci nel culo, verso
il bordo della terrazza sussurrandogli: «No, non lo so, e non voglio saperlo». 6.
Se qualcuno, mettiamo il caso sia un giovane critico cremonese che scrive di
letteratura su alcune riviste di tendenza, on line, nel mezzo di una
conversazione leggera, alla mano, sul Finnegans Wake di James Joyce, improvvisata
al termine della presentazione di un libro di Enrico Terrinoni presso una
libreria romana di Campo dei Fiori, dopo aver concordato sul fatto che l’ultimo
testo di Joyce è scritto in una lingua inventata, il Finneganese, e non in
inglese o francese o ceco o irlandese, perché – come confessò lo stesso Joyce allo
scrittore ceco Adolf Hoffmeister (1902-1973) (1) – Anna Livia «parla con la
parola di un fiume», facendo seguito a un’osservazione del giovane critico sul
fascino delle lingue immaginarie e su quanti, scrittori e filosofi, nel corso
dei secoli si siano divertiti a crearle, a cominciare da Rabelais per arrivare
fino alla poetessa rumena Nina Cassian (1924-2014) che ha scritto un’imprecazione
in “italiano spargano” che inizia con questo verso: «Vo te sbrao, sgurpio e
sciàmico, trugante!», (2) se questi, cioè il giovane critico, lasciandosi prendere
dal tono confidenziale del nostro scambio d’idee, a un tratto mi dicesse
disinvolto, con quell’aria impertinente («So tutto io») che hanno i giovani
critici: «Come tu m’insegni», io, lo giuro, non esiterei un minuto, mi avventerei
contro di lui e lo alzerei in piedi prendendolo sotto le ascelle, senza tanto sforzo
perché lui, il giovane critico, ha un fisico esile, e lo riempirei di cazzotti,
di sputi e di parolacce irripetibili, di bestemmie e di offese contro l’intera
categoria dei critici letterari, specie quella dei giovani, gli morderei gli
orecchi, e la punta delle dita delle mani, e anche i gomiti, e gli strapperei alcune
ciocche dei capelli, odiosamente corvini, poi avrei cura di stenderlo per terra,
semisvenuto, in modo che avesse le spalle sull’asfalto, e gli salterei sulla pancia,
ci ballerei sopra con le mie scarpe da ginnastica, che hanno una suola massiccia,
una para carrarmato, farei dei voli il più possibile in alto, come i ragazzini quando
giocano e rimbalzano su quei terribili trampolini elastici, in modo da precipitare
a piè pari sul buzzo asciutto del giovane critico e mentre lui urla, si
contorce e mi supplica di smettere di planargli violentemente addosso che c’è
il rischio che gli spappolo qualche organo interno, gli risponderei a muso duro:
«Non ho proprio niente da insegnare a nessuno, tanto meno a te, testa di
cazzo!». 7.
Se qualcuno… Note 1.
Adolf Hoffmeister, Il gioco della sera.
Conversazione con James Joyce, traduzione dalla versione inglese di
Michelle Woods, Nottetempo, Roma, 2007, p. 31.
maggio 2021 _________________________________________
Per andare o tornare al menu dei miei raccontini del mese cliccate qui. HOME PAGE TèCHNE RACCONTI POESIA VISIVA |