Paolo Albani CARBONI,
La prima di queste Note, la 4617, intitolata appunto Mattoidi, si apre con il riferimento a un certo «Pietro Carbone, commissario di Guerra ecc. scrittore di una infinità di Drammi, tutto scompagnature d’idee. “Lo scotta o tinge” è una raccolta voluminosa di essi». Anche nella Nota 5483 Dossi nomina di nuovo il Carbone definendolo «scrittore di tragedie e commedie pazzesche». In queste due Note Dossi commette un errore di trascrizione; a volte gli succede citando a memoria, come osserva Isella il quale sottolinea che il carattere delle Note somiglia a quello di uno zibaldone a uso dell’autore, non esplicitamente preparato per la stampa, anche se scritto con l’occhio a un eventuale pubblico. In
realtà l’autore citato da Dossi si chiama Raffaello Carboni (Urbino 14 dicembre
1817-Roma 24 ottobre 1875), un personaggio incredibile, un avventuriero la cui
vita sarebbe degna di un romanzo. Attivo nel 1849 negli scontri che portano
alla proclamazione della Repubblica Romana, dopo il fallimento di quest’ultima
Carboni scappa a Hannover e poi a Londra, meta di esiliati politici, dove
consegue la qualifica di traduttore e di interprete per varie lingue (italiano,
francese, inglese, tedesco e spagnolo); nell’agosto del 1852 parte per l’Australia
e due anni dopo lo troviamo a capo della prima rivolta sociale australiana, la
cosiddetta Eureka Stockade, scoppiata
tra i cercatori d’oro; arrestato, al termine del processo, viene scarcerato e
diventa giudice del Local Court
(tribunale popolare); l’oro accumulato e lo stipendio come giudice popolare gli
permettono tre anni di viaggi in India, in Terrasanta e in Egitto; dopo di che
vagabonda tra l’Italia e la Francia; nel 1860 s’imbarca per Palermo e viene
nominato capitano dell’esercito garibaldino; cura la corrispondenza estera di
Francesco Crispi, ministro dell’interno dell’amministrazione garibaldina in
Sicilia; deluso dalla politica dei piemontesi, rientra a Torino dove viene
accettato nella sezione amministrativa dell’esercito regolare con il grado di
sottocommissario di guerra di prima classe; dimessosi dall’esercito, dopo un
breve soggiorno a Parigi e Londra, parte per Napoli campando con il sussidio di
emigrante; infine, ritornato a Roma, s’impiega come interprete presso la Banca
Italo-Germanica e qui, dopo un ricovero all’ospedale di San Giacomo, muore nel
1875 (per una dettagliata biografia di Carboni si veda Desmond O’Grady, Raffaello Carboni garibaldino d’Australia,
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008; esiste anche una
traduzione italiana a cura di Gaetano Rando de La barricata dell’Eureka. Una sommossa democratica in Australia di
Raffaello Carboni, Archivio Guido Izzi, Roma, 2000).
All’attività di patriota e sovversivo, Carboni affianca quella di drammaturgo, poeta e musicista. Come dice Dossi, Carboni scrive un’infinità di drammi, spesso con musica e balletto, molti dei quali raccolti in un libro, diviso in due volumi rispettivamente di 591 e 955 pagine, intitolato Lo scotta-o-tinge (1872-1873) che riesce a pubblicare impegnando al Monte di Pietà due medaglie, un anello d’argento e anche un orologio, pare, donatogli da Garibaldi. Il titolo del libro riprende un’espressione usata dal Carboni per descrivere la prosa mazziniana, ma che ora, giocando sul proprio cognome, applica a se stesso e alle sue opere: «un carbone che, se acceso, scotta, se spento, tinge tutto ciò che tocca». In alcune pagine de Lo scotta-o-tinge compaiono sonetti con acrostico, uno ad esempio è dedicato al suo idolo Giuseppe Garibaldi. Carboni gioca con la lingua anche in altro modo: il testo di una canzone intitolata Sono italiano è disposto in modo da riprodurre graficamente un po’ alla meglio la forma dello stivale italiano, come nella migliore tradizione dei tecnopegnia. Per i suoi scenari s’inventa una topografia fantastica fondendo ad esempio il Pantheon con la chiesa michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli, quasi che, «deluso dalla realtà, stesse creando una città immaginaria con teatri immaginari che mettevano in scena i suoi drammi