Paolo Albani, stricto sensu, 2007
cm 10x15
Artisti presenti:
Paolo Albani, Bruno Aller, Fernando Andolcetti, Antonio
Baglivo,
Vittore Baroni,
Carla Bertola, Tomaso Binga, Mario Bizzarri, Julien Blaine,
Annalù
Boeretto,
Anna Boschi, Antonino Bove, Erica Briani, Donata Buccioli,
Marzia
Calì,
Carla Cantatore, Irene Catalfamo, Grazia Cianetti, Marina
Cianetti,
Cosimo Cimino, Mario Commone, Vitaldo Conte, Carlo Marcello Conti,
Eleonora
Del Brocco,
Chiara Diamantini, Adriano Di Giacomo, Stefania Di Lino,
Marcello
Diotallevi,
Gilberto Di Stazio, Gabriella Di Trani, Edith Dzieduszycka,
Marisa
Facchinetti,
Laura Facchini, Franco Falasca, Vittorio Fava, Arcangelo
Favata,
Fernanda Fedi,
Gio Ferri, Rosanna Fioravanti, Melo Franchina, Antonio
Freiles,
Chiara Gallo,
Giovanna Gandini, Delio Gennai, Laura Giambarresi, Nella
Giambarresi,
Gino Gini,
Lillo Giuliana, Salvatore Giunta, Elisabetta Gut, Hafiza,
Oronzo
Liuzzi, Ruggero Maggi, Malipiero, Carmelo Marchese, Fabio Marchese,
Lucia
Marcucci, Franco Marrocco, Stelio M. Martini, Gisella Meo, Giorgio
Moio,
Elisa Montessori, Angela Noya,
Maurizio Osti, Lina Passalacqua, Gloria Persiani, Lamberto
Pignotti,
Maria Elisabetta Piu, Gabriella Porpora, Giustina Prestento,
Elvi
Ratti,
Maria Luisa Ricciuti, Simona Sarti, Paolo Scirpa, Eugenia
Serafini,
Grazia Sernia, Franca Sonnino, Franco Spena, William Xerra, Mariannita
Zanzucchi, Franco Ziliotto.
MINI>MAXI
ovverosia PICCOLO
È GRANDE
MINI>MAXI, “minimo”
superiore a “massimo”, “piccolo” maggiore
di “grande”: un bizzarro gioco del linguaggio, un paradossale
ribaltamento
della percezione estetica, una sollecitazione a immaginare e a guardare
– criticamente, artisticamente… - con altro occhio?
L’occhio è certamente un organo della vista, ma è
anche un organo della cultura. Se non proprio di oggi, è assai
recente
la consapevolezza che l’occhio, lungi dall’essere un mero registratore
di ciò che gli si para davanti, sia in realtà un
selettore
che ordina e valuta i dati che gli affluiscono dal mondo circostante.
L’occhio
insomma, più che guardare, “legge”. Per fare un esempio –
“fantascientifico”
e a un tempo “terra-terra” – l’eventuale extragalattico che arrivasse
sul
nostro pianeta, munito di occhi ma non di cultura terrestre,
sbircerebbe
le nostre cose e avrebbe su per giù le stesse sensazioni di chi
guarda dei geroglifici senza conoscerne il codice.
In un libro famoso quanto stimolante, dal titolo Il linguaggio
della visione, Gyorgy Kepes scriveva che “la comunicazione ottica
è
uno dei mezzi potenzialmente più validi sia per riconciliare
l’uomo
con la sua conoscenza che per riplasmarlo in un essere integrato. Il
linguaggio
delle immagini è in grado di diffondere il sapere più
efficacemente
di ogni altro mezzo di comunicazione. Permette all’uomo, di esprimere e
riferire le sue esperienze in una forma oggettiva. La comunicazione
visiva
è universale e internazionale”. L’uomo di oggi non solo vede, ma
legge e valuta il mondo circostante con un occhio che rimanda
continuamente
a un’enciclopedia, a una banca dati, a un archivio organizzato
culturalmente
dalla memoria.
Ma in simile “enciclopedia”, “banca dati”, “archivio culturale”,
rientrano, quando dalle immagini visive si passa alle immagini delle
arti
visive, anche voci ricorrenti come “musei”, “gallerie”, “riviste”,
“mostre”,
“cataloghi”, “critica”, “mercato”… Già, la critica, il mercato…
Anche se non è certo questa la sede più adatta per
insistere
sul condizionamento della produzione artistica da parte del mercato,
fatto
che è palese a sufficienza, almeno di sfuggita non si può
fare a meno di richiamare all’ordine una certa critica che appare un
po’
troppo disinvoltamente coinvolta nella mediazione fra l’arte e,
appunto,
il mercato. Siffatta mediazione può allora farsi complice di una
progressiva trasfigurazione dell’autonomia dell’occhio condizionandolo
in senso eteronomo e al limite mercantile.
