Paolo Albani
C’è sempre una prima volta
a questo mondo. È nell’ordine naturale delle cose. Impossibile evitarlo. Di
solito, in quanto parto primigenio, la prima volta ci rimane impressa nella
mente, nel bene e nel male, la ripeschiamo solo quando l’evento (il primo bacio;
il primo concerto; la prima sbornia; ecc.) si ripropone e ha uno strascico. Allora
riaffiorano i lineamenti della prima volta. Ti chiedi (e ti chiedono)
nella rievocazione: «Com’è stata la prima volta?». Altre volte la
dimentichiamo, la prima volta. Sparisce dal radar dei nostri ricordi. Probabilmente
la censuriamo. S’inabissa, specie quand’è motivo di patimento, nel
dimenticatoio che ognuno si crea a scudo protettivo. Esiste poi un altro
caso, quello in cui una prima volta sopraggiunge, ma non si ripete. Si manifesta,
ma dopo non viene reiterata. Muore lì. È un unicum. Forse la si dovrebbe chiamare
più correttamente un’unica volta, unicità che di per sé non pregiudica i
connotati della prima volta. Quella volta, senza repliche, ha la
prerogativa di essere “prima” e “unica” allo stesso tempo. Quante prime
volte si accumulano nella nostra vita? Se avessimo la tempra del
collezionista, dovremmo annotarle in un taccuino, magari inventandoci delle
categorie per ritrovarle facilmente (come nelle rubriche cartacee che, sul lato
destro, hanno le lettere disposte in ordine alfabetico che sporgono in fuori): Affetti,
Fenomeni bizzarri, Lavoro, Letture, Rapporti con le istituzioni, Salute, Vacanze,
ecc. Quasi sempre è
insolita la prima volta. Possiede un sapore speciale, energico e fresco,
lo stesso che rimane attaccato ai dispositivi che producono le novità, le
scoperte, le iniziazioni. E non potrebbe essere altrimenti perché dietro una
prima volta, felice o disastrosa che sia, alle sue spalle, non c’è nulla,
solo “il mai sperimentato”, “il mai visto o sentito prima di allora”. Per rompere il
ghiaccio, vi racconto la prima volta in cui ho visto un pube femminile. Non è che
sia un gran che come storia, ma è pur sempre una prima volta. Verso la
fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, sono sulla spiaggia di Marina di
Massa (mia città natale), vicino al bagnasciuga, davanti a una fila di ombrelloni
del bagno Maurizio dove ogni estate passo le vacanze con la mia famiglia, due
mesi, luglio e agosto; sono adolescente; mi trastullo con la sabbia che in
quella striscia di litorale è piena di sassolini fastidiosi per chi cammina
senza infradito; sulla sabbia bagnata, con l’indice di una mano, disegno dei
cerchi che le onde cancellano non appena, infrangendosi, lambiscono le
estremità delle mie gambe; mi annoio; sono seduto ai piedi di mio padre e mia
zia T., sua sorella, che parlano da circa mezzora, ignorandomi; li osservo dal
basso verso l’alto; mi colpisce la voce blandamente rauca di mia zia che porta
degli occhiali da sole grandi con le stanghette bianche, occhiali da signora
ricca qual è; d’un tratto il mio sguardo si sofferma sul triangolino elastico
del costume intero di mia zia che le copre le parti intime; in quel punto il
costume non aderisce perfettamente al corpo, è sollevato di pochi centimetri e
per la prima volta in vita mia, in modo ravvicinato, scopro dal vivo i riccioli
castani del pube di una donna. (Su carta avevo già visto un pube femminile, ad
esempio quello disegnato, in primo piano, ne L’origine del mondo di Gustave
Courbet, scoperto per caso sulle pagine di un catalogo d’arte. Quanti sfibranti
sommovimenti manuali davanti a quell’immagine di Courbet!). Nel caso specifico
il pube intravisto sulla spiaggia di Marina di Massa è quello di mia zia, che
ha una certa età, sopra i cinquanta (“vecchia” per un adolescente), quindi lo spettacolo
non ha nulla d’esaltante. Più che eccitarmi, mi crea disagio. «Perché mostrarlo
a me, creaturina innocente, che ancora non ne avevo visto uno?» mi verrebbe da
rimproverare a mia zia, come se a lei fosse imputabile la colpa di quella piega
difettosa del costume da bagno. La prima (e unica) volta
che un elefante mi solleva in aria con la proboscide è il 12 gennaio 1974. Sono
nel tempio di Hampi Bazar, in Karnataka nell’India meridionale; un elefante
benedice i fedeli strisciando la proboscide sulla loro testa, poi – sempre con
la proboscide – raccoglie le offerte e le passa al bramino alle sue spalle. È un
momento di calma. Ci sono pochi turisti. Il bramino sonnecchia sotto un albero.
