Paolo Albani
ENIGMISTICA E LETTERATURA. 

Amene annotazioni 
sull'argutezza di alcuni amabili artifizi






Chi apre il periodo, lo chiuda. 
È pericoloso sporgersi dal capitolo.
Non si risponde degli aggettivi incustoditi.
Per gli anacoluti, servirsi del cestino.
Tenere i soggetti al guinzaglio.

Ennio Flaiano




Com'è noto, nel suo manuale completo (il primo dedicato all'argomento) intitolato Enimmistica del 1901, scritto in collaborazione con Alberto Rastrelli, l'antiquario toscano Demetrio Tolosani distingue una «Enimmografia poetica», comprendente enimmi, bisensi e polisensi, sciarade, incastri e intarsi, anagrammi e logogrifi, bifronti e antìpodi, zeppe e scarti, cambi, scambi, spostamenti, falsi derivati ed altre bizzarrie e giuochi speciali, una «Enimmografia geometrica» relativa a giuochi a base di linee rette, spezzate e curve, ed infine una «Enimmografia crittografica» che riguarda i rebus, le crittografie ed i monoverbi e poliverbi.
In «Appendice» al libro del Tolosani troviamo poi, oltre ad alcuni «vari generi di rompicapo» e «curiosità enimmistico-numerali», un capitolo dedicato specificatamente alle «curiosità enimmistico-letterarie» dov'è possibile leggere una serie gustosa di esempi di versi palindromici, retrogadi, trasportabili, proteiformi, spezzati, alternati, insieme ad altre «piacevoli amenità» scritte in forma di tautogrammi ed a un piccolo campionario di bisticci, scioglilingua e punticci (di scarlattiana memoria).
Prendendo spunto da questi aspetti letterari dell'«Appendice» tolosaniana, nel mio breve intervento vorrei soffermarmi un attimo proprio sul tema stimolante del rapporto tra «enigmistica» e «letteratura», su cui qualcosa si è scritto (specie sulle riviste specializzate), ma che riserva sempre nuovi motivi di riflessione e di rivisitazioni produttive.
In questa sede, in un primo momento, mi riferirò ad un concetto (stavo per dire «definizione», parola terribile!, per fortuna le definizioni non sono pietre inamovibili, ma cambiano e si evolvono nel tempo) di enigmistica un po' più largo di quello che la designa come «l'arte di comporre e risolvere enigmi o indovinelli di vario tipo», considerandola più generalmente come un insieme strutturato di giochi linguistici, come una disciplina (se mi passate il termine accademico) che lavora su ogni possibilità combinatoria del linguaggio a scopi giocosi.
Ecco, nella parola «combinatoria», risiede, a mio avviso, uno dei primi elementi di contatto fra «enigmistica» e «letteratura» (o meglio, per essere più precisi, di un certo tipo di approccio alla «letteratura»).
Quando si parla di «combinazione» a proposito dei giochi di e con le parole viene subito in mente il rapporto magico o comunque curioso che s'instaura fra due parole riconoscibile, secondo una classificazione recentemente ri-formulata da Giampaolo Dossena, come identità (di forma e/o di significato, si pensi ai fenomeni d'omonimia), semi-identità (scritta e/o orale, si pensi al calembour) e rassomiglianza (si pensi alle varie forme di rima e di allitterazione o di tagli e spostamenti che, sfigurando una parola, danno vita a sciarade, palindromi, anagrammi, ecc.) (Giampaolo Dossena, Dizionario dei giochi con le parole, Milano, A. Vallardi, 1994, pp. 104-106).
Non è un caso che, nel tentativo di capire il senso dell'espressione «gioco di parole», Dossena preferisca appoggiarsi al significato più freddo e meccanico di «gioco», quello cioè che lo indica (citazione dal Battaglia e dallo Zingarelli) come «movimento di più organi collegati, funzionamento di un congegno; in un accoppiamento meccanico mobile, spazio residuo fra le due superfici di accoppiamento, movimento consentito da tale spazio».
Ma se il gioco di parola è «un'arte combinatoria», anche la letteratura è una sorta di macchina infernale per produrre testi, un po' come quella che Gulliver scopre nella Grande Accademia di Lagado sull'isola di Balnibarni. Per avvalorare questa tesi, la nostra attenzione deve indirizzarsi verso una famosa conferenza «sulla narrativa come processo combinatorio» tenuta negli anni sessanta da Italo Calvino, poi pubblicata sulle riviste Nuova Corrente e il Caffè
