Paolo Albani
POST-PENSIERO
Dopo che uno è morto, che ha lasciato questo mondo, accade spesso un
fenomeno strano, quasi una regola, verrebbe da pensare: il morto diventa
improvvisamente (improvvidamente) un’altra persona. Prima di tutto nei
discorsi di chi lo conosce: il morto diventa «Il povero tal dei tali»,
«La pover’anima di…», quasi che la morte conferisse a chi muore la
qualifica di povertà, intesa come condizione disgraziata, infelice. Ma
chi stabilisce che i morti siano persone davvero povere, nel senso di
approdate in uno stato esistenziale infausto? O non siano al contrario,
come qualcuno ritiene, persone che assurgono «a miglior vita»? Altro che
«Il povero tal dei tali» o «La pover’anima di…»: adesso – potremmo
ribattere – quel tal dei tali sta di sicuro meglio di noi, rimasti qui,
sulla Terra, a tribolare come idioti.
Tempo fa è morto un mio carissimo amico, G.N.,
portato via da un arresto cardiaco. Era un tipo notoriamente pauroso,
vigliacco, pavido, indolente. E di questo non possiamo fargliene una
colpa. G.N. era così, e gli volevamo bene anche per queste sue – non
proprio esaltanti – inclinazioni caratteriali. Quando, durante la messa
celebrata al funerale, un nostro amico comune ha parlato di lui, ha
detto – con la voce strozzata dalla commozione – che G.N. in vita è
stato coraggioso, intraprendente, sprezzante del pericolo, una persona
attivissima in tutte le sue manifestazioni. D’incanto G.N. è diventato
un’altra persona. Irriconoscibile agli occhi dei suoi stessi amici più
intimi.
Ho conosciuto un tale che per più di vent’anni ha
nutrito un odio feroce, profondo verso un suo collega d’ufficio. Lo
detestava senza ritegno, senza nascondere questo suo sentimento ostile.
Se avesse potuto, l’avrebbe ucciso con le sue stesse mani o fatto
uccidere da un sicario, accendendo un mutuo in banca per pagare il
servizio di eliminazione fisica. Una volta l’ho sentito dire in
pubblico, davanti a altri colleghi in pausa pranzo, fra cui il
sottoscritto: «Farò venire un killer dall’America, lì è facile trovare
dei professionisti del crimine disposti a uccidere altre persone per una
cifra abbordabile».
Quando il collega d’ufficio è morto in un drammatico
incidente stradale – l’hanno estratto mezzo carbonizzato dalle lamiere
della sua macchina precipitata da un viadotto dopo un volo di più di
settanta metri –, quel tale che lo odiava, intensamente, e quest’odio
l’ha manifestato per più di vent’anni in modo virulento, ha scritto
sulla sua pagina Facebook: «Poveretto, mi dispiace, non si meritava una
morte così atroce». Non appena morto, l’odiato collega d’ufficio si è
trasformato in un altro individuo, ha preso un’altra sembianza, è
diventato un «poveretto». La morte l’ha degradato (o rivalutato, a
seconda dei punti di vista) in una figura da compatire, meritevole di
rispetto, di un atteggiamento compassionevole. Un «poveretto», appunto.
L’altro giorno è scomparso un regista di film
bruttissimi, volgari, pieni di battutacce insulse, di scenette che
avrebbero fatto inorridire Buster Keaton, film definiti cinepanettoni
perché uscivano quasi sempre durante le vacanze di Natale, recitati da
attricette poppute e attori mediocri. Eppure, una volta morto, quel
regista di mortificanti cinepanettoni è stato commemorato da amici,
uomini di cultura (sic) e critici cinematografici (non tutti a dire la
verità), che senza vergogna, sui giornali e in televisione, l’hanno
esaltato come un «grandissimo regista», «l’inventore di un genere
popolare», «uno straordinario conoscitore dei costumi degli italiani»,
«un genio dell’attuale commedia all’italiana».
Un classico esempio del potere trasformista della morte. In questo caso –
più ricorrente di quanto s’immagini – si potrebbe coniare lo sloga
LA MORTE NOBILITA LA VITA
Quante volte, leggendo o sentendo a voce il
necrologio di un morto che abbiamo frequentato in vita, che conoscevamo
bene, o almeno ci sembrava, per motivi di lavoro o perché ci univa una
passione, ad esempio la musica (si andava agli stessi concerti della
domenica mattina nella sala Vanni nel convento di Santa Maria del
Carmine a Firenze, scambiando due chiacchiere prima e dopo l’esibizione
in programma, che anche solo da queste brevi conversazioni un’idea,
all’incirca, è possibile farsela di una persona), o ci accomunavano un
genere letterario, l’amore per uno scrittore, uno sport, la stessa
cerchia di amicizie, quante volte, dicevo, abbiamo pensato, increduli,
dopo la lettura o l’ascolto di quel necrologio: «Ma sta parlando proprio
della stessa persona? Non sarà mica un caso di omonimia?», tanto
stridente balzava agli occhi la differenza fra la biografia della
persona quand’era viva e dopo la sua morte. Una scissione completa. Due
soggetti agli antipodi. Bianco e nero. Il diavolo e l’acqua santa.
Questo fenomeno – l’immagine stereotipata di una
persona che cambia prima e dopo la morte – è diffuso anche nel mondo
artistico-letterario, e non sempre avvalorando lo spirito dello slogan
LA MORTE NOBILITA LA VITA. In alcuni casi accade esattamente il
contrario. In un’intervista rilasciata a un settimanale, allegato a un
quotidiano nazionale italiano, la scrittrice spagnola Matilde Asensi,
autrice del romanzo Sakura (traduzione di Roberta Bovaia, Solferino, Milano,
2019), a proposito di Vincent van Gogh ha detto senza mezzi termini: «Il
van Gogh che ci hanno venduto e continuano a venderci non ha nulla a
che vedere con quello reale. Era un disgraziato, una persona
spregevole». È noto che l’epistolario fra Vincent e Theo, quattro tomi
di lettere – racconta ancora la Asensi –, fu edulcorato da Johanna
Bonger, cognata del pittore olandese, che, al solo fine di poter vendere
i suoi quadri, tolse tutti i passaggi che avrebbero messo in cattiva
luce Vincent. Un bel ribaltone per il povero van Gogh: da folle geniale a
persona spregevole. Chiama e rispondi.
Quale che siano il solco, lo scarto che dividono il
giudizio su una persona prima e dopo la sua morte,
interruzione che
segna lo spartiacque qualificante dell’esistenza terrena, la verità è
che non c’è da stare tranquilli su quello che diranno su di noi, dopo la
nostra scomparsa. Nel bene o nel male. La cosa migliore, quella
auspicabile per me, – e spero di essere esaudito –, è che almeno coloro
che ci sono stati vicini non dicano nulla, che siano tanto accorti, e
sensibili, e buoni, da astenersi da ogni commento e ci lascino riposare
in pace. Dignitosamente. Si guadagneranno così tutta la nostra
riconoscenza di persone non più in vita, che in quanto tali non hanno la
possibilità di replica.
Per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare ha scritto Majakovskij nella sua lettera d’addio. Non fate troppi pettegolezzi gli ha fatto eco un altro suicida, Cesare Pavese.
Che straordinaria sintonia!
febbraio 2020
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