Sono appena uscito dal tempio con la mia ragazza francese, conosciuta a Roma
durante uno stage di economia; fa molto caldo, quando mi sento afferrare alle
spalle, in corrispondenza del girovita, da un tubo carnoso flessibile che mi
alza da terra, per fortuna senza stringere, perché la proboscide di un elefante
potrebbe stritolarmi in un attimo. Le mie grida,
e quelle della mia ragazza, anche lei terrorizzata, svegliano il bramino che
lancia dei comandi vocali all’elefante e lo colpisce con un bastone in una zampa,
quella che ha una catena legata a una colonnina del tempio. L’animale si
arresta, mi deposita a terra delicatamente e tutto finisce lì, con un grandissimo
spavento. Io e la mia ragazza, ancora sotto choc, ci allontaniamo dal tempio per
prendere un risciò quando ci raggiunge il bramino che strilla emettendo suoni
incomprensibili, credo sia il kannada, una lingua dravidica che si parla
da quelle parti. Non capisco cosa voglia. Urla come un forsennato minacciandoci
con il bastone. Si mette di traverso per non farci andare via. La mia ragazza
si protegge dietro di me. Vista la scena, un giovane indiano si avvicina e si offre
di fare da interprete. Ci spiega, in inglese, che il bramino vuole dei soldi perché,
sostiene, abbiamo spaventato il suo elefante, che è un animale sensibile, di
umore fragile. Non ho nulla
da obiettare alle ragioni del bramino e gli consegno alcune rupie, per non
avere noie, ma lui non demorde, continua a lamentarsi, protesta nella sua
lingua arcaica; il giovane interprete mi suggerisce un’offerta più cospicua,
aggiungo altre rupie e il bramino a questo punto, dopo averle contate accuratamente,
sembra soddisfatto, fa marcia indietro e, ancora imprecando, torna dal suo
elefante che adesso, devo ammetterlo, mentre lo guardo da una distanza di
sicurezza, ha l’aria un po’ depressa.
noi attraversiamo di corsa intere epoche storiche, in certi casi, come stiamo vedendo, interi mezzi secoli, anzi interi secoli, senza avere la testa… La prima volta
che ho perso la testa c’è voluto un sacco di tempo prima di ritrovarla, e non è
stato nemmeno merito mio. Un giorno – è il 15 novembre del 1980 – lascio distrattamente
la mia testa sotto il cuscino del letto di una stanza d’albergo, un quattro
stelle, a Verona. Sono maledettamente in ritardo a un appuntamento di lavoro (la
sera prima, a cena, ho bevuto un po’ più del solito) e la mattina, appena giù dal
letto (non ho sentito la sveglia), in preda a un gran mal di testa, nella foga
di radermi, mettermi il gel nei capelli, infilarmi l’abito blu e annodarmi la
cravatta, tutto in quattro nano-secondi, me la sono dimenticata sotto il
cuscino, la testa. Non so come sia
potuto accadere. La fretta m’impedisce di ragionare. È la cameriera a
ritrovarla, facendo le pulizie della stanza nel primo pomeriggio. Avvertita la
direzione dell’albergo, che ha registrato i miei documenti, le ricerche vengono
affidate ai carabinieri che mi rintracciano dopo alcune ore. Mi ritrovano verso
le diciannove, grazie al segnale del mio cellulare che ho in tasca dei
pantaloni (per fortuna non l’ho lasciato in albergo). Sono lì che gironzolo in
una stradina di periferia di Verona, con in mano la mia valigetta di pelle che
contiene i documenti che dovrei far firmare ai rappresentanti di un’azienda veneta. Il comandante
della pattuglia dei carabinieri mi fa una ramanzina. «Capisce che nelle
condizioni in cui si trova potrei denunciarla per procurato allarme secondo l’articolo
658 del Codice penale» mi ammonisce. Alla fine i carabinieri sono clementi, si
rendono conto che sono vittima della mia sbadataggine, non c’è alcuna
intenzione disonesta nel mio comportamento e mi rilasciano senza multarmi. Ma intanto l’appuntamento
con i veneti è saltato.
luglio 2021 _________________________________________
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