Paolo Albani
LA LETTER
ATURA POTENZIALE
ALCUNE NOTE SPARSE
Appunti (non completi) per il mio intervento
IMMAGINAZIONE E
CREATIVITÀ
REGOLATA
NELLA POETICA DELL'OULIPO
(CON PERFORMANCE DI
POESIA OPLEPIANA)
tenuto il 26 maggio 2004
al Seminario su
Linguaggio figurato,
immaginazione
e creatività
presso il Corso di Laurea
di Filosofie e Scienze della Comunicazione e della
Conoscenza
della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università di Cosenza.
Per leggere la versione completa
di questi appunt in pdf cliccate qui.
L’OuLiPo (Ouvroir de
Littérature Potentielle,
tradotto
in italiano con Opificio di Letteratura Potenziale; propriamente ouvroir
in francese designa il laboratorio di cucito in un convento di monache
o in un istituto di beneficenza) è «una singolare
consorteria
di letterati, dediti a escogitare bizzarre invenzioni partendo da
regole
formali severamente costrittive, improntate a uno spiccato gusto
matematizzante»
(Mario Barenghi, «Poesie e invenzioni oulipiennes», in:
Italo
Calvino, Romanzi e racconti, 3 voll., Milano, Mondadori, 1994, III, pp.
1239-1245).
Storicamente il gruppo - «una specie di società
segreta» (Italo Calvino, «Perec, gnomo e cabalista», la
Repubblica, 6 marzo 1982, p. 18) - composto di letterati con la
passione
della matematica e di matematici con la passione della letteratura,
è
fondato nel 1960 a Parigi, un giovedì, 24 novembre, nella
cantina
del ristorante «Vrai Gascon» (Vero Guascone) da
François
Le Lionnais e Raymond Queneau, e nasce nell’ambito di una delle
numerose
Sottocommissioni di Lavoro del Collegio di ‘Patafisica, accademia dello
sberleffo e della fumesteria istituita l’11 maggio 1948 sempre a Parigi
da un cenacolo di letterari, artisti e poeti depositari della
‘patafisica,
scienza delle soluzioni immaginarie, del particolare e delle leggi che
governano le eccezioni, teorizzata da Alfred Jarry in Gestes et
opinions
du docteur Faustroll. Pataphysicien. Roman néo-scientifique
pubblicato postumo nel 1911.
Fra i membri del gruppo vi sono Marcel Duchamp, il surrealista
Noël Arnaud, grande specialista di Jarry e di Boris Vian,
André
Blavier, che ha scritto un bellissimo libro sui «fous
littéraires»,
Italo Calvino, Harry Mathews, Georges Perec, Jacques Roubaud.
Il carattere “potenziale” della letteratura praticata dall’OuLiPo
risiede
nel fatto che si tratta di una letteratura ancora inesistente, ancora
da
farsi, da scoprire in opere già esistenti o da inventare
attraverso
l’uso di nuove procedure linguistiche, una letteratura mossa dall’idea
che la creatività, la fantasia trovano uno stimolo nel rispetto
di regole, di vincoli, di costrizioni (contraintes) esplicite,
come
ad esempio quella di scrivere un testo senza mai usare una determinata
lettera (lipogramma). La costrizione è strumento creativo, che
amplifica
le possibilità (probabilità) di raggiungere soluzioni
originali,
bizzarre: l’essere «costretti» a seguire certe regole
induce
uno sforzo di fantasia; la costrizione non restringe l’orizzonte delle
strategie narrative dello scrittore, al contrario ne allarga le
«potenzialità
visionarie», paradossalmente è «un inno alla
libertà
d’invenzione», capace, come «il meccanismo più
artificiale»,
«di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e
più segreti» (Italo Calvino, «Perec, gnomo e
cabalista», la
Repubblica, 6 marzo 1982, p. 18).
«Occorre crearsi delle costrizioni,» - ha detto Umberto
Eco - «per potere inventare liberamente» (Umberto Eco,
«Postille
a "Il nome della rosa" 1983» in: Il nome della rosa,
Milano,
Bompiani, 2004, pp. 505-533). E ancora: «Le costrizioni sono
fondamentali
per ogni operazione artistica. Sceglie una costrizione il pittore che
decide
di usare l'olio piuttosto che la tempera, la tela piuttosto che la
parete;
il musicista che opta per una tonalità di partenza (poi
modulerà,
modulerà, ma è a quella che dovrà pur tornare); il
poeta che si costruisce la gabbia della rima baciata o
dell'endecasillabo.
