Paolo Albani
 
PEREC: COSTRIZIONE E LIBERTÀ


          

            In più occasioni Georges Perec si è occupato del rapporto costrizione-libertà, uno snodo concettuale importante per comprendere l’attività dell’Oulipo e dell’Oplepo. Nel mio intervento cercherò brevemente di rendere conto del pensiero perecchiano sull’argomento attingendo in particolare a due fonti della sua opera non letteraria (1).

            Il campo della produzione artistica, e non solo letteraria, viene genericamente (romanticamente) dipinto molto spesso come il «regno della massima libertà» dove l’artista può sbizzarrirsi come meglio crede coltivando gli spunti e le intuizioni della propria fantasia, dove, svincolato da ogni impaccio e laccio convenzionale o di scuola, ha modo di esercitare e sperimentare, come si dice, la propria creatività.

            Posta così questa considerazione si presenta come una visione quanto meno semplicistica del processo di formazione di un oggetto artistico che non ne restituisce l’effettiva complessità. È un'illusione, per dirla con Perec: «La parola contrainte è una parola che fa paura, poiché si crede generalmente che ci serviamo del linguaggio in piena libertà; si ha questa illusione di libertà, come se scrivere fosse un fatto naturale» (EC, II, p. 303).

            In realtà, come sottolinea Eco, per potere inventare liberamente occorre crearsi delle costrizioni che sono fondamentali per ogni operazione artistica (2). «Sceglie una costrizione il pittore che decide di usare l'olio piuttosto che la tempera, la tela piuttosto che la parete; il musicista che opta per una tonalità di partenza (poi modulerà, modulerà, ma è a quella che dovrà pur tornare); il poeta che si costruisce la gabbia della rima baciata o dell'endecasillabo». Hai bisogno di crearti delle costrizioni, ribadisce Eco, sebbene devi sentirti libero di cambiarle (3). Non stupisce perciò che a Perec l’intensa difficoltà di allineare undici «versi» di undici lettere (l’allusione è al poema eterogrammato Ulcérations e alle poesie di Alphabets. Cent soixante-seize onzains hétérogrammatiques) sembri niente se comparata «al terrore che avrei se dovessi scrivere “della poesia” liberamente» (EC, II, p. 99).

            Nel saggio inedito La chose Perec riflette sul free jazz al solo scopo di chiarire questioni che appartengono soprattutto ai problemi di scrittura. Ciò che Perec ama nel jazz è la libertà nella contrainte, nell’imposizione di una struttura (EC, II, p. 39). La metafora musicale torna spesso nelle riflessioni perecchiane: fare degli esercizi «à contrainte» è un impegno paragonabile a quello del musicista che, prima di suonare Schumann o Debussy, fa delle scale al pianoforte (EC, II, p. 96, p. 281, p. 309): «Questi esercizi mi permettono di sgranchire lo spirito, come un pianista si sgranchisce le dita» (EC, I, p. 228); l’oulipiano lavora un po’ come i musicisti, esegue delle permutazioni (EC, II, p. 253).

            Ne La chose c’è un paragrafo intitolato «Costrizione e libertà» dove Perec afferma che costrizione e libertà definiscono i due assi di ogni sistema estetico (MJ, I, pp. 57-59). È un rilievo importante perché pone l’accento sul fatto che bisogna tenere uniti i due poli presi in esame, solo in apparenza incompatibili. Ponendo in un asse cartesiano costrizione e libertà, osserva Perec, si dimostra sufficientemente che essi sono funzioni indissociabili nel compimento dell'opera: la costrizione non impedisce la libertà, anzi la favorisce, mentre la libertà dal canto suo è ciò che nasce dalla costrizione. Sembra che alcuni sistemi propendano più dalla parte della costrizione, dice Perec, portando a esempio, fra gli altri, il sonetto, il romanzo epistolare, la fuga; altri invece propendano più dalla parte della libertà come il racconto, la poesia, un quadro, ma questa distinzione è artificiale: qualsiasi forma di letteratura passa attraverso una serie di costrizioni lessicali, sintattiche, retoriche e criptoretoriche. Non esiste un sistema più o meno libero o più o meno costretto, puntualizza Perec, perché costrizione e libertà rappresentano precisamente il sistema; si può, tuttavia, misurare il grado di compiutezza (o di perfezione se si preferisce) di un sistema sulla base del rapporto costrizione-libertà, o, in altri termini, a livello della sovversione che tale sistema consente.

