Paolo Albani

CARBONI,
GARIBALDINO D’AUSTRALIA



 

       


     Di mattoidi, una specie - come direbbero gli zoologi - intermedia tra la vera pazzia e la mente sana, Carlo Dossi si è occupato, oltre che nel noto libretto dedicato ai partecipanti al primo concorso per il Vittoriano (1883), anche nelle Note azzurre. Vi sono in particolare due Note, la 4617 e la 5483, dove il tema viene affrontato sia pure in modo sintetico (si veda l’edizione integrale a cura di Dante Isella pubblicata da Adelphi nel 2010).

     La prima di queste Note, la 4617, intitolata appunto Mattoidi, si apre con il riferimento a un certo «Pietro Carbone, commissario di Guerra ecc. scrittore di una infinità di Drammi, tutto scompagnature d’idee. “Lo scotta o tinge” è una raccolta voluminosa di essi». Anche nella Nota 5483 Dossi nomina di nuovo il Carbone definendolo «scrittore di tragedie e commedie pazzesche». In queste due Note Dossi commette un errore di trascrizione; a volte gli succede citando a memoria, come osserva Isella il quale sottolinea che il carattere delle Note somiglia a quello di uno zibaldone a uso dell’autore, non esplicitamente preparato per la stampa, anche se scritto con l’occhio a un eventuale pubblico.

     In realtà l’autore citato da Dossi si chiama Raffaello Carboni (Urbino 14 dicembre 1817-Roma 24 ottobre 1875), un personaggio incredibile, un avventuriero la cui vita sarebbe degna di un romanzo. Attivo nel 1849 negli scontri che portano alla proclamazione della Repubblica Romana, dopo il fallimento di quest’ultima Carboni scappa a Hannover e poi a Londra, meta di esiliati politici, dove consegue la qualifica di traduttore e di interprete per varie lingue (italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo); nell’agosto del 1852 parte per l’Australia e due anni dopo lo troviamo a capo della prima rivolta sociale australiana, la cosiddetta Eureka Stockade, scoppiata tra i cercatori d’oro; arrestato, al termine del processo, viene scarcerato e diventa giudice del Local Court (tribunale popolare); l’oro accumulato e lo stipendio come giudice popolare gli permettono tre anni di viaggi in India, in Terrasanta e in Egitto; dopo di che vagabonda tra l’Italia e la Francia; nel 1860 s’imbarca per Palermo e viene nominato capitano dell’esercito garibaldino; cura la corrispondenza estera di Francesco Crispi, ministro dell’interno dell’amministrazione garibaldina in Sicilia; deluso dalla politica dei piemontesi, rientra a Torino dove viene accettato nella sezione amministrativa dell’esercito regolare con il grado di sottocommissario di guerra di prima classe; dimessosi dall’esercito, dopo un breve soggiorno a Parigi e Londra, parte per Napoli campando con il sussidio di emigrante; infine, ritornato a Roma, s’impiega come interprete presso la Banca Italo-Germanica e qui, dopo un ricovero all’ospedale di San Giacomo, muore nel 1875 (per una dettagliata biografia di Carboni si veda Desmond O’Grady, Raffaello Carboni garibaldino d’Australia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008; esiste anche una traduzione italiana a cura di Gaetano Rando de La barricata dell’Eureka. Una sommossa democratica in Australia di Raffaello Carboni, Archivio Guido Izzi, Roma, 2000).






  All’attività di patriota e sovversivo, Carboni affianca quella di drammaturgo, poeta e musicista. Come dice Dossi, Carboni scrive un’infinità di drammi, spesso con musica e balletto, molti dei quali raccolti in un libro, diviso in due volumi rispettivamente di 591 e 955 pagine, intitolato Lo scotta-o-tinge (1872-1873) che riesce a pubblicare impegnando al Monte di Pietà due medaglie, un anello d’argento e anche un orologio, pare, donatogli da Garibaldi. Il titolo del libro riprende un’espressione usata dal Carboni per descrivere la prosa mazziniana, ma che ora, giocando sul proprio cognome, applica a se stesso e alle sue opere: «un carbone che, se acceso, scotta, se spento, tinge tutto ciò che tocca».

   In alcune pagine de Lo scotta-o-tinge compaiono sonetti con acrostico, uno ad esempio è dedicato al suo idolo Giuseppe Garibaldi. Carboni gioca con la lingua anche in altro modo: il testo di una canzone intitolata Sono italiano è disposto in modo da riprodurre graficamente un po’ alla meglio la forma dello stivale italiano, come nella migliore tradizione dei tecnopegnia. Per i suoi scenari s’inventa una topografia fantastica fondendo ad esempio il Pantheon con la chiesa michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli, quasi che, «deluso dalla realtà, stesse creando una città immaginaria con teatri immaginari che mettevano in scena i suoi drammi fantastici per un pubblico inesistente» (O’Grady, cit., p. 222).