Interrogandosi sul senso della letteratura, Calvino scrive che essa non si risolve in un problema d'ispirazione discesa da chissà quali altezze o d'intuizione pura o di rispecchiamento delle strutture sociali o di presa diretta della psicologia del profondo, come vogliono le varie estetiche del novecento. È piuttosto «un'ostinata serie di tentativi di far stare una parola dietro l'altra seguendo certe regole definite, o più spesso regole non definite né definibili ma estrapolabili da una serie di esempi o protocolli, o regole che ci siamo inventate per l'occasione cioè che abbiamo derivato da altre regole seguite da altri». Ma se la letteratura è un gioco combinatorio che segue le possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente dalla personalità del poeta, va detto anche, aggiunge Calvino, che tale gioco ad un certo punto si carica di significati inattesi, di effetti imprevisti (ciò che Perec chiamava c1inamen), così come accade nel gioco di parole.
La letteratura si eleva allora a sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio, diventa uno strumento per navigare nel mare del non dicibile. La sua linea di forza risiede nel dare la parola a tutto ciò che nell'inconscio sociale o individuale è rimasto non detto. È per questa via di libertà aperta dalla letteratura, attraverso un insieme variegato di giochi combinatori che si vestono di contenuti preconsci, che gli uomini» - conclude Calvino - «acquistano lo spirito critico e lo trasmettono alla cultura e al pensiero collettivo (Italo Calvino, «Cibernetica e fantasmi. (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)», ora in: Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 164-181).
Siamo nel 1967 quando Calvino scrive queste cose. Nel 1961 Francois Le Lionnais, uno dei fondatori dell'OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), nella postfazione ai Cent Mille Millards de Poèmes di Raymond Queneau, parlava già di «letteratura combinatoria» intravedendo per gli esperimenti oulipiani «una via regia che condurrà alle Terre promesse e agli Eldorado del linguaggio» (Ah, l'autore oulipiano! Raymond Queneau l'ha definito: «un topo che costruisce lui stesso il labirinto da cui si propone di uscire»).
Oltre al gioco combinatorio, piacere che avvicina il procedimento della poesia e dell'arte a quello del gioco di parole, come sostiene anche Ernst Gombrich, c'è un ulteriore aspetto che sostanzia lo stretto legame fra enigmistica e letteratura ed è rappresentato dalla loro intrinseca «ambiguità», simbolo del difetto di tutto ciò che presenta un doppio senso.
Per l'enigmistica contemporanea Stefano Bartezzaghi ha parlato, in termini semiotici (potevamo in questa sede non riferirci almeno una volta alla scienza dei segni?) di «sistematica dell'ambiguità» in virtù del fatto che «in ogni testo enigmistico è presente una strutturazione sistematicamente bi-isotòpica [cioè portatrice di due linee di senso] o nell'esposto o nella soluzione, sia che questa strutturazione si configuri in termini di ambiguità semantica, sia che si configuri in termini di manipolazione del significante» (Stefano Bartezzaghi, «Sistematica dell'ambiguità. Appunti di semiotica dell'enigmistica», Versus, 64, gennaio-febbraio 1993, p. 107).
D'altra parte, che il cosiddetto messaggio a funzione estetica (in parole semplici l'opera d'arte, verbale, visiva o musicale) sia anzitutto strutturato in modo ambiguo rispetto a quel sistema di attese che è il codice (linguistico, visivo o musicale a seconda dei casi) e che questa ambiguità sia produttiva in quanto capace di risvegliare la nostra attenzione e di sollecitare il nostro sforzo interpretativo, risulta ormai una delle acquisizioni più consolidate della ricerca semiotica, da Roman Jakobson in poi (Umberto Eco, «Il messaggio estetico», in: La struttura assente, Milano, Bompiani, 19, pp. 61-81).
Al gioco combinatorio e all'ambiguità a noi piace aggiungere un altro anello del mirabile intreccio che lega enigmistica e letteratura. Quale? Vediamolo insieme.