            A questo punto, riferendosi al concetto di clinamen o «libero arbitrio» come lo chiama Jacques Roubaud, concetto che indica uno scarto, uno sbandamento dalle regole che aumenta ancor più la potenzialità dell’opera (il termine, ripreso dalla fisica di Epicuro dove indica una deviazione spontanea degli atomi, è transitato in Lucrezio e poi nella ‘Patafisica di Jarry), Perec cita una frase del suo pittore preferito, Paul Klee, che «non ha mai fatto due volte di seguito lo stesso quadro», ricorda Perec, anch’egli preoccupato, al pari del pittore svizzero, che i suoi libri siano sempre differenti l’uno dall’altro. La frase di Klee, ripetuta da Perec nel corso di varie conferenze (EC, I, p. 241, p. 281; II, p. 202, p. 317), è questa: «Il genio è l'errore nel sistema», intendendo con ciò che più dura è la legge e più l'eccezione sarà eclatante, mentre più stabile è il modello e più s'impone la deviazione (MJ, I, p. 58).

            Del resto c’è da aggiungere che le regole non sono mai un fatto puramente tecnico, del tutto arbitrario: la lettera mancante ne La disparition, cioè la e, omofona di «eux», essi, com’è noto rimanda allusivamente alla scomparsa dei genitori di Perec, père e mère; il riferimento costante nell’opera perecchiana al numero 11 - il palazzo della La vie mode d’emploi si trova al numero 11 di rue Simon-Crubellier, una via immaginaria situata nel XVII arrondissement; Alphabets allinea una serie di 11 poemi di 11 versi di 11 lettere; Quel petit vélo à guidon chromè au fond de la cour? è composto da 11 parole; ecc. – è un omaggio alla data di morte della madre di Perec avvenuta l’11 febbraio 1943, una data stabilita per decreto, e dunque convenzionale come le regole oulipiane, poiché della madre di Perec, dopo l’internamento a Drancy il 23 gennaio 1943, non si seppe più nulla.

In una conferenza tenuta all'Università di Copenaghen il 29 ottobre 1981 Perec afferma che la contrainte non è percepita come una prova o una restrizione, ma bensì come uno stimolo alla creatività, al pari di «una pompa, una pompa aspirante con cui, attraverso l’esercizio della contrainte, si può arrivare a produrre qualcosa». Perec nota che in inglese si distingue fra constraint (dall'antico francese «constraindre») dove è la nozione di obbligo a dominare, e restraint (dall'antico francese «restraindre») dove al contrario è quella di limite a prevalere (EC, II, p. 309), facendo intendere con ciò che è il primo termine a essere quello più aderente allo spirito dell’attività regolata dell’Oulipo poiché l’obbligo insito nella parola contrainte non è limitante, bensì al contrario motivo di stimolazione creativa.

Nella stessa conferenza Perec riporta una definizione dello scrittore oulipiano, che giudica «molto elegante», attribuendola a Calvino (4): «ci sono dei corridori a piedi che si chiamano sprinters (velocisti), che sono molto, molto bravi quando corrono in linea dritta sui cento metri; ne esistono altri che sono ancora più bravi quando, sulla pista, mettono degli ostacoli, si chiamano i corridori a ostacoli - 110 metri ostacoli, 400 metri ostacoli, ecc. In effetti, l'oulipiano fa un po' la cosa seguente... per arrivare a scegliere quello che vuole, comincia mettendo un certo numero di ostacoli sul cammino che lo conduce a ciò che cerca, e questi ostacoli si chiamano contraintes, regole». Un'altra definizione citata da Perec descrive un oulipiano come uno scrittore non jourdainiano. Ma chi è uno scrittore jourdainiano? È un signore che, come Monsieur Jourdain de Il borghese gentiluomo di Molière, fa della prosa senza saperlo. Ora, spiega Perec, un oulipiano è qualcuno che vorrebbe fare della prosa sapendo di farla. Un'ultima definizione dello scrittore oulipiano, fra le più illuminanti, cui accenna Perec nella sua conferenza, descrive l'oulipiano come uno che, nei confronti del linguaggio e della letteratura, della scrittura, delle forme del passato, si comporta allo stesso modo di un bambino cui hanno regalato una sveglia; il bambino smonta la sveglia per sapere come funziona; la stessa cosa prova a farla l’oulipiano con il linguaggio: cerca di smontarlo per vedere come funziona e cosa c'è dentro (EC, II, p. 309).

Nel lavoro dello scrittore oulipiano la contrainte, che può essere molle o dura, visibile o invisibile (5), è «una buona impalcatura», dice Perec, che può permettere di costruire molto bene l’opera di Sydney (Perec pronuncia questa frase durante una conferenza tenuta a Melbourne il 6 ottobre 1981) (EC, II, p. 291). La contrainte è un po’ come la dinamite che lo scrittore mette sotto il sistema per farlo esplodere (EC, II, p. 321). In un altro passaggio di una sua conferenza Perec confessa che trova nei sistemi di contrainte «un rifugio»: «Io ne ho bisogno. Per scrivere poesie, io ricorro all’anagramma, all’acrostico o a qualche altro procedimento che la giustifica, ma sarei incapace di scrivere poesie rivendicandole come poesie» (EC, I, p. 229).