E non crediate che pittore, musicista o poeta d'avanguardia - che
paiono
evitare quelle costrizioni - non se ne costruiscano delle
altre.
Lo fanno, solo non è detto che voi ve ne dobbiate accorgere.
Può
essere una costrizione scegliere come schema per la successione degli
eventi
quello delle sette trombe dell'Apocalisse. Ma anche situare la storia
in
una data precisa: potrai fare accadere certe cose ma non altre. [...]
Il
bello della storia è che ti devi creare delle costrizioni, ma
devi
sentirti libero nel corso della stesura a cambiarle» (Umberto
Eco,
«Come scrivo», in Sulla letteratura, Milano
Bompiani,
2002, pp. 324-359, si cita da pp. 346-347).
In una conferenza del 1964
sull'OuLiPo, Queneau ci dice
prima
di tutto che cosa non è l'Opificio:
«1) Non è un
movimento o una scuola letteraria.
Noi ci
poniamo al di qua del valore estetico, il che non significa che lo
disprezziamo.
2 ) Non è neppure un seminario scientifico, un gruppo di lavoro
"serio" tra virgolette, benché ne facciano parte un professore
della
Facoltà di lettere e uno della Facoltà di scienze.
Perciò
sottoporrò i nostri lavori al gentile pubblico in tutta
modestia.
Infine: 3) Non si tratta di letteratura sperimentale o aleatoria (sul
tipo, per esempio, di quella praticata dal gruppo di Max Bense a
Stoccarda
[Queneau allude al saggista e poeta tedesco Max Bense (1910-1999), di
formazione
scientifica, che ha introdotto criteri propri delle scienze esatte
nell'ambito
dell'estetica e della teoria letteraria; autore di Estetica
(1954-1960)
e Teoria testuale della poesia (1962) e di un testo poetico
intitolato I
divertimenti esatti, Bense ha influenzato la letteratura
sperimentale
degli anni '50 e '60; Bense ha scritto degli «aforismi
ultrakafkiani»
ottenuti programmando un computer con una scelta statisticamente
significative
di parole e frasi tratte dall'opera di Kafka; due «poesie
concrete»
di Bense si possono vedere in Vincenzo Accame, Il segno poetico,
Milano, Spirali Edizioni, 1981, p. 55 e p. 56, n.d.r.])»
(Raymond
Queneau, «L'Opificio di letteratura potenziale», in: Segni,
cifre e lettere e altri saggi, Torino, Einaudi, 1981, pp. 56-73).
Poi aggiunge:
«Adesso dirò che cos'è, o meglio che cosa crede
di essere l'OuLiPo. Le nostre ricerche sono:
1) Ingenue: uso la parola ingenuo nel suo senso peri-matematico
[dal greco perí, cioè "intorno"], come ci dice la
teoria ingenua degli insiemi. Procediamo senza troppo sottilizzare.
Cerchiamo
di dimostrare il movimento camminando.
2) Artigianali, ma questo non è fondamentale. Ci
dispiace
di non poter disporre di macchine: lamento continuo nel corso delle
nostre
riunioni.
3) Divertenti: almeno per noi. Certuni le trovano di una
"sordida
noia", ma questo non dovrebbe spaventarvi perché non siete qui
per
divertirvi.
Insisterò tuttavia sul qualificativo "divertente". È
certo che alcuni nostri lavori possono sembrare dei semplici scherzi o
semplici "jeux d'esprit", analoghi a certi "giochi di
società"».
Lo scopo dei lavori dell'Oulipo,
per dirla sempre con Queneau,
è
quello di «proporre agli scrittori nuove “strutture”, di natura
matematica
oppure inventare nuovi procedimenti artificiali o meccanici,
contribuendo
all’attività letteraria: supporti dell’ispirazione, per
così
dire, oppure, in un certo senso, un aiuto alla creatività»
(Raymond Queneau, «L'Opificio di letteratura potenziale»,
in: Segni,
cifre e lettere e altri saggi, Torino, Einaudi, 1981, pp. 56-73).
Qui, nell'Oulipo, ha scritto Calvino, «domina il divertimento,
l'acrobazia dell'intelligenza e dell'immaginazione. [...] Queneau e i
suoi,
amici della scienza, [...] pensano e parlano attraverso ghiribizzi e
capriole
del linguaggio e del pensiero» (Italo Calvino, «Due
interviste
su scienza e lette-ratura», in: Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 184-191).