Sull'idea di letteratura combinatoria avanzata da Calvino, ritorna Giambattista Vicàri in un breve scritto su il Caffè in cui fa notare che, se non si vuole produrre soltanto degli automatismi formali di mera tradizione manieristica spingendo il pedale delle permutazioni molteplici, bisogna proporsi sempre di ordire una burla alla ricerca dell'imprevisto, come insegnano Carlo Emilio Gadda, Aldo Palazzeschi, Antonio Delfini e per l'appunto lo stesso Calvino e Queneau (Giambattista Vicàri, «Il significato inatteso», il Caffè, 2-3, 1969, pp. 188-198).
Se dunque il gioco, attività libera ed incerta, improduttiva, regolata e fittizia che mescola competizione, caso, simulacro e vertigine (tanto per rifarci alla canonica distinzione di Roger Caillois), si sposa bene con l'«ars combinatoria» e l'ambiguità dell'enigmistica e della letteratura, il matrimonio, il vincolo d'unione di quest'ultime si rafforza e si rinnova quanto più è presente e viva l'istigazione alla burla di cui parla Vicàri ovvero quanto più si nutre del ricco condimento dell'umorismo, dell'effetto ludico.
È in questa formidabile miscela di «ars combinatoria, ambiguità ed ironia» che il legame fra enigmistica e letteratura, a mio avviso, si accende di una luce più espressiva. Ne sono una prova tangibile l'esperienza letteraria di alcuni «grandi magnetizzatori del linguaggio» come Francois Rabelais, Teofilo Folengo, Ludovico Lepòreo, Lewis Carroll, Alphonse Allais, George Perec.
Se anche il serioso e compassato filosofo Arthur Schopenhauer si è lasciato scappare una frase come questa: «Un negro con gazzella non esita mai nella pioggia», rigorosamente palindroma nella versione originale in lingua tedesca («Ein Neger mit Gazelle zagt im Regen nie»), è facile intuire come grande e sterminato sia il campo degli esempi di «enigmistica» in senso lato, ovvero di poetico trasporto verso i giochi di e con le parole, rintracciabili in letteratura. Di queste «amenità letterarie» esistono belle testimonianze sparse qua e là nelle pagine di alcuni preziosi studi di settore, dalle famose «screziature» (1588) di Estienne Tabouret alle «ricerche sui giochi di spirito, le singolarità e le bizzarrie letterarie principalmente in Francia» (1867) di Alfred Canel fino agli «studi sulla poesia del nonsenso ai limiti della lingua» (1963) di Alfred Liede ed alla «guida oxfordiana ai giochi di parole» (1984) di Tony Augarde, magari passando per i lavori altrettanto utili e pregevoli di Amedeo Scarlatti, Anacleto Bendazzi, Carmelo Privitera e Giovanni Pozzi.
Certo se decidiamo di concentrare lo sguardo su testi di un certo respiro (poesie, racconti o romanzi), esclusivamente costruiti sulla base di qualche «artificio linguistico», e tralasciamo i semplici omaggi, le scappatelle passeggere, le fugaci incursioni compiute sporadicamente da alcuni letterati nei praticelli invitanti dei giochi di parole, cioè se focalizziamo il nostro interesse solo su quelle opere, o macro-testi organicamente elaborati in modo «enigmistico», allora dobbiamo dire che il campo d'indagine si restringe molto.
Restano sul terreno le perle ormai note che costituiscono la delizia dei palati golosi di «chicche letterarie». Per tutti valgano gli esempi dell'Iliade mancante in ogni libro di una certa lettera, scritta dal licio Nestore di Laranda nel III secolo, antesignano di quell'impresa insuperabile e disperata della «disparition» perechiana, a sua volta anticipata dal romanzo di 267 pagine intitolato Gadsby uscito nel 1939 dalla penna di Ernst Vincent Wright, anch'esso completamente privo della lettera E.
Per non parlare, in epoca più recente, del fascino di alcuni romanzi segnati da un percorso narrativo fortemente strutturato come La vie mode d'emploi (1978) di Georges Perec, Se un notte d'inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino, La belle Hortense (1985) di Jacques Roubaud oppure Cigarettes (1988) di Harry Matthews.
Alle più note e discusse «acrobazie letterarie» ci permettiamo in questa sede di fare una piccola aggiunta, per illuminare le attività di alcuni affascinanti giocolieri della parola.
Nel 1869 esce a Londra un libro intitolato Robinson Crusoe in words of one syllable. L'autrice è una certa Mary Godolphin, pseudonimo della scrittrice inglese Lucy Aikin (1781-1864). Il libro è una riduzione dell'omonimo romanzo di Daniel Defoe, composta esclusivamente, salvo un paio di nomi propri, di parole monosillabiche. Ecco un breve esempio della lingua monosillabica usata dalla Godolphin:

We were not more than twelve days from the Line, when a high wind took us off we knew not where. Ali at once there was a cry of «Land!» and the ship struck on a bank of sand, in which she sank so deep that we couid not get her off.

Non contenta di questa «bravata», degna di un impenitente oulipiano, la Godolphin insiste e scrive altri due libri ancora in versione monosillabica: Sandford and Merton, in words of one syllable (1868?) e The pilgrim's progress, in words of one syllable (1884), entrambi pubblicati a New York.
Proseguiamo con una rapida visita sul pianeta del futurismo russo. Nel 1920 Velemir Vladímirovic Chlébnikov, uno dei più rappresentativi poeti dell'avanguardia russa, inventore della cosiddetta «zaum'», lingua trasmentale, priva di regole grammaticali, di prescrizioni sintattiche, di convenzioni semantiche e di norme stilistiche, creata per esprimere le emozioni e le sensazioni primordiali che vanno perdute nei significati della lingua comune, scrive un poema intitolato Razin (nome del famoso capo cosacco Stefan Timofeevic Razin, detto Sten’ka) composto di quattrocento versi palindromi. È un vero e proprio exploit, le cui avvisaglie si erano già manifestate in una poesia pubblicata da Chlébnikov nel 1913 con il significativo titolo di Pereverten’, cioè «palindromo», e che inizia con questo verso: «Koni, topot, inok», cioè «Cavalli, scalpiccìo, frate».
Concludiamo infine con la storia di Henry Legrand, un architetto francese vissuto nella prima metà del secolo scorso, che ci porta sul versante dell'enigmistica che si occupa delle scritture segrete. Ecco di cosa si tratta, in modo succinto. Dopo la morte di Juana, una nobile castigliana conosciuta in gioventù e di cui è follemente innamorato, Legrand conosce una misteriosa «Adèle de M.» che plagia aggiustandone gradualmente la personalità sull'immagine di Juana. A poco a poco, Legrand riesce a coinvolgere una ristretta schiera di accolite al culto dell'amata scomparsa. Egli tramuta il suo amore in una vera ossessione scrittoria: copia tutte le lettere e missive a Juana in una serie di diari (scritti fra il 1835 ed il 1865), in tutto 45 volumi (ripeto 45 volumi!) con più di 15.000 pagine, trascrivendo il timbro, il francobollo e persino gli eventuali errori di scrittura in una lingua da lui inventata denominata «sanscrito». Nel 1838 il gruppo si trasforma in un vero e proprio circolo segreto, il «Cercle amoureux», i cui membri sono uniti in primo luogo dall'uso della lingua iniziatica e misteriosa inventata da Legrand. La «chiave» dei diari di Legrand rimane un mistero per almeno una quarantina d'anni. Fino a quando, lo scrittore francese Pierre Louÿs (un motivo in più per includere il caso Legrand nel rapporto «enigmistica»-«letteratura») non riesce a decrittare l'enigmatico codice formato da due diverse «lingue»: due alfabeti differenti, di cui uno, composto di 352 caratteri, è ispirato all'arabo, mentre l'altro, comprendente 100 caratteri, alla scrittura sanscrita.
Se in un'accezione larga di «enigmistica», a cui ci siamo attenuti in questa sede, possiamo infine far rientrare il gioco delle «lingue immaginarie» (una mia passione!), specie di quelle elaborate a scopo ludico, lingue che esaltano la parola come «fastello di suoni e polline di sogni», quasi fosse una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, estraendone fiumi di sapori e delizie, allora vorremmo chiudere questo intervento con i versi di una poesia di Fosco Maraini intitolata «Il giorno ad urlapicchio», tratta dal suo libro Gnòsi delle Fànfole:

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col ciclo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi 
che plògidan sul mondo infrangelluto;

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi 
un giorno tutto gnacchi e timparlini 
le nuvole buzzìlano, i bernecchi 
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

Grazie per la vostra attenzione e buon lavoro.
 

Relazione al LIV Congresso Enigmistico, Campitello Matese, settembre 1995.




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