Amo moltiplicare i sistemi di contrainte quando scrivo, afferma Perec; queste costrizioni sono, come già abbiamo visto in precedenza, «le pompe aspiranti» della mia immaginazione (EC, I, p. 228). E tornando sul tema della libertà, dice senza mezzi termini: «Io mi do delle regole per essere totalmente libero» (EC, I, p. 208).

Questo concetto della libertà che si esplica e si realizza, anzi di più che si amplifica attraverso il rispetto di regole, ha come presupposto almeno due idee:

1) da un lato un’idea di letteratura «come un fare, come un’attività poietica”», quasi simile a un lavoro di fabbrica, dice Perec (allo stesso modo in cui, parlando delle ricerche degli oulipiani, Queneau le definiva «artigianali», volendo sottolineare con ciò il loro marchio di accuratezza e rifinitura tipici della lavorazione artigianale) (6). Rimproverano gli oulipiani di «sparare a zero su ciò che si chiama l’ispirazione, sullo scrittore geniale che ha la sua musa sopra la testa» (EC, II, p. 320). In effetti «le persone che parlano di messaggio, d’ispirazione, di musa, e di tutto ciò che ricorda la vecchia immagine hugoliana [cioè relativa a Victor Hugo] dello scrittore demiurgo ci annoiano un po’» (EC, II, p. 254). «La scrittura», argomenta Perec, «è un atto culturale e unicamente culturale. Esiste unicamente una ricerca sul potere del linguaggio» (EC, I, p. 81). Alla stessa maniera la pensa il suo amico Calvino (con cui Perec, fra l’altro, avrebbe dovuto scrivere un romanzo epistolare incrociato, progetto rimasto incompiuto per la prematura e improvvisa scomparsa dello scrittore francese): anche per Calvino la letteratura non si risolve in un problema d'ispirazione discesa da chissà quali altezze o d'intuizione pura o di rispecchiamento delle strutture sociali o di presa diretta della psicologia del profondo, come vogliono le varie estetiche del novecento; la letteratura è piuttosto «un'ostinata serie di tentativi di far stare una parola dietro l'altra seguendo certe regole definite, o più spesso regole non definite né definibili ma estrapolabili da una serie di esempi o protocolli, o regole che ci siamo inventate per l'occasione cioè che abbiamo derivato da altre regole seguite da altri» (7). La verità di portata generale che vuole dimostrare Perec, sostiene Calvino, è che «il meccanismo più artificiale è in grado di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti» (8).

2) dall’altro lato, il concetto di libertà amplificata nel rispetto di regole muove da un’idea di letteratura «come un’attività ludica, come un gioco. Noi [oulipiani] pensiamo che l’attività ludica e il gioco siano delle cose serie» (EC, II, 254). Qui Perec riprende un concetto che già si trova espresso nel Primo Manifesto dell’Oulipo scritto nel 1973 da François Le Lionnais, dove si dice: «Quando sono i poeti a farli, divertimenti, burle e soperchierie appartengono alla poesia. La letteratura potenziale resta dunque la cosa più seria del mondo» (9). Il gioco è il terreno dove meglio si decanta l’intreccio fra regole e libertà che sta tanto a cuore a Perec. Oltre che separata, ovvero circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo, incerta, improduttiva e fittizia, l’attività che presiede al gioco è in primo luogo libera e regolata, in quanto sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie (10). È una caratteristica messa bene in luce dal semiologo Greimas, amico di Calvino, che in un saggio dedicato al gioco, all’inizio del paragrafo intitolato «Costrizione e libertà», come quello di Perec da cui sono partito, scrive: «Il gioco appare allo stesso tempo come un sistema di costrizioni, formulabili in regole, e come un esercizio di libertà, come una distrazione. A prima vista tuttavia questa libertà consiste in un atto puntuale limitato all’entrata nel gioco attraverso un’assunzione volontaria delle regole costrittive. L’entrata è libera, ma non l’uscita: il giocatore non può né abbandonare il gioco, poiché si affloscerebbe, né smettere di obbedire alle regole, poiché allora barerebbe. Il codice del fair play è a suo modo altrettanto rigoroso che il codice d’onore» (11).

