LA RAPPRESENTAZIONE
Sono
convinto che alla fine tutto nella vita si risolva in un problema di rappresentazione. «IO SONO CIÒ IN CUI MI
RAPPRESENTO» si potrebbe dire con una battuta. Se questo è vero, chiediamoci a
cosa si riduce la figura dello scrittore in termini di rappresentazione materiale,
intendendo con ciò «lo spazio concreto occupato dall’esito del suo lavoro». In parole semplici, rischiando di cadere nel banale, la
fisicità rappresentativa di uno scrittore si riassume in un piccolo oggetto
rettangolare, formato da un insieme di fogli rilegati, a mano o a macchina, fogli
su cui sono stampate in nero parole a caratteri più o meno grandi, una serie di
lettere alfabetiche che, messe una dietro le altre, finiscono per comporre
frasi più o meno di senso che siamo soliti definire «narrazione». Ecco, senza troppi fronzoli teorici,
la proiezione rappresentativa di uno
scrittore è riassumibile in questo minuscolo oggetto, che misura pochi
centimetri in altezza, larghezza e profondità, chiamato LIBRO. Lo scrittore è
la condensazione materiale del libro che ha prodotto. Se di libri ne ha scritti
più di uno, lo scrittore verrà rappresentato da un certo numero di questi
oggetti cartacei che, nell’arco di una vita, possono occupare – a essere
generosi – lo spazio di un paio di scaffali di una libreria, ognuno dei quali lungo
60-70 cm circa. Tutto qui. Lo spazio del lavoro di
uno scrittore si esaurisce (o, se preferite, si racchiude, si comprime) nello
spazio di pochi centimetri. Uno, due scaffali di una libreria, al massimo.
Davvero una piccola cosa, insignificante. Se poi pensiamo alla forma che oggi il
libro ha assunto, cioè se consideriamo il libro digitale o e-book, allora lo
spazio diventa un fatto puramente virtuale; le opere complete, tutte le opere –
mettiamo – di un grande scrittore come William Shakespeare entrano comodamente
dentro una chiavetta elettronica, non più grande di un dito di una mano.
L’abilità scrittoria, la fantasia, l’incalcolabile sapienza letteraria di
Shakespeare si concentrano e finiscono dentro lo spazio di una piccola
chiavetta elettronica facilmente trasportabile nel taschino di una giacca.
Tutto il lavoro artistico del grande Bardo, non una parola di meno, non una
parola di più, è completamente custodito, raccolto dentro una chiavetta. Ci
pensate? È un fatto che ha dell’incredibile. A fronte della miniaturizzazione del lavoro
creativo di uno scrittore, possiamo mettere, sul piano opposto, lo spazio
occupato, ad esempio, dalle opere di un architetto o di un ingegnere:
grattacieli, musei megagalattici, ponti con arcate lunghissime, edifici
religiosi di dimensioni stratosferiche che s’innalzano verso il cielo a
dialogare con Dio, aeroporti, vie di comunicazione che superano asperità
morfologiche del terreno, dislivelli paurosi, montagne, corsi d’acqua. Il
lavoro di un architetto o di un ingegnere si vede, è ben visibile, eccome si
vede, perbacco. È un lavoro che s’impone per la sua voluminosità, talvolta impressionante,
esagerata. Dev’essere una bella soddisfazione per figure professionali come
queste – architetti, ingegneri – ammirare il progetto da loro realizzato con la
cooperazione dello sforzo di migliaia di lavoratori e di mezzi meccanici
tecnologicamente avanzati, vederlo in tutta la sua rappresentazione materiale,
goderne con gli occhi la struttura imponente, in certi casi ciclopica. Niente a che spartire con le
dimensioni modeste di un libro. Di fronte alle opere architettoniche o
ingegneristiche che siamo abituati a vedere oggi collocate in spazi enormi, il
libro è un manufatto lillipuziano. Una pulce invisibile. Mi si obietterà: «Le idee contenute
in un libro non sono misurabili in centimetri». È un’obiezione ragionevole. Mi
