LE PAROLE NON USATE
A volte pensiamo di conoscere il significato di una parola, ma non sempre è così; un famoso (e fumoso) psicanalista, fra gli altri, ha detto che «noi non parliamo il linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio». Questa frase mi è rimasta impressa perché ha un che di paradossale che la rende simpaticamente inspiegabile, quasi presupponesse che il linguaggio è uno strumento esterno all’uomo, prodotto a sua insaputa. Tuttavia il problema non è questo, non riguarda la sfera della semantica. Il significato non c’entra. Leggendo quella recensione, mi è venuto in mente che, nelle conversazioni e nei miei scritti, io non ho mai usato la parola «urticante» che pure mi sembra bella, ha un suono vibrante, suggestivo, quasi un trillo linguistico grazie a quella «r» all’inizio di «urti». Appena ne avrò l’occasione voglio usarla, infilarla da qualche parte: «Il suo modo di fare mi sembrava particolarmente urticante», «È un verso quanto mai urticante». Pensando
alla parola «urticante» rifletto su quante parole non fanno parte del mio
lessico abituale. Di sicuro è un numero esorbitante. Tempo fa, mentre rileggevo
Il naso di Gogol’, tradotto da
Tommaso Landolfi (era la prima volta che lo leggevo nella traduzione
landolfiana), all’improvviso mi sono imbattuto nella parola «princisbecco» che
nell’espressione «rimanere di princisbecco» significa «di stucco». Che
meraviglia! Fantastica! La ignoravo completamente, ma appena l’ho sentita mi ha
lasciato davvero di stucco, a bocca aperta. E mi è venuto di associare quella strana
parola a un uccello dall’aspetto regale, tipo aquila con un becco giallo
pronunciato e rilucente. In realtà, come spiega lo Zingarelli, «princisbecco» è
una «lega di rame, stagno e zinco, simile d’aspetto all’oro»; la parola deriva
da Christopher Pinchbeck (1670-1732), inventore di questa lega usata in oreficeria,
orologeria e per i fili da ricamo; lo stupore nasce dalla scoperta che l’oro,
impiegato da orefici disonesti, è falso.
Nemmeno «pesceduovo», che è bella, anche se un po’ troppo letteraria per i miei gusti, ho mai usato, sebbene mi sarà successo di parlare di omelette chissà quante volte, per esempio a Macinaggio sul dito della Corsica quando da giovane, durante un viaggio in barca con alcuni amici, mi sono fatto delle grandi abbuffate di omelette, che lì sono speciali, e mentre eravamo seduti in un caffè davanti al porto di Macinaggio avrei potuto dire, se quella parola mi fosse stata familiare, con naturalezza: «Stasera voglio mangiarmi un bel pesceduovo».
1 ottobre Mi lascia sgomento anche pensare (e lo faccio sempre più spesso da qualche tempo a questa parte) che le parole che ignoro, che non conosco siano in termini numerici molte di più, immensamente di più di quelle che conosco. Non c’è paragone. È un’amara presa di coscienza, per quanto rasenti l’ovvietà. C’è chi ha una memoria formidabile e si ricorda più parole di altri, ma il fatto di conoscere e usare un numero limitato di parole dipende in primo luogo dalle abitudini linguistiche familiari, dagli insegnanti che ci hanno formato, dal tipo di letture fatte, dai luoghi frequentati, dalle amicizie coltivate, insomma da una serie di fattori socio-culturali. Non è solo una questione di fosforo nel cervello. La verità è che ho bisogno di arricchire il mio parco-parole, di rinnovarlo, pena l’atrofia linguistica. «C’è tanto italiano inutilizzato» ammoniva Giorgio Manganelli.
3 dicembre ottobre 2013 _____________________________________
Questo testo è uscito sul n. 74/75,
settembre-dicembre 2013, de «il Caffè illustrato».
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