L’elemento giocoso ritorna nelle affermazioni che Calvino rilascia nel 1973 (l’anno del suo ingresso effettivo nell’Oulipo) durante un colloquio con Ferdinando Camon. Calvino dichiara che si sente vicino ai membri dell’Oulipo, «un gruppo che nessuno sa che esiste» dice ironicamente (12), per il loro rifiuto della gravità che la cultura francese impone dappertutto, anche dove sarebbe necessaria un po’ di autoironia. Gli oulipiani ad esempio considerano la scienza, prosegue Calvino, non in modo grave, ma come gioco «secondo quello che è sempre stato lo spirito degli scienziati veri, del resto. Certo anche in loro [negli oulipiani],» commenta Calvino un po’ amaramente, «in questo scherzare per partito preso, in questa meticolosità da collaboratori della “Settimana enigmistica”, c’è una dimensione eroica, un nichilismo disperato» (13).

 

 

Note

 

1) I testi di riferimento del nostro scritto sono: Georges Perec, «La cosa», un testo inedito ritrovato tra le carte di Perec, che s’interrompe sulla parola «invenzione», probabilmente redatto nel 1967, anno dell’ingresso di Perec nell’Oulipo; è stato pubblicato in origine sul magazine littéraire, 316, decembre 1993, pp. 55-64 e nella traduzione italiana di Sabrina Sacchi su due numeri della rivista Musica Jazz, 6, giugno 2004, pp. 56-60, e 7, luglio 2004, pp. 32-33 (d’ora in poi citato come MJ, indicando con I e II rispettivamente la prima e la seconda parte); e Georges Perec, Entretiens et conférences. volume I 1965-1978 - volume II 1979-1981, édition critique établie par Dominique Bertelli et Mireille Ribière, Éditions Joseph K., Nantes, 2003, raccolta di conferenze e colloqui tenuti da Perec nel periodo 1965-1981 presso alcune università e istituzioni culturali in varie parti del mondo, che ci mostrano un Perec nell’inedita veste di commentatore della propria estetica (d’ora in poi citato come EC, indicando con I e II rispettivamente il primo e il secondo volume).

2) Umberto Eco, «Postille a "Il nome della rosa" 1983» in: Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 2004, pp. 505-533; la citazione è a p. 514.

3) Umberto Eco, «Come scrivo», in Sulla letteratura, Bompiani, Milano, 2002, pp. 324-359, si cita da pp. 346-347.

4) In una nota Dominique Bertelli e Mireille Ribière, curatori di EC, affermano di non aver trovato questa definizione nei testi tradotti in francese di Italo Calvino (EC, II, nota 4, p. 309).

5) «Si è discusso nell’Oulipo, giorni e giorni, sul problema: “Bisogna mostrare o non mostrare la contrainte?" Harry Mathews […] pensa che non bisogna mostrare la contrainte. Calvino pensa di sì: un libro come Il castello dei destini incrociati mostra la contrainte. […] Al contrario, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, non offre le chiavi che sono molto importanti. Nemmeno Nabokov ha mai svelato le sue chiavi: ho letto di recente, per esempio, che il numero 52 è estremamente importante in Lolita» (EC, II, p. 171).

6) Raymond Queneau, «L'Opificio di letteratura potenziale», in: Segni, cifre e lettere e altri saggi, introduzione di Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1981, pp. 56-73, si veda la pag. 57.

7) Italo Calvino, «Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)», in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino, 1980, pp. 171-172.

8) Italo Calvino, «Perec, gnomo e cabalista», la Repubblica, 6 marzo 1982, ora anche con il titolo «Ricordo di Georges Perec» in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano, 1995, pp. 1388-1392, si cita da pag. 1389.

9) François Le Lionnais, «La LEPO (Il primo Manifesto)», in Oulipo, La letteratura potenziale (Creazioni Ri-creazioni Ricreazioni), edizione italiana a cura di Ruggero Campagnoli e Yves Hersant, Editrice CLUEB, Bologna, 1985, pp. 17-21, si cita da p. 20. Il termine LEPO sta per LEtteratura POtenziale.

10) Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, con una nota di Giampaolo Dossena, Bompiani, Milano, 1981, p. 26.

11) Julien Algirdas Greimas, «A proposito del gioco», in Miti e figure, trad. it. di Francesco Marsciani, Esculapio, Bologna, 1995, pp. 215-220, si cita da p. 215.

12) In «Perec, gnomo e cabalista», cit., Calvino definisce l’Oulipo «una specie di società segreta».

13) Italo Calvino, «Colloquio con Ferdinando Camon», uscito in Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Garzanti, Milano, 1973, ora anche in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, cit., pp. 2774-2796, si cita da pp. 2789-2790.


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Relazione tenuta venerdì 16 novembre 2012 al convegno L'ordine e la bellezza. La città del potenziale e il potenziale della città (leggi il programma cliccando qui).


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