I POETI MENTONO
SAPENDO DI MENTIRE

relazione di Paolo Albani al convegno sulla
RICOSTRUZIONE POETICA DELL'UNIVERSO
Festival internazionale di Poesia di Genova 
Auditorium Montale
venerdì e sabato 18-19 giugno 2004

fra i relatori:

Mohammed Benis, John Deane,
Pedro Juan Gutierréz, Pentti Holappa, Anise Koltz,
Lyubomir Levchev, Mikhail Malt, Jean Portante, Claudio Pozzani,
Lionel Ray, Edoardo Sanguineti, Arturo Schwarz, Reba Som,
Maria Luisa Spaziani, Andrej Andreevic Voznesenskij

 Nel tentativo di inquadrare, dal mio punto di vista, in una cornice non astratta, ma storicamente determinata, il tema di questo convegno - LA RICOSTRUZIONE POETICA DELL'UNIVERSO - vorrei partire da alcuni elementi, diciamo così, biografici.

 Una volta Gabriele D'Annunzio raccontò al conte Ruggero Ruggeri che il 9 luglio del 1918, durante il famoso volo di Vienna, al comando della squadriglia Serenissima, sporgendosi dal finestrino dell'aereo per gettare manifestini tricolori, perse il berretto da aviatore che fece due o tre capriole in cielo, vicino alla punta dell'ala sinistra dell'aereo, e poi velocemente precipitò a terra finendo (il fatto gli fu riferito da un amico che, all'epoca, lavorava all'ambasciata italiana nella capitale austriaca) sul davanzale di una delle finestre della casa di Karl Kraus, in Hintere Zollamtestraße 3, proprio nel momento in cui lo scrittore austriaco, sorseggiando una tazza di tè, stava scrivendo un pezzo per la sua rivista Die Fackel (La fiaccola).
 L'episodio, come ha osservato William Dummet, uno dei biografi più accreditati del conte Ruggeri, si è rivelato completamente falso, inventato di sana pianta dal vate abruzzese. Quel giorno infatti, il 9 luglio del 1918, è certo che Karl Kraus non era in casa, ma si trovava in visita da una cugina di parte materna.

 In una lettera a Charles Toubin del 28 dicembre 1847, Baudelaire confessa all'amico che una settimana prima (dunque in prossimità del natale 1847), al café de la Rotonde, noto anche come café Turlot, dal nome del gestore, situato al numero 32 di rue Hautefeuille a Parigi, mentre se ne stava seduto a un tavolo, tranquillo (saranno state circa le cinque del pomeriggio), intento a leggere il Corsaire, giornale di cui Baudelaire era collaboratore, si accorse che una vecchietta, di fronte a lui, lo stava fissando sfacciatamente, con un'aria severa, quasi di disprezzo, e che allora lui, d'istinto, come soggiogato da una forza indomabile, si era alzato e aveva schiaffeggiato la vecchietta gridandole impudentemente: «La vostra faccia, Madame, è una poesia senza colore!»
 Di questo fatto increscioso, ma sintomatico del caratteraccio del poeta dello spleen, non vi è traccia in nessuno dei numerosi libri scritti sulla sua vita, nemmeno in quello, mostruosamente documentato, di Claude Pichois e Jean Ziegler, cosa che fa sospettare, a buon diritto, che la vicenda non sia mai accaduta e che sia, con ogni probabilità, solo il frutto della fantasia di Baudelaire.

 In un appunto autografo di Edgar Allan Poe, datato 22 settembre 1843, ritrovato fra le sue carte nella casa della zia paterna, Maria Clemm, a Baltimora, si legge che, in quell'anno, allo scrittore de La lettera rubata capitava spesso di svegliarsi presto al mattino e d'incrociare la cara vecchia zia che già frullava per la casa, strascicando i piedi impantofolati, avvolta in una vestaglia scura e con una pezzuola altrettanto nera che gli copriva i capelli non più brillanti, ma soprattutto le grandi orecchie, e che lei, la zia, si metteva in testa quello straccio perché da tempo soffriva di una fastidiosa otite, e che una volta, chissà perché, quell'immagine gli fece venire in mente il profilo di un corvo, di un uccellaccio del malaugurio e che subito, lui, Edgar Allan Poe, dopo la sesta di quelle apparizioni mattutine della zia imbacuccata e vestita di nero da capo ai piedi come una donna del profondo sud italiano, si mise a scrivere la poesia The Raven (Il corvo), così, di getto, tutta di un fiato, senza pensarci troppo su. Poesia che, fra l'altro, ebbe un buon successo, non appena fu pubblicata (nel 1845).
 È un appunto, questo di Poe, scritto su un foglietto ingiallito di 10x12 centimetri, leggermente strappato in basso a destra, che contrasta vivacemente con quanto il poeta affermerà, alcuni anni dopo, ne La filosofia della composizione (1846) dove si legge:

 «La maggioranza degli scrittori – in special modo i poeti – preferiscono far credere che il loro lavoro si svolga in una sorta di raffinata frenesia – una intuizione estatica – e tremerebbero al pensiero che il pubblico potesse dare un’occhiata dietro le quinte, alle elaborate e brancolanti rozzezze intellettuali – alle vie giuste imboccate solo all’ultimo istante – alle innumerevoli illuminazioni che non arrivano mai alla maturità della piena coscienza – alle fantasie giunte a maturazione e poi scartate per disperazione perché inservibili – alle cernite prudenti e ai rifiuti – alle cancellature dolorose e alle interpolazioni. [...] Il mio disegno» - spiega Poe - «è di mostrare come nessun particolare della [...] composizione [di The Raven] sia attribuibile al caso o all’intuizione – e come il lavoro abbia proceduto, passo dopo passo, sino al compimento, con la precisione e la rigida coerenza di un problema di matematica».

 Dunque a quale dei due Poe dar credito? A quello dell'appunto inedito, privato, che parla, più che altro a se stesso, dell'ispirazione che gli è venuta guardando l'abbigliamento ridicolo della vecchia zia Clemm in una fredda mattina baltimoriana oppure all'altro Poe, quello pubblico, ufficiale, allo scrittore di professione, in cerca di riconoscimenti, che scrive coscientemente per i suoi lettori e per gli addetti ai lavori, cioè i critici letterari, sperando d'invogliarli a recensire il suo libro?
 Davvero non lo sapremo mai.

 Tutto questo, alla fine, per sostenere che cosa?
 Semplicemente che dei poeti (e degli scrittori in genere) è meglio non fidarsi, che bisogna prendere con le molle le loro dichiarazioni di poetica, i loro proclami, che bisogna dubitare seriamente dei loro appunti autobiografici, delle loro scartoffie e lettere private, inviate - un giorno sì e un giorno no - a un medico, a un critico compiacente, a una donna amata, a un parente facoltoso per spillargli dei soldi, a Tizio e a Caio. Che poi, queste lettere cosiddette «private», tanto private non lo sono quasi mai, perché, alla prima occasione, i poeti si fanno in quattro per trovare un editore che le pubblichi, in belle edizioni, in cofanetti raffinati. 
 Perché i poeti, si sa, sono dei «fingitori» come sosteneva Pessoa: 

 Il poeta è un fingitore. 
 Finge così completamente 
 che arriva a fingere che è dolore 
 il dolore che davvero sente. 

 La letteratura stessa è menzogna, per dirla con Manganelli, «un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. [...]. La letteratura si organizza come una pseudoteologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mortali e immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito. [...] Con le sue proposizioni "prive di senso", le affermazioni "non verificabili", [la letteratura] inventa universi, finge inesauribili cerimonie [...] possiede e governa il nulla».

 Ma allora, concludendo, se è cosa risaputa e diffusamente condivisa che i poeti mentono sapendo di mentire, che è nella loro natura di poeti esercitare in pubblico la menzogna, di abbandonarsi alla finzione, al gioco illusionistico, alla logica dell'inganno, del trompe-l'œil linguistico, se tutto questo è vero, incontestabile, assodato, ben conosciuto, e non da oggi, se già nella Repubblica di Platone troviamo un monito contro l'ingannevole scrittura dei poeti, ma allora, mi domando e vi domando: 

 «Siamo proprio sicuri di voler affidare ai poeti la RICOSTRUZIONE DELL'UNIVERSO?»



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