Il metodo dell'OuLiPo - precisa ancora Calvino - si sostanzia nella
qualità delle sue regole; quello che conta è la loro
ingegnosità,
la loro eleganza; se alla qualità delle regole
corrisponderà
subito la qualità dei risultati, delle opere ottenute per questa
via, tanto meglio, ma comunque l'opera non è che un esempio
delle
potenzialità raggiungibili solo attraverso la porta stretta
delle
regole. Ogni esempio di testo costruito secondo regole precise apre la
molteplicità «potenziale» di tutti i testi
virtualmente
scrivibili secondo quelle regole, e di tutte le letture virtuali di
quei
testi. In questo senso, per Calvino, «la struttura è
libertà,
produce il testo e nello stesso tempo la possibilità di tutti i
testi virtuali che possono sostituirlo» (Italo Calvino,
«Introduzione»
a Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere e altri saggi,
Torino,
Einaudi, 1981, pp. III-XXIII).
A proposito delle poesie di Toti Scialoja, attraversate in modo etereo
dal gioco delle rime, osserva Giovanni Raboni: «La costrizione,
la
gabbia formale continua a essere fino all'ultimo, per lui (cioè
per Scialoja, n.d.r.), salvezza, orientamento, rifugio» (Giovanni
Raboni, «Prefazione», in: Toti Scialoja, Poesie
1961-1998,
Milano, Garzanti, 2002, p. 9).
«Ai miei occhi», scrive Robert Walser in un diario del
1926, «quando si è intenti a scrivere di qualcosa che si
è
vissuto in prima persona, l’obbligo di imporsi una certa apparentemente
tollerabile costrizione, per ciò che riguarda la forma e
così
via, appare come qualcosa senza dubbio accettabile» (Robert
Walser, Diario
del 1926, Genova, il melangolo, 2000, p. 50).
Nel paragrafo intitolato
«Contrainte et
liberté»
del saggio inedito La chose, Georges Perec afferma che
«costrizione
e libertà definiscono i due assi di ogni sistema estetico.
Questa
figura spaziale (ascisse, ordinate) dimostra sufficientemente che
costrizione
e libertà sono funzioni indissociabili dall'opera: la
costrizione
non impedisce la libertà, la libertà non è
ciò
che non è la costrizione; al contrario, la costrizione è
ciò che permette la libertà, la libertà è
ciò
che nasce dalla costrizione. Alcuni sistemi sembra propendano
più
dalla parte della costrizione (per esempio il sonetto, il romanzo
epistolare,
la fuga, la statua equestre), altri più dalla parte della
libertà
(per esempio «l'ope-ra», che sia racconto, poesia, tela,
numero
d'opera, numero di catalogo ecc.) ma questa distinzione è
artificiale:
qualsiasi pezzo di letteratura passa attraverso una serie di
costrizioni
lessicali, sintattiche, retoriche e criptoretoriche; [...] Non esiste
un
sistema più o meno libero o più o meno costretto,
per-ché
costrizione e libertà rappresentano precisamente il sistema; si
può, tuttavia, misurare il grado di compiutezza (o di perfezione
se si preferisce) di un sistema sulla base del rapporto
costrizione-libertà,
o, in altri termini, a livello della sovversione che tale sistema
consente.
"Il genio" diceva Klee "è l'errore nel sistema": più dura
è la legge, più l'eccezione è eclatante,
più
stabile è il modello e più s'impone la deviazione»
(«La Chose», magazine littéraire, 316,
décembre
1993, pp. 55-64, trad. it. in Musica Jazz, 6, giugno 2004, pp.
56-60).
Lo stesso concetto Perec ribadisce in una conferenza tenuta
all'Università
di Copenaghen il 29 ottobre 1981 dove la «contrainte» -
viene
sottolineato - non è percepita come una prova o una restrizione,
ma bensì come uno stimolo alla creatività, al pari di
«una
pompa, una pompa aspirante grazie alla quale, attraverso l'esercizio
della
costrizione, si arriva a produrre qualcosa». Perec nota che in
inglese
si distingue fra constraint (dall'antico francese
«constraindre»)
dove è la nozione di obbligo che domina, e restraint
(dall'antico
francese «restraindre») dove domina quella di limite
(Georges
Perec, «Création et contraintes dans la production
littéraire»,
in: Entretiens et conférences, volume II 1979-1981,
Mayenne,
Joseph K, 2003, pp. 307-323; sullo stesso tema si veda anche Marc
Lapprand,
«L'imagination au service de la contrainte» in: Poétique
de l'Oulipo, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1998, pp. 55-58).
