Paolo Albani
IL PICCOLO ONANISTA

  

I compagni di scuola lo avevano soprannominato «mano svelta», per quel vizietto che aveva di toccarsi ovunque si trovasse, di toccarsi come un forsennato e in qualunque circostanza, anche in classe, durante le ore di lezioni, nel bel mezzo della spiegazione di un teorema matematico o del commento di un sonetto del Petrarca, nascosto nell’ultimo banco, con un’irruenza e una velocità che avevano dell’insolito, dell'esagerato.
   Una mattina la professoressa Mingozzi, che leggeva un passo della Divina Commedia, l’episodio di Paolo e Francesca, si azzittì di colpo, stop, senza una ragione, e allora nell’aria si sentì un mugolio strano che veniva dal fondo dell’aula, un sospiro affannoso, come di uno che sta camminando svelto e è in ritardo a un appuntamento. Tutti si voltarono a guardare verso l’ultimo banco e videro, semi-nascosto da una pila di libri e di quaderni arricciati, Giampiero che oscillava avanti e indietro, in modo frenetico, gli occhi socchiusi, con un’espressione rapita, che sembrava un santo in estasi. Quel giorno, Giampiero, detto «mano svelta», fu sospeso per quindici giorni.
   La madre di Giampiero, che da sola gestiva una lavanderia a ***, era una brava donna. Cercava sempre di giustificare il figlio, di non fargli pesare quella ridicola ossessione. «È come una malattia», diceva sfogandosi con i parenti. «Da grande, poi, gli passerà. Sono bambinate». 
   Quando lo trovava chiuso nel bagno, in ore insolite, e sospettava si stesse toccando come un forsennato, gli sussurrava preoccupata alla porta: «Fai con calma, Giampierino, nessuno ti rincorre. Fai con calma!»
   Lo portò anche da un medico, uno specialista in cose del sesso, per quanto allora, nel 1855, Freud e la psicoanalisi non erano ancora nati, e di quei problemi «imbarazzanti» si davano spiegazioni approssimate, un po’ superficiali. «Il bambino ha carenze affettive», disse subito il medico. «Gli manca il padre, non ha fratelli né sorelle e io lavoro sodo tutto il giorno», si giustificò la madre, senza nascondere una punta di fiero risentimento, colpita da quella sentenza gettata lì in tono perentorio, che investiva uno degli aspetti più delicati e sensibili della figura materna, quello protettivo.
   Più volte il parroco di *** prese Giampiero per un orecchio e lo trascinò a casa, consegnandolo di persona alla madre, infuriato perché l’aveva sorpreso a masturbarsi dentro il confessionale, con le tendine chiuse, o in un angolo della sacrestia, poco prima dell’inizio della messa, vestito da chierichetto, o al catechismo. «Che svergognato! Commettere atti impuri nella casa di Dio! Animale!» sbraitava il parroco, roteando gli occhi arrossati come un diavolo.
   Con il passare del tempo le esibizioni masturbatorie di Giampiero si acuirono e diventarono sempre più frequenti e bizzarre. Lo trovarono che si masturbava nel bagno di un orfanotrofio, dov’era andato a accompagnare la zia Adelina che dava una mano alla locale «S. Vincenzo de Paoli»; fece scappare una ragazzina che lo vide armeggiare, eccitato e goffo, in mezzo alle gambe, mentre giocavano sull’erba dei giardini pubblici insieme a altri coetanei; scandalizzò una suora svizzera che gli parlava, senza guardarlo in volto, del «buon cuore di Gesù» e si accorse troppo tardi, con la coda dell’occhio, che il ragazzo aveva i pantaloncini abbassati e ondeggiava paurosamente; senza parlare di quando lo pizzicarono a fare il «su e giù» che tanto amava nella biblioteca del conte La Manna, e poi su un albero, in spiaggia, nel retrobottega del fabbro di ***, e ancora dietro lo scaffale di una merceria, nella stalla del padre di un compagno di scuola, vicino ai binari della stazione, in montagna sopra un ponte sospeso. «Stava lì a accarezzarsi il pistolotto con una mano e con l’altra si dondolava nel vuoto» raccontò un signore che intervenne a bloccarlo.
   Lui, per altro, non faceva nulla per nascondere quelle prestazioni spudorate. Il fatto di essere considerato uno di «mano lesta» non gli creava alcun senso di vergogna. Anzi, a dire il vero, gli piaceva. Di più, sembrava ci prendesse gusto a farsi sorprendere mentre si toccava con la veemenza di uno stantuffo ben oleato. La cosa lo divertiva, in quei momenti si sentiva al centro dell’attenzione.
   «Così non può andare avanti!» sbottò un giorno zia Adelina, vedendo che la sorella, la madre di Giampiero, non muoveva un dito per rimediare a quella situazione penosa, anzi si ostinava a darle tutte vinte al figlio esibizionista, diventato ormai lo zimbello del paese, guardato in giro come un povero mentecatto.
   Per sottrarlo alla gogna del ridicolo e evitargli ulteriori dispetti, Giampiero venne allontanato da scuola. La madre se lo prese a lavorare in lavanderia. Qualche tempo dopo quella sofferta decisione, la donna fu avvicinata da alcuni clienti che si lamentarono di aver trovato delle piccole chiazze giallastre sui panni lavati e stirati. Lei si scusò, imbarazzata, dando la colpa alla cattiva qualità della pomice con cui si pulisce il ferro da stiro, ma in cuor suo capì bene a cosa erano dovute quelle macchie sospette. Tuttavia non disse nulla al figlio, per non ferirlo e metterlo in agitazione; si limitò solo a aumentare i controlli dei panni in uscita.
   Ciò che accadde nel marzo del 1857, un giovedì pomeriggio, nella lavanderia di *** è ormai entrato, senza indulgere alla retorica, nella «leggenda». Giocando da solo, come gli capitava spesso, con una rudimentale palla di stracci, a un tratto il piccolo Giampiero perse l’equilibrio e urtò una grossa pentola di acqua bollente che gli cadde addosso investendolo in pieno. Lo schizzo d’acqua caldissimo gli procurò ustioni devastanti un po’ su tutto il corpo e, cosa più grave, gli fece perdere la vista.
   Quando si sparse la voce che il ragazzo era rimasto cieco, gli abitanti di ***, parroco in testa, si mostrarono non sorpresi della tragedia. Qualcuno commentò amaramente: «C’era d’aspettarselo!». Quasi tutti videro in quell’incidente un segno inequivocabile del destino: una sorta di punizione biblica per la scabrosa pratica di Giampiero, il giusto castigo che deve abbattersi su tutti gli inguaribili attivisti del piacere solitario. 

settembre 2002

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