Paolo Albani
PERDERE TEMPO

 

    In un piccolo ma luminoso appartamento sopra il Café Sabarsky nella Quinta Avenue di New York, dove ha il suo studio, il giovane e brillante psicologo Harold Smith, con una laurea anche in legge ottenuta a Harvard, si occupa professionalmente di una questione che negli ultimi anni ha assunto una rilevanza considerevole sul piano socio-economico e che va accentuandosi sempre più a causa della condizione di precarietà e di non lavoro in cui vivono milioni di persone al mondo, in questa fase storica di sviluppo bloccato.

          Il problema che Smith affronta ogni giorno con la sua clientela è aggiustare le perdite di tempo. È questa la sua attività di consulenza, che Smith svolge in modo egregio sfruttando le sue qualità di psicologo e di avvocato.

Fra i suoi clienti Smith annovera i soggetti più disparati, uomini e donne di ogni età, cultura, religione e fascia di reddito che si rivolgono a lui afflitti dall’angosciante cruccio delle perdite di tempo, un problema sociale, come s’è detto, molto diffuso e sentito specie nei paesi ricchi, ma che sta prendendo campo con modalità inquietanti anche in quelli meno sviluppati o poverissimi.

Si perde tempo in tanti modi, ha detto di recente Smith in un’intervista rilasciata a un settimanale finanziario statunitense. In genere si comincia con delle sciocchezze, dei trastulli, dei passatempi innocui, a cui lì per lì non si dà alcun peso e di cui si è portati a sottovalutare la rischiosità, come ad esempio restarsene una mezza giornata a guardare il passaggio dei treni da un cavalcavia o le anatre che si rincorrono nel laghetto di un parco o contare e ricontare per ore e ore le mattonelle del pavimento di una sala d’aspetto o leggere attentamente tutti i necrologi di un quotidiano senza saltarne nemmeno uno o intrattenersi a lungo in chiacchiere di poco conto con il primo sconosciuto incontrato alla fermata dell’autobus, o altre cose simili, apparentemente banali, ma che già prefigurano una latente e rovinosa propensione alla perdita di tempo.

Poi, a forza di accumulare perdite di tempo una dietro l'altra, ci si prende l'abitudine, diventa un fatto normale, per quanto avvilente, perché piano piano si arriva a perdere tempo di continuo, sfruttando ogni piccola occasione, magari senza rendersene conto, inconsciamente, in uno stillicidio di perdite di tempo che alla fine, sommate assieme, si raggrumano in un deleterio senso di vuoto di cui finiamo per lamentarci e che è alla base, afferma Smith, di «una crescita esponenziale del grado di insofferenza e smarrimento che investe gran parte della popolazione, non solo adulta».

Il più delle volte poi - e questo forse è uno degli aspetti più interessanti del problema - le perdite di tempo sono legate al linguaggio, ovvero all'uso improprio, distorto, superficiale che facciamo delle parole. Al riguardo, per sensibilizzare i propri clienti sui pericoli insiti nelle perdite di tempo che sono la spia di un modo di agire compulsivo, Smith cita spesso una teoria il cui autore è sconosciuto, tanto che viene da pensare sia stata inventata dallo stesso Smith che in ogni caso la spaccia come il risultato di una seria ricerca antropologica commissionata da «una famosa università statunitense» (di cui tuttavia Smith si guarda bene dal riferire il nome).

            Le perdite di tempo, sostiene in pratica questa teoria, sono inferiori nelle comunità primitive (ad esempio in alcune tribù del centro Africa o dell’Asia meridionale) in cui, non solo il linguaggio è più semplice, con poche regole grammaticali e una bassa percentuale di termini ambigui, ma in cui si parla di meno in assoluto, e ci si avvale prevalentemente del linguaggio dei gesti, ovvero del corpo, delle mani, dell'espressione del volto, e si fanno lunghe pause di riflessione, lunghi e meditati silenzi fra un discorso e l'altro.

La citazione di questa teoria, che forse nessuno ha mai elaborato davvero, è in realtà solo un pretesto che offre al giovane e brillante psicologo Harold Smith l'opportunità per ribadire un concetto importante sul piano della comunicazione verbale, e cioè che uno dei rimedi più efficaci per aggiustare le perdite di tempo, comunque si manifestino, è quello di parlare poco, di non sprecare il fiato inutilmente, ovvero di limitarsi all'essenziale nello scambio di informazioni, al minimo strettamente necessario.

        È questo il pensiero di Harold Smith sulle perdite di tempo imputabili all’uso del linguaggio.

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    Questo testo è uscito su il Caffè illustrato, 69, novembre-dicembre 2012, p. 9.
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