Paolo
Albani
NUOVI FENOMENI CURIOSI
(2)
Due gemelli maschi
ungheresi, che vivevano insieme nella città
di Debrecen, in un vecchio edificio vicino al tempio calvinista, non
sopportavano
più la loro condizione di gemelli, di essere cioè uguali,
identici in tutto e per tutto, nei minimi dettagli fisici,
indistinguibili
a tal punto che, vedendone uno per strada o al caffè, nessuno
era
in grado di riconoscerlo, nel senso di capire se si trattava dell’uno o
dell’altro gemello.
«Ciao, Jozsef, come stai?», «No, guardi, si
sbaglia: io sono Fodor», e viceversa.
Fin da piccoli, i genitori li avevano portati a spasso su un’unica
carrozzina a due posti, li avevano vestiti allo stesso modo, fatti
dormire
nella stessa cameretta e mangiare le stesse cose, li avevano dato in
lettura
gli stessi libri di fiabe, regalato gli stessi giocattoli, preparato
per
loro le stesse sorprese sotto l’albero di Natale, ecc.
Un giorno, all’età di ventiquattro anni, i due gemelli
decisero, l’uno all’insaputa dell’altro, di mettere in atto qualcosa di
eclatante, di forte per differenziarsi nell’aspetto fisico,
poiché
per il resto - cibo, modo di vestire, gusti culturali, amicizie, ecc. -
avevano già scelto strade diverse. Con ciò pensavano di
porre
fine una volta per tutte alla loro insopportabile, odiosa
somiglianza.
Così uno dei due, Jozsef, una domenica mattina si chiuse nel
bagno, prese un rasoio, di quelli ripiegabili con il manico di radica,
e si procurò un taglio profondo e vistoso sotto lo zigomo
sinistro.
«In questo modo tutti mi riconosceranno, senza scambiarmi
più
per Fodor», pensò.
Sfortunatamente il caso volle che anche Fodor, quando il gemello
se ne stava chiuso nel bagno a compiere quel gesto inconsulto, si
procurasse
un ampio taglio proprio sotto lo zigomo sinistro, anche lui usando un
rasoio
con il manico di radica, perché i due gemelli avevano due rasoi
identici, della stessa marca, un regalo di compleanno di uno zio
paterno
che aveva l’abitudine di regalare ad entrambi, fin da piccoli, lo
stesso
oggetto-ricordo.
Per far paura alla gente,
Alcide Pescherini, un muratore di Ancona
un po’ svitato, si riempiva di zolfo le tasche dei pantaloni, davanti e
di dietro, impregnando gli abiti di un odore sulfureo tanto forte che
si
sentiva lontano un miglio, e inoltre si tingeva le gote con una cipria
rossastra, e si metteva del kajal intorno agli occhi, grandi e
spiritati,
di un colore verde cupo, che mettevano soggezione, occhi da
ipnotizzatore.
Combinato a quel modo, una via di mezzo fra il vampiro e il clown,
ogni venerdì del mese appena andava giù il sole,
Pescherini
fermava per strada il primo passante che gli capitava a tiro e con una
voce melliflua, guardandolo dritto negli occhi, gli diceva che lui era
il diavolo, che era Belzebù in persona, e che la prova certa che
lui era «l’angelo del male» stava nell’odore di zolfo
esalante
dal suo corpo, ma che non doveva temere, perché era lì
per
assolvere una missione importante e non voleva fargli del male; l’aveva
fermato solo per proporgli un commercio fruttuoso: in cambio dell’anima
gli avrebbe concesso l’eternità.
Alla parola «eternità», per impressionare la sua
vittima, Pescherini si serviva di un trucco insegnatogli da un amico
che
era aiuto-prestigiatore in un circo equestre: con un accendisigaro a
gas
dava fuoco allo zolfo nascosto dentro una delle tasche dei pantaloni,
foderata
per sicurezza di un materiale non infiammabile, in modo da provocare la
fuoriuscita di una nuvoletta di fumo che, in pochi secondi, lo
avvolgeva
tutto, creando intorno a sé un effetto davvero mefistofelico.
In genere il passante fermato per strada, non appena si
riprendeva
dallo spavento, capiva subito di trovarsi di fronte a un povero
mentecatto,
inoffensivo per di più, e allora cominciava a imprecare contro
di
lui, a gridargli: «Disgraziato, farabutto, stai attento che
chiamo
la polizia!», mentre l’altro - «il principe delle
tenebre»
- si allontanava di corsa lasciandosi dietro una scia di fumo e un
odore
aspro di zolfo.
Un giorno Pescherini esagerò con la storia dello zolfo
e si ustionò gravemente e fu costretto a rimanere in ospedale,
nel
reparto grandi ustionati, più di un mese. Da allora, gli
passò
la voglia di mettere paura alla gente dicendo che lui era il diavolo.
il Caffè illustrato, 40, gennaio-febbraio 2008,
p. 10.
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