Al rapporto tra Produzione artistica e mercato, Francesco Poli,
fin dal titolo del suo libro, ha dedicato inequivocabili parole sulla
effettiva
funzione mediatrice dei musei, alcuni dei quali, a partire da quelli
americani,
si presentano come vere e proprie aziende di propaganda e di promozione
nei riguardi dei valori artistici, nuovi o già consacrati:
“Essendo
la maggior parte dei musei finanziati da fondazioni, industrie, gruppi
o singoli magnati, l’efficienza è la parola d’ordine dei
conservatori
dei musei, veri e propri manager di tipo moderno”.
Alla tematica del museo possono essere connessi anche
interrogativi
del genere: trattandosi usualmente di “megastrutture” pubbliche, chi
sceglie,
e quindi “compra”, in nome del pubblico? Quali sono i criteri
espositivi,
e quindi “comunicativi”, con cui si esibiscono le opere? Posto che il
museo
moderno non va più considerato un mero “contenitore” ma
soprattutto
una fonte di informazione e cultura, che “linguaggio” deve usare a tal
fine?
Un altro momento della mediazione fra arte e pubblico è
rappresentato dall’informazione, la quale costituisce il primo livello
del rapporto fra i due elementi. Dipende innanzi tutto dallo spazio che
si assegna alle espressioni estetiche, ma anche dal modo con cui se ne
parla. In linea di massima se ne può tracciare un quadro
tutt’altro
che roseo: pagine di giornale scompaiono, colonne si accorciano,
rubriche
si rattrappiscono… L’arte viene poi non di rado trattata con un gergo
da
adepti che risulta un vero e proprio cifrario: invece di allargare il
gioco
al pubblico si preferisce ostinarsi in un ping-pong fra recensori e
critici.
A questo punto il discorso dovrebbe andare a parare sul gioco
delle parti e su quale gioco viene fatto. Perché non ricorrere
in
proposito a Ludwig Wittgenstein che di giochi linguistici ed estetici,
ma non solo, se ne intendeva? “Se non avessi appreso le regole non
sarei
in grado di dare un giudizio estetico”, osserva in una delle sue
Lezioni.
Ma “in che cosa consiste la valutazione?
Non solo è difficile descrivere in che cosa consista la
valutazione
, ma è impossibile: per descrivere in che cosa consiste,
dovremmo
descrivere tutto il contesto ambientale”. E ancora: “Le parole che
chiamiamo
espressioni di giudizio estetico hanno un ruolo molto complicato, ma
ben
definito, in ciò che chiamiamo la cultura di un periodo. Per
descrivere
il loro uso o per descrivere ciò che intendi per un gusto colto,
devi descrivere una cultura. Nelle diverse età si gioca un gioco
del tutto diverso… Ciò che appartiene a un gioco linguistico
è
un’intera cultura”.
Rimettendo a fuoco l’assunto da cui abbiamo preso le mosse, come
viene percepita nelle diverse epoche, relativamente alla produzione
artistica,
l’idea del “grande” rapportata a quella del “piccolo”? Vi sono periodi
in cui queste due dimensioni non vengono percepite come contrapposte, e
soprattutto non si dà per scontato che l’idea del “grande”
prevarichi
e connoti la superiorità dell’idea del “piccolo”. E’ a tal
riguardo
che Leonardo è portato a osservare come una montagna possa
essere
piccola e una perla grossa, ma erano tempi appunto in cui non ci si
sognava
aprioristicamente di sottovalutare una bibbia miniata nei confronti di
una pala d’altare.
Sarebbe meglio insomma, come consigliava Pierre Francastel, di
essere meno svagati riguardo alle dimensioni nel campo delle arti
visive,
magari mettendo sullo stesso piano, come fanno certi frettolosi storici
dell’arte, un libro d’ore e una cappella affrescata, opere che
evidentemente
prevedono di attuare e di trasmettere un diverso rapporto di fruizione.