Nella stessa conferenza Perec riporta questa definizione, «molto
elegante», dello scrittore oulipiano, attribuendola a Calvino:
«ci
sono dei corridori a piedi che si chiamo sprinters (velocisti),
che sono molto, molto bravi quando corrono in linea dritta sui cento
metri;
ne esistono altri che sono migliori quando, sulla pista, essi mettono
degli
ostacoli, si chiamano i corridori a ostacoli - 110 metri ostacoli, 400
metri ostacoli, ecc. In effetti, l'oulipiano fa un po' la cosa
seguente...
per arrivare a scegliere quello che vuole, comincia mettendo un certo
numero
di ostacoli sul cammino che lo conduce a ciò che cerca, e questi
ostacoli si chiamano costrizioni, regole». Un'altra definizione,
continua Perec, è questa: «Un Oulipiano è uno
scrittore
non jourdainiano». Ma chi è uno scrittore jourdainiano?
È
un signore che, come Monsieur Jourdain, fa della prosa senza saperlo -
vedi Il borghese gentiluomo. «Ora, un Oulipiano è
qualcuno
che vorrebbe fare della prosa sapendo di farla». Un'ultima
definizione,
fra le più illuminanti, dell'Oulipiano di cui parla Perec nella
sua conferenza dice: «l'Oulipiano si comporta, nei confronti del
linguaggio e della letteratura, della scrittura, delle forme del
passato,
un po' come un bambino a cui si è dato una sveglia. Il bambino
smonta
la sveglia per sapere come funziona. Io credo che si provi a fare la
stessa
cosa con il linguaggio. Si prova a smontarlo per vedere come funziona e
cosa c'è dentro che permette di funzionare e di arrivare a
ciò
che si cerca».
Detto questo sulla
«contrainte», non bisogna
dimenticare
che esiste sempre la possibilità di «une
légère
dérive» in grado di distruggere il sistema stesso delle
costrizioni,
uno scarto giocoso e liberatorio che Perec ha chiamato clinamen
(nella fisica epicurea, una deviazione spontanea degli atomi).
Già
in Alfred Jarry troviamo un riconoscimento dell'importanza de «la
bête imprévue Clinamen» di Epicuro, filosofo che per
primo ha osato mettere «un'indeterminazione» al centro di
ogni
possibile spiegazione del mondo.
Se la letteratura è un gioco combinatorio che segue le
possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente
dalla
personalità del poeta, va detto anche, con Calvino, che tale
gioco
ad un certo punto si carica di significati inattesi, di effetti
imprevisti
(il clinamen perechiano), come nel procedimento del gioco di
parole.
La letteratura non si risolve in un problema d'ispirazione discesa
da chissà quali altezze o d'intuizione pura o di rispecchiamento
delle strutture sociali o di presa diretta della psicologia del
profondo,
come vogliono le varie estetiche del novecento. Essa, come sottolinea
Calvino,
è piuttosto «un'ostinata serie di tentativi di far stare
una
parola dietro l'altra seguendo certe regole definite, o più
spesso
regole non definite né definibili ma estrapolabili da una serie
di esempi o protocolli, o regole che ci siamo inventate per l'occasione
cioè che abbiamo derivato da altre regole seguite da
altri».
Nel sottolineare la propria differenza dal Surrealismo, l'OuLiPo mette
in evidenza l'opposizione oulipiana a tutti gli aspetti di apertura
verso
l'inconscio legati, ad esempio, alla pratica della scrittura
automatica.
In uno scritto intitolato «Avanguardia letteraria» (ne Il
rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi, 1994, pp. 72-77),
Giorgio
Manganelli definisce gli scrittori d’avanguardia «puntigliosi
escogitatori
di artifici, un poco pedanti, intelligenze naturalmente inclini agli
aspri
e lucidi gaudi dell’acrostico, dei tecnopegnia, dei glifi, intenti agli
austeri estri combinatori del linguaggio», definizione che
aderisce
bene a quella dello scrittore di letteratura potenziale.
Per Manganelli gli scrittori d’avanguardia sono «letterati in
quanto fanno letteratura d’artificio», a suo dire «l’unica
che sia legