a cura della Sezione di Piacenza
della Lega Italiana per la lotta contro i tumori
I compositori Beatrice Barazzoni, Matteo Franceschini,
Corrado Rojac e Luca Vago hanno composto musiche originali eseguite dai solisti dell'ensemble Risognanze
Paolo Casiraghi, clarinetto
Marco Fusi, violino
su testi di
Paolo Albani, Giovanni Fontana,
Arrigo Lora Totino e Eugenio Miccini.
Della serata esiste un DVD
che potete avere gratuitamente scrivendo
al mio indirizzo di posta elettronica cliccando
qui.
5 PEZZI VERDI PER CLARINETTO E VIOLINO
di
Beatrice Barazzoni
I 5 Pezzi verdi di Beatrice Barazzoni vogliono
dilatare e far esplodere la "miccia" ironica indissolubilmente legata alla
lirica "sonora" di Paolo Albani: "verdi" allude al lirismo "cangiante"
e incandescente della poesia d'apertura (Ricordo di un'avventura colorata)
che la musica prolunga fino a un culmine emotivo al di là del tempo
poetico; ma "verdi" si riferisce altresì al pensiero che sta alla
base della composizione nel suo complesso; la citazione ironica ed estemporanea
di materiali verdiani (brevi melodie e ritmi da Traviata, Rigoletto,
Aida,
Luisa
Miller, Ernani) al di fuori del loro naturale contesto linguistico
musicale, quasi fossero figure misteriose che appaiono d'un tratto da lontananze
fiabesche (proprio alla fiaba si richiama Albani nell'ultima sua lirica,
La
fiaba di Una sulla luna). Il 2° brano, energico e pungente, approda
a un intermezzo lento e pensoso, in corrispondenza di "massime" poetiche
filosoficheggianti (...e via dicendo). Ma è un momento assai
breve: poco oltre, nel 3° brano, il violino disegna ascese turbinose,
ripetendo sino al parossismo lo stesso frammento melodico, sullo sfondo
poetico immobile dei "girasoli da ogni parte"; nel 4° pezzo s'affacciano
tortuosi cromatismi, sospesi in una fascia acuto-grave dal sapore irreale,
eco di uno spazio poetico "transitorio" e "provvisorio". Nel finale (5°
pezzo) la danza che si ode sulla scena ha una voce spiritata perché
esce dall'«ago di un mago» sulla luna.
Alcuni testi di Paolo Albani
musicati da Beatrice Barazzoni
RICORDO DI UN'AVVENTURA COLORATA
quella fantastica Seurat
nello Chagall di montagna
tu, Kandinskij come una
nuvola Matta, disegnata a Matisse,
prendesti il mio Picasso (Rembrandt)
Grosz sotto le Braque
decisa a farmi Gauguin fra
le tue Kokoschka
io alle Otto Dix: ‑ Monet!
Morisot di gioia, mia Carrà! ‑
e Dalí a qualche secondo ci ritrovammo
Boccioni
a Mirò il Klee della Nolde
che Léger avvolgeva il
Mondrian
e mi sembrò di sentire il
Corot di un Arp,
pizzicata con dolci Dubuffet
sulle corde
nell'attimo sublime
gridasti nella tua lingua
russa: ‑ Da da! Da da! ‑
TEMPOREGGIAMENTO
da tempo ho l’impressione che il tempo non giochi più
a mio favore e che sia ormai un vano sincronismo
sperare che per me un giorno si fermi
leggermente attempato e stemperante
oppure che mi restituisca il favore
ogni volta che indugio davanti alla scelta
estemporanea di un passatempo con cui ingannarlo
anche se in cuor mio confesso francamente
che mi sarei aspettato un’impercettibile
maggiore disponibilità alla lentezza
uno stiramento più graduale verso il futuro
un piccolo dilatorio permesso accordato alla lungaggine
da un fenomeno tanto minuto e peregrino come il tempo
da un intervallo metempirico e a suo modo buontempone
che ha fatto dell’attesa la flessione di un verbo
all’infinito (attendere) e dell’incontenibile assortimento
di ricordi un’attenuante per non stemprarsi più
del dovuto
...E VIA DICENDO
Se noi sappiamo ciò che vogliamo dire non sappiamo affatto se diciamo solo quello: si dice sempre più di quello.
André Gide
«quello che dico» per me è solo
il presente di ciò
che ho appena detto e non c’è un’altra dizione
di «quello che dico» oppure un altro
accorgimento
per dire quello che molti, prima di me,
hanno già detto con «quello che dico»
se voglio dire «quello che dico»
devo dirlo proprio nel momento in cui lo sto dicendo
perché un attimo prima o dopo
non l’avrei più detto con lo stesso modo di dire
oppure sarebbe un quasi dire
una simulazione del già detto un metadire
diversamente dicibile che però non direbbe affatto
«quello che dico» ora
e finirebbe per sembrare una diceria senza valore
o sotto certi aspetti un contraddirsi involontario
o peggio ancora un tradirsi un interdirsi
che rischierebbe di trasformare «quello che
dico»
in una frase dirimente in una dicitura gratuita
com’è del resto nella natura
di ogni sintagma che si può disdire
LA FIABA DI UNA SULLA LUNA
L'ode che mi rode
non si piega ma spiega
che Una sulla luna
smarrì l’alto con un salto
e poi nell’ora della bora
trovò un arco dentro il parco
e pensò all’orso che morso
uno zio nell’ozio
durante il fuggi fuggi sfuggì
L’acconto del racconto
risvegliato dall’atto del fatto
come l’onda che fonda
l’umore di un rumore
o l’alma di una palma
trasformò l’aglio sotto il maglio
di un caro Icaro
che nell'Ade cade
e anche un orco che porco
stava con l’ano nella mano
aprì le ali sopra i mali
che esistono e resistono
dove l’astro mastro
è un osso rosso
«Esci con i pesci
ma poi ama
l’otto del dotto
altrimenti l’onta che monta
cancellerà il mare dell’amare!»
disse l’orco sorco
all’Una sulla luna
Era sera
ed ella nella
riva priva
di un porto sporto
verso una sola isola
vide la dea di un’idea
con aschi maschi
muovere l’ago di un mago
e lasciare un’orma a forma
di alce o forse di salce
Mentre erra la terra
e ignora da signora
i venti e gli eventi
la dea dell’idea
questo motto smottò:
«Usa la musa
per fare una laude che plaude:
l’arte è sempre di parte!»