Detto questo non si può non convenire che l’idea del
“grande”
una certa sua attendibile preminenza se la è conquistata anche
meritatamente
durante l’arco di svariati secoli ed è legata agli attributi,
oltre
che della vistosità, a quelli della progettualità, della
sistematicità, della realizzazione, della compiutezza… Viceversa
l’idea del “piccolo” è solitamente associata agli attributi
dell’improvvisazione,
dell’abbozzo, dello sporadico, del frammento, dell’incompiuto… Il
“grande”
tende a suggerire la premeditazione, l’adesione a un codice
sostanzialmente
riconosciuto, il “piccolo” rappresenta piuttosto l’improvvisazione,
l’insofferenza
alle regole.
La modernità, la concezione delle avanguardie, portando
avanti una tendenza del romanticismo, reagisce all’idea del “grande”
come
metro della compiutezza e della realizzazione, mirando a legare il
“piccolo”
al lampo di genio, alla pennellata svelta degli impressionisti, alle
tavole
parolibere, al collage cubista, al “ready made” dadà, al
“cadavere
exquis” surrealista, alla poesia visiva e concreta, al concettualismo,
alla mail art, all’arte povera, al libro oggetto, al “reperto” e alla
foto
della performance…
Quella che potrebbe essere definita la rivalutazione del
“piccolo”
rispetto al “grande”non ha avuto solo una connotazione estetica.
Parallelamente
si è sviluppata anche una assai generale propensione ideologica
– in senso ampio – a pensare che l’arte – quella sua “nuova frontiera”
spostata sempre più avanti – avesse più
probabilità
di incidere sulla società (percepita come mondo ordinato,
sistematico,
equilibrato, armonico…) affidandosi a modalità incisive, ad
azioni
rapide, a strutture poco ingombranti, a rapidi capovolgimenti di
fronte,
a guerriglie semiologiche, a messaggi imprevedibili.
Tale processo appare più marcato nei periodi in cui l’arte
non mira all’integrazione – o almeno non vi mira apertamente sui tempi
brevi – ma all’opposizione, alla contrapposizione, alla provocazione,
al
dissenso. In casi del genere l’operare estetico viene mentalmente
visualizzato
come rivalsa limitata, come contromossa tattica, nei confronti del
sistema:
non si immaginano guerre su ampi fronti, bensì operazioni di
guerriglieri,
commandos e guastatori…
Muoviamo ora dalla reale complessità di un simile
contesto,
qui succintamente tratteggiato, ma anche dalla apparente
semplicità
di uno di quei giochi estetici e linguistici a cui ci invita
Wittgenstein,
quando – e non scherzava affatto – dice: “Classifico le opere d’arte in
questo modo: per alcune guardo in su, per altre guardo in giù.
Questo
metodo di classificazione potrebbe essere interessante”. Raccogliendo
allora
l’invito e proseguendo di conseguenza: perché non riclassificare
le opere d’arte a partire dai centimetri, anziché dai metri? Si
potrebbe in tal modo riscoprire, sì, l’acqua calda, ma ritrovare
quel sentimento salutare di chi mira a liberarsi di un’idea
ingannevole.
Ed è proprio questo il sentimento che ha dato il via a
questa mostra con un messaggio e un invito rivolto sia agli artisti,
sia
a quanti si mettono di fronte a un’opera in modo partecipe e attivo, e
che al termine di questo discorso è opportuno e anzi necessario
riportare.
«Si va diffondendo l’idea che per essere grandi artisti
si debbano fare opere grandi, opere cioè di grandi dimensioni.
E’
un’idea ingannevole, alimentata anche per scopi speculativi, che mira
tra
l’altro non tanto ad accrescere il valore di un certo artista quanto a
far gonfiare un certo titolo in borsa. L’idea tende a suggerire infatti
che le opere grandi abbiano come destinazione i grandi musei.
L’insofferenza a questo stato di cose è assai diffusa,
ma non trova sempre luoghi, modi e canali adatti a convogliarla in una
reazione di segno opposto, consapevole e fattiva.
Muovendo da tale presupposto LA CUBA D’ORO, sensibile alle varie
espressioni d’arte e di ricerca, ha realizzato l’idea di Lamberto
Pignotti
con la presente mostra alla quale sono stati invitati artisti disposti
a condividere una simile impostazione e che hanno inviato una loro
opera
rispondente al titolo della mostra stessa, titolo che esclude con
decisione
l’idea consolatoria del “piccolo è bello”».
Risolutamente, e non proprio paradossalmente, sarà bene
infatti predisporsi per la mostra a convincersi che “piccolo è
grande”.
Chi ha occhi, dunque, guardi.
Lamberto Pignotti
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