Paolo Albani
NUOVI FENOMENI CURIOSI (2)

 Due gemelli maschi ungheresi, che vivevano insieme nella città di Debrecen, in un vecchio edificio vicino al tempio calvinista, non sopportavano più la loro condizione di gemelli, di essere cioè uguali, identici in tutto e per tutto, nei minimi dettagli fisici, indistinguibili a tal punto che, vedendone uno per strada o al caffè, nessuno era in grado di riconoscerlo, nel senso di capire se si trattava dell’uno o dell’altro gemello.
 «Ciao, Jozsef, come stai?», «No, guardi, si sbaglia: io sono Fodor», e viceversa.
Fin da piccoli, i genitori li avevano portati a spasso su un’unica carrozzina a due posti, li avevano vestiti allo stesso modo, fatti dormire nella stessa cameretta e mangiare le stesse cose, li avevano dato in lettura gli stessi libri di fiabe, regalato gli stessi giocattoli, preparato per loro le stesse sorprese sotto l’albero di Natale, ecc.
 Un giorno, all’età di ventiquattro anni, i due gemelli decisero, l’uno all’insaputa dell’altro, di mettere in atto qualcosa di eclatante, di forte per differenziarsi nell’aspetto fisico, poiché per il resto - cibo, modo di vestire, gusti culturali, amicizie, ecc. - avevano già scelto strade diverse. Con ciò pensavano di porre fine una volta per tutte alla loro insopportabile, odiosa somiglianza. 
Così uno dei due, Jozsef, una domenica mattina si chiuse nel bagno, prese un rasoio, di quelli ripiegabili con il manico di radica, e si procurò un taglio profondo e vistoso sotto lo zigomo sinistro. 
«In questo modo tutti mi riconosceranno, senza scambiarmi più per Fodor», pensò.
 Sfortunatamente il caso volle che anche Fodor, quando il gemello se ne stava chiuso nel bagno a compiere quel gesto inconsulto, si procurasse un ampio taglio proprio sotto lo zigomo sinistro, anche lui usando un rasoio con il manico di radica, perché i due gemelli avevano due rasoi identici, della stessa marca, un regalo di compleanno di uno zio paterno che aveva l’abitudine di regalare ad entrambi, fin da piccoli, lo stesso oggetto-ricordo.

* * *

 Per far paura alla gente, Alcide Pescherini, un muratore di Ancona un po’ svitato, si riempiva di zolfo le tasche dei pantaloni, davanti e di dietro, impregnando gli abiti di un odore sulfureo tanto forte che si sentiva lontano un miglio, e inoltre si tingeva le gote con una cipria rossastra, e si metteva del kajal intorno agli occhi, grandi e spiritati, di un colore verde cupo, che mettevano soggezione, occhi da ipnotizzatore.
Combinato a quel modo, una via di mezzo fra il vampiro e il clown, ogni venerdì del mese appena andava giù il sole, Pescherini fermava per strada il primo passante che gli capitava a tiro e con una voce melliflua, guardandolo dritto negli occhi, gli diceva che lui era il diavolo, che era Belzebù in persona, e che la prova certa che lui era «l’angelo del male» stava nell’odore di zolfo esalante dal suo corpo, ma che non doveva temere, perché era lì per assolvere una missione importante e non voleva fargli del male; l’aveva fermato solo per proporgli un commercio fruttuoso: in cambio dell’anima gli avrebbe concesso l’eternità.
Alla parola «eternità», per impressionare la sua vittima, Pescherini si serviva di un trucco insegnatogli da un amico che era aiuto-prestigiatore in un circo equestre: con un accendisigaro a gas dava fuoco allo zolfo nascosto dentro una delle tasche dei pantaloni, foderata per sicurezza di un materiale non infiammabile, in modo da provocare la fuoriuscita di una nuvoletta di fumo che, in pochi secondi, lo avvolgeva tutto, creando intorno a sé un effetto davvero mefistofelico.
 In genere il passante fermato per strada, non appena si riprendeva dallo spavento, capiva subito di trovarsi di fronte a un povero mentecatto, inoffensivo per di più, e allora cominciava a imprecare contro di lui, a gridargli: «Disgraziato, farabutto, stai attento che chiamo la polizia!», mentre l’altro - «il principe delle tenebre» - si allontanava di corsa lasciandosi dietro una scia di fumo e un odore aspro di zolfo.
 Un giorno Pescherini esagerò con la storia dello zolfo e si ustionò gravemente e fu costretto a rimanere in ospedale, nel reparto grandi ustionati, più di un mese. Da allora, gli passò la voglia di mettere paura alla gente dicendo che lui era il diavolo.

il Caffè illustrato, 40, gennaio-febbraio 2008, p. 10.


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