stuzzica. Allora provo a imbastire una risposta. Prendiamo ad esempio il Mein Kampf (La mia battaglia) di Adolph
Hitler pubblicato nel 1925 dove, in poche pagine, è riassunto il pensiero
politico dell’imbianchino tedesco di origini austriache. In esso Hitler delinea
il programma del partito nazionalsocialista. Pensiamo alle conseguenze che quel
libro ha avuto sul destino di milioni di persone. Un libro di ristrette
dimensioni fisiche, appena 12x18,9 centimetri nella prima edizione, lo stesso adoperato
per la Bibbia, un mini-oggetto è stato capace di scatenare un disastro mondiale,
in termini di vite umane e di distruzione di interi paesi, mai visto prima di
allora. Non c’è bisogno di sottolinearlo. Il dubbio è: possiamo stabilire un
legame diretto, conseguenziale fra le dimensioni esigue del Mein Kampf e gli effetti orribili,
devastanti sull’umanità perpetrati nella seconda guerra mondiale dall’autore di
quello sciagurato libro? La questione rimane complessa, ma francamente ritengo
azzardata un simile meccanico collegamento. È noto che la seconda guerra
mondiale, che spazialmente – lo dice la parola stessa – ha coinvolto gran parte
del pianeta, fu il risultato di una serie di fattori economici, politici e
sociali, di cui non voglio discutere ora, che va ben oltre l’importanza della diffusione
di un libro. In questo senso credo si possa sostenere che il Mein Kampf non ebbe un’influenza determinante
sugli avvenimenti storici di quel periodo, che si sarebbero comunque verificati,
anche se il libro non fosse stato pubblicato. Non sono le idee (per quanto
seducenti) a contare, a farsi valere, bensì le azioni che da esse scaturiscono. Voglio dire con questo che un libro non esercita alcun potere
persuasivo sulla vita delle persone, e lo testimonia la sua esiguità empirica,
oggettiva. La sua deludente rappresentazione.
Le idee contenute in un libro – qualunque libro, anche Guerra e pace di Tolstoj o I
Buddenbrook di Thomas Mann – non sono importanti di per sé, lo diventano
non appena quelle idee possiedono la forza di tradursi in azione. In questo
caso, tuttavia, quello che conta è il comportamento fattivo, operativo dei
soggetti. Un’idea, per quanto suggestiva e penetrante, nel bene e nel
male, se non trova le gambe che la sostengano, resta un pensiero vuoto, sterile. Il mio ragionamento sulle dimensioni
di un libro, luogo rappresentativo del lavoro tangibile di uno scrittore, porta
a sostenere che lo spazio fisico di un oggetto, nel nostro caso il libro,
condiziona – parafrasando l’idea hegeliana che la quantità diventa qualità – la
sua importanza, l’influenza che può esercitare sulle vicende umane. E non mi convince l’ipotesi che, per
superare il problema della rappresentazione
legata a un libro, basti idearne uno titanico, grande come un palazzo di sette
piani, un libro-grattacielo, fuori del normale. Tale assurdità si scontra con
la domanda: «Chi stamperebbe mai un libro di tali dimensioni?». Quale
tipografia? E quale editore – o catena di editori – vorrebbe accollarsi i costi
economici di un’impresa tanto complicata? Senza contare le difficoltà di lettura che un maxi-libro
del genere, un livre monstre
comporterebbe: per sfogliarlo bisognerebbe ricorrere al braccio meccanico di
una gru alta come il colosso di Rodi. C’è poi l’impossibilità tecnica di
sistemarlo sugli scaffali di una libreria che dovrebbe avere dimensioni inimmaginabili. Per sua natura il libro ha una
dimensione contenuta, non modificabile oltre un certo limite, come la forchetta
o il martello. Non è dunque pensabile trasformarlo in qualcosa di chilometrico per
ingigantirne le idee di cui è il contenitore. aprile 2019
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