SAPENDO DI MENTIRE relazione di Paolo Albani al convegno sulla
fra i relatori: Mohammed Benis, John Deane,
Nel tentativo di inquadrare, dal mio punto di vista, in una cornice non astratta, ma storicamente determinata, il tema di questo convegno - LA RICOSTRUZIONE POETICA DELL'UNIVERSO - vorrei partire da alcuni elementi, diciamo così, biografici. Una volta Gabriele D'Annunzio raccontò al conte Ruggero
Ruggeri che il 9 luglio del 1918, durante il famoso volo di Vienna, al
comando della squadriglia Serenissima, sporgendosi dal finestrino dell'aereo
per gettare manifestini tricolori, perse il berretto da aviatore che fece
due o tre capriole in cielo, vicino alla punta dell'ala sinistra dell'aereo,
e poi velocemente precipitò a terra finendo (il fatto gli fu riferito
da un amico che, all'epoca, lavorava all'ambasciata italiana nella capitale
austriaca) sul davanzale di una delle finestre della casa di Karl Kraus,
in Hintere Zollamtestraße 3, proprio nel momento in cui lo scrittore
austriaco, sorseggiando una tazza di tè, stava scrivendo un pezzo
per la sua rivista Die Fackel (La fiaccola).
In una lettera a Charles Toubin del 28 dicembre 1847, Baudelaire
confessa all'amico che una settimana prima (dunque in prossimità
del natale 1847), al café de la Rotonde, noto anche come café
Turlot, dal nome del gestore, situato al numero 32 di rue Hautefeuille
a Parigi, mentre se ne stava seduto a un tavolo, tranquillo (saranno state
circa le cinque del pomeriggio), intento a leggere il Corsaire,
giornale di cui Baudelaire era collaboratore, si accorse che una vecchietta,
di fronte a lui, lo stava fissando sfacciatamente, con un'aria severa,
quasi di disprezzo, e che allora lui, d'istinto, come soggiogato da una
forza indomabile, si era alzato e aveva schiaffeggiato la vecchietta gridandole
impudentemente: «La vostra faccia, Madame, è una poesia senza
colore!»
In un appunto autografo di Edgar Allan Poe, datato 22 settembre
1843, ritrovato fra le sue carte nella casa della zia paterna, Maria Clemm,
a Baltimora, si legge che, in quell'anno, allo scrittore de La lettera
rubata capitava spesso di svegliarsi presto al mattino e d'incrociare
la cara vecchia zia che già frullava per la casa, strascicando i
piedi impantofolati, avvolta in una vestaglia scura e con una pezzuola
altrettanto nera che gli copriva i capelli non più brillanti, ma
soprattutto le grandi orecchie, e che lei, la zia, si metteva in testa
quello straccio perché da tempo soffriva di una fastidiosa otite,
e che una volta, chissà perché, quell'immagine gli fece venire
in mente il profilo di un corvo, di un uccellaccio del malaugurio e che
subito, lui, Edgar Allan Poe, dopo la sesta di quelle apparizioni mattutine
della zia imbacuccata e vestita di nero da capo ai piedi come una donna
del profondo sud italiano, si mise a scrivere la poesia The Raven
(Il corvo), così, di getto, tutta di un fiato, senza pensarci troppo
su. Poesia che, fra l'altro, ebbe un buon successo, non appena fu pubblicata
(nel 1845).
«La maggioranza degli scrittori – in special modo i poeti – preferiscono far credere che il loro lavoro si svolga in una sorta di raffinata frenesia – una intuizione estatica – e tremerebbero al pensiero che il pubblico potesse dare un’occhiata dietro le quinte, alle elaborate e brancolanti rozzezze intellettuali – alle vie giuste imboccate solo all’ultimo istante – alle innumerevoli illuminazioni che non arrivano mai alla maturità della piena coscienza – alle fantasie giunte a maturazione e poi scartate per disperazione perché inservibili – alle cernite prudenti e ai rifiuti – alle cancellature dolorose e alle interpolazioni. [...] Il mio disegno» - spiega Poe - «è di mostrare come nessun particolare della [...] composizione [di The Raven] sia attribuibile al caso o all’intuizione – e come il lavoro abbia proceduto, passo dopo passo, sino al compimento, con la precisione e la rigida coerenza di un problema di matematica». Dunque a quale dei due Poe dar credito? A quello dell'appunto
inedito, privato, che parla, più che altro a se stesso, dell'ispirazione
che gli è venuta guardando l'abbigliamento ridicolo della vecchia
zia Clemm in una fredda mattina baltimoriana oppure all'altro Poe, quello
pubblico, ufficiale, allo scrittore di professione, in cerca di riconoscimenti,
che scrive coscientemente per i suoi lettori e per gli addetti ai lavori,
cioè i critici letterari, sperando d'invogliarli a recensire il
suo libro?
Tutto questo, alla fine, per sostenere che cosa?
Il poeta è un fingitore.
La letteratura stessa è menzogna, per dirla con Manganelli, «un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. [...]. La letteratura si organizza come una pseudoteologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mortali e immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito. [...] Con le sue proposizioni "prive di senso", le affermazioni "non verificabili", [la letteratura] inventa universi, finge inesauribili cerimonie [...] possiede e governa il nulla». Ma allora, concludendo, se è cosa risaputa e diffusamente condivisa che i poeti mentono sapendo di mentire, che è nella loro natura di poeti esercitare in pubblico la menzogna, di abbandonarsi alla finzione, al gioco illusionistico, alla logica dell'inganno, del trompe-l'œil linguistico, se tutto questo è vero, incontestabile, assodato, ben conosciuto, e non da oggi, se già nella Repubblica di Platone troviamo un monito contro l'ingannevole scrittura dei poeti, ma allora, mi domando e vi domando: «Siamo proprio sicuri di voler affidare ai poeti la RICOSTRUZIONE DELL'UNIVERSO?»
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