SE L'IPOCONDRIA È UN AFFARE DI FAMIGLIA. RACCONTARSI LE MALATTIE Sul
cassettone del salotto di casa dei miei genitori, in una strada che
ancora oggi, dopo qualche curva, sale in collina, verso il comune di
Fiesole, non lontano da Firenze, c’era una zuppiera di porcellana stile
falso Capodimonte, decorata di putti che suonano lunghi flauti in un
ambiente campestre. La zuppiera era sempre stracolma di medicine,
scatoline colorate dai nomi astrusi, spesso terminanti in x o in s, fra
cui spiccavano numerose confezioni gialle di citrosodina, indicata nel
trattamento sintomatico dell’iperacidità (dolore e bruciore dello
stomaco), di cui i miei genitori erano voraci consumatori.
Questo ricordo mi è venuto in mente («ciabattato in testa», avrebbe detto in modo più espressivo Giorgio Manganelli) leggendo Patologie, edito nella collana Storie dell’editore Quodlibet, un delizioso e proustiano «racconto familiare» di Antonella Moscati, filosofa e traduttrice dal tedesco e dal francese di testi di filosofia contemporanea. Patologie è, come si legge nella postfazione del libro, un coacervo di «reminiscenze» che girano intorno a un unico, assillante tema, quello delle malattie. A suo modo si presenta come una narrazione semicomica. E in effetti l’atmosfera che si respira in casa Moscati è così pesantemente «drammatica», sul piano delle ossessioni e delle paure di ammalarsi, da lambire, come spesso succede, i territori imperversi della comicità. Figura centrale di Patologie è il padre medico, un dermosifilopatico, cioè un medico che studia le malattie cutanee e veneree. In famiglia è considerato una specie di medico non medico, anche perché l’uomo odia la dermatologia, dato che tutti (ditemi se la situazione non è comica) vanno a chiedergli come far scomparire i foruncoli o far ricrescere i capelli, e lui, persona onesta, dice sempre la schietta verità annunciando subito che non ci sono medicine né contro l’acne né contro la caduta dei capelli con il prevedibile risultato, racconta la Moscati, che i clienti, o meglio i pazienti che evidentemente pazienti non sono, da lui non tornano più. Come medico, il padre ritiene che si possano guarire solo le malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedono a occhio nudo, ragione per cui sono i batteri – streptococchi, gonococchi, treponemi pallidi – molto famosi e manifesti che lo interessano, mentre tutto il resto, patologicamente parlando, non provoca che dubbi e agitazione psichica. Un tipo davvero strano questo medico non medico. Ad esempio, quand’è fidanzato con la madre della Moscati, lui le scrive lettere che invece di parlare d’amore e di romanticherie si dilungano in chiacchiere su bruciori e pesi di stomaco e in raccomandazioni su quello che può o non può mangiare. La malattia che il padre teme di più non è l’influenza, sebbene la reputi terribile perché, come dice la parola stessa, sparge un’influenza negativa su tutto, bensì l’esaurimento nervoso, una malattia della testa, di cui soffre periodicamente, tanto da spingerlo a ricorrere alle sedute con un famoso psichiatra turco (che uno s’immagina con grandi baffi neri e sempre con la sigaretta in bocca) e a farsi degli elettroshock che, soprattutto la prima volta, gli procurano un gran bene. Per informarsi sulle malattie sempre in agguato, Moscati e le sorelle consultano Diagnostica e terapia di Anton Spartaco Roversi (da loro chiamato semplicemente il Roversi), talvolta lo leggono perfino a letto, prima di addormentarsi, quasi fosse un romanzo d’amore o d’avventura. Da parte sua, a differenza delle sorelle che si concentrano su quelle più diffuse e possibili, Moscati da piccola predilige le malattie altamente improbabili, tipo febbre gialla, peste bubbonica o sifilide, quest’ultima in omaggio al padre, e anche perché sa ben poco dei rapporti sessuali. Il dramma che si consuma nella famiglia della Moscati è legato alla convinzione che ogni sintomo, anche il più insignificante, che altera lo stato di salute, è preludio e presagio di una malattia mortale, di una leucemia o di un cancro («tutto è cancro di qua e cancro di là e non possiamo, anzi non posso, neanche avere mal di gola o mal d’orecchio che è già cancro»). Sulla paura delle malattie, una sorta di collante psicologico che tiene stretti, «nel bene, anzi no, solo nel male», i componenti della famiglia della Moscati, il quadro è questo: il padre teme tutte le malattie tranne il tumore, la madre invece non ha paura di nessuna malattia tranne che del tumore. Leggendo le storie narrate in Patologie mi sono fatto una certa cultura, alla Carlo Verdone, sulle medicine, sui loro nomi incomprensibili e misteriosi, sulle loro proprietà e su quanto il loro uso (e abuso) scaturisca da un’irriducibile propensione all’ipocondria. Il libro si chiude con un racconto intitolato AGT, acronimo di Amnesia globale transitoria, dove l’autrice, a seguito di un episodio accadutole in spiaggia, cioè un’assenza durata qualche ora che la costringe al ricovero in un pronto soccorso, sviluppa una serie di stimolanti riflessioni filosofiche (del resto è la filosofia il terreno elettivo della Moscati) su cosa succede dentro di noi, al nostro io, «quel puntino di autocoscienza», quando la memoria si assenta, perde qualche colpo. A proposito della vecchia zuppiera di porcellana dei miei genitori con i putti musicisti dipinti sui lati, sono contento di poter dire che esiste ancora. È dentro una madia nella cucina di casa mia e, assecondando le pieghe di un ricorso storico quasi scontato, è ancora piena zeppa di medicine, nella fattispecie le mie. Antonella Moscati Patologie Quodlibet, pagg. 104, € 11,40
Domenica - Il Sole 24 Ore, N. 76, 17 marzo 2024, p. XVII.
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