    I drammi del Carboni - dai titoli astrusi: La Santola; Gilburnia; Schiantapalmi ossia che effetto fa il santo sacramento del matrimonio?; Misererio Gnorgnasalmi; Spiantacore, farsa gesuitante-gallicans; La Benedetta, cioè savi e saggi tra pazzi e matti; Squartamorti, gran farsa tutta per piangere dal troppo ridere, atto unico in 24 stanze garibaldi-martelliane; ecc. – sono quasi tutti di ambientazione storica con molti spunti autobiografici; in essi Carboni denuncia i mali dell’Italia che, a suo parere, avrebbe dovuto essere ammorbidita, come il baccalà, «mettendola a mollo a 120 metri di profondità nel Mediterraneo per almeno quaranta giorni e quaranta notti».

     Nel dramma Schiantapalmi (1867) il protagonista, Nazzareno Schiantapalmi (alter ego del Carboni), racconta di aver visto in Australia «cogli occhi suoi le donne a centinaia nel costume primitivo di Eva» e riferisce che nei boschi australiani «i selvaggi sono abituati a vedersi e godersi giorno e notte»; la marchesa Margherita di Torrestorta esclama scandalizzata: «Allora non hanno alcuna Religione!? avete capito, nessuna Chiesa?», al che Nazzareno risponde: «Certo, manca loro il Duomo di Milano!»; interviene un altro personaggio, il conte Vittorio di Roccaspaldi, asserendo che sarebbe bello organizzare «un ballo prodotto alla Scala di Milano con (!) selvaggine dell’Australia».

     Nella seconda parte de Lo scotta-o-tinge (1873) c’è una romanza in inglese intitolata «Which were the best» dove il celebre passo dell’Amleto shakespeariano diventa «TO BE OR NOT TO HAVE BEEN?» (Essere o non essere stato?).

     Presentando La Ceciliana (Napoli 1865), una raccolta di musiche contenente fra gli altri brani come «Don Pirlone, ballata», «Il maggio dell'asino, walzer», «La cacchiatella delle oche sul Campidoglio», «Squillo di tromba per pompa o Tromba: inno di guerra italiano», Carboni scrive: «Oggi, al concorso, per occupare nel Tempio di Apollo, lo scanno tenuto dal Rossini, dal Bellini, dal Doninzetti, dal Pacini, dal Mercadante e dal Verdi, ci vogliono uomini di cranio forte col fegato sano». E si domanda: «Sono i Poeti che ispirano i Maestri; o viceversa poi sono i Maestri che fanno valere i Poeti!?! ITALIA è sazia dello stravecchio “SORRISO DI TRAVIATE” che fa rima col “PARADISO DEL FRATE”; donde la Fede fu stroppiata in “FE’ ” da rimare coll’uno via uno fa TRE; mentre i BELLI OCCHI di Celinda furono stralunati dal poeta in “BEI RAI” da far rima coi “GUAI” della vita, gridando per chi ci “AITA!”».

       Carboni si considera un rappresentante del genio italico e ritiene, al pari del Manzoni, di poter contribuire con i suoi scritti letterari alla causa patriottica. Eppure i suoi drammi non vengono mai rappresentati. Il garibaldino d’Australia colleziona una lunga sfilza di rifiuti: solo a Napoli dal Teatro San Carlo, dal Teatro Fiorentini e dal Teatro del Fondo. Amareggiato da questi rifiuti commenta: «Un letterato italiano in Italia non campa la vita col suo talento di letterato; a meno che vi ci si accoppia l’industria di saper fare anche il ruffiano». Per avere successo - rincara la dose - un letterato dev’essere un imbroglione ricorrendo a espedienti come quello di infilare «banconote nelle copie delle opere inviate ai critici».

      Su un periodico umoristico-letterario milanese, L’uomo di Pietra, esce il 6 aprile 1861 a firma «Sorcio» una feroce stroncatura de La campana della Gancia, una «grande opera-ballo in quattro atti e quattro cambia-scene» pubblicata da Carboni quello stesso anno a Palermo. Nella recensione l’anonimo articolista invita i lettori a mettersi comodi e a ridere dei brani di quell’opera dalla «trama incomprensibile», deride la scelta della forma poetica e accusa Carboni di non saper scrivere nemmeno in prosa poiché credendosi poeta «egli vuole sempre fare l’originale»; infine i lettori vengono avvertiti che, sebbene quel pasticcio possa sembrare una burla, l’autore in realtà ha avuto intenzioni serie.



Paolo Albani con un (presunto?) discendente di Raffaello Carboni.
Foto scattata a Lucca il 17 marzo 2013 in occasione
dell'inaugurazione del Museo del Risorgimento.



Domenica - Il Sole 24 Ore, 75, 17 marzo 2013, p. 27.
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