fantastici per un pubblico inesistente» (O’Grady, cit., p. 222). I drammi del Carboni - dai titoli astrusi: La Santola; Gilburnia; Schiantapalmi ossia che effetto fa il santo sacramento del matrimonio?; Misererio Gnorgnasalmi; Spiantacore, farsa gesuitante-gallicans; La Benedetta, cioè savi e saggi tra pazzi e matti; Squartamorti, gran farsa tutta per piangere dal troppo ridere, atto unico in 24 stanze garibaldi-martelliane; ecc. – sono quasi tutti di ambientazione storica con molti spunti autobiografici; in essi Carboni denuncia i mali dell’Italia che, a suo parere, avrebbe dovuto essere ammorbidita, come il baccalà, «mettendola a mollo a 120 metri di profondità nel Mediterraneo per almeno quaranta giorni e quaranta notti». Nel dramma Schiantapalmi (1867) il protagonista, Nazzareno Schiantapalmi (alter ego del Carboni), racconta di aver visto in Australia «cogli occhi suoi le donne a centinaia nel costume primitivo di Eva» e riferisce che nei boschi australiani «i selvaggi sono abituati a vedersi e godersi giorno e notte»; la marchesa Margherita di Torrestorta esclama scandalizzata: «Allora non hanno alcuna Religione!? avete capito, nessuna Chiesa?», al che Nazzareno risponde: «Certo, manca loro il Duomo di Milano!»; interviene un altro personaggio, il conte Vittorio di Roccaspaldi, asserendo che sarebbe bello organizzare «un ballo prodotto alla Scala di Milano con (!) selvaggine dell’Australia». Nella seconda parte de Lo scotta-o-tinge (1873) c’è una romanza in inglese intitolata «Which were the best» dove il celebre passo dell’Amleto shakespeariano diventa «TO BE OR NOT TO HAVE BEEN?» (Essere o non essere stato?). Presentando La Ceciliana (Napoli 1865), una raccolta di musiche contenente fra gli altri brani come «Don Pirlone, ballata», «Il maggio dell'asino, walzer», «La cacchiatella delle oche sul Campidoglio», «Squillo di tromba per pompa o Tromba: inno di guerra italiano», Carboni scrive: «Oggi, al concorso, per occupare nel Tempio di Apollo, lo scanno tenuto dal Rossini, dal Bellini, dal Doninzetti, dal Pacini, dal Mercadante e dal Verdi, ci vogliono uomini di cranio forte col fegato sano». E si domanda: «Sono i Poeti che ispirano i Maestri; o viceversa poi sono i Maestri che fanno valere i Poeti!?! ITALIA è sazia dello stravecchio “SORRISO DI TRAVIATE” che fa rima col “PARADISO DEL FRATE”; donde la Fede fu stroppiata in “FE’ ” da rimare coll’uno via uno fa TRE; mentre i BELLI OCCHI di Celinda furono stralunati dal poeta in “BEI RAI” da far rima coi “GUAI” della vita, gridando per chi ci “AITA!”». Carboni
si considera un rappresentante del genio italico e ritiene, al pari del
Manzoni, di poter contribuire con i suoi scritti letterari alla causa
patriottica. Eppure i suoi drammi non vengono mai rappresentati. Il garibaldino
d’Australia colleziona una lunga sfilza di rifiuti: solo a Napoli dal Teatro San
Carlo, dal Teatro Fiorentini e dal Teatro del Fondo. Amareggiato da questi
rifiuti commenta: «Un letterato italiano in Italia non campa
la vita col suo talento di letterato; a meno che vi ci si accoppia l’industria
di saper fare anche il ruffiano». Per avere successo - rincara la dose - un
letterato dev’essere un imbroglione ricorrendo a espedienti come quello di
infilare «banconote nelle copie delle opere inviate ai critici». Su un periodico umoristico-letterario milanese, L’uomo di Pietra, esce il 6 aprile 1861
a firma «Sorcio» una feroce stroncatura de La campana della Gancia, una «grande opera-ballo in quattro atti e
quattro cambia-scene» pubblicata da Carboni quello stesso anno a Palermo. Nella
recensione l’anonimo articolista invita i lettori a mettersi comodi e a ridere
dei brani di quell’opera dalla «trama incomprensibile», deride la scelta della
forma poetica e accusa Carboni di non saper scrivere nemmeno in prosa poiché
credendosi poeta «egli vuole sempre fare l’originale»; infine i lettori vengono
avvertiti che, sebbene quel pasticcio possa sembrare una burla, l’autore in
realtà ha avuto intenzioni serie.
Domenica - Il Sole
24 Ore, 75, 17 marzo 2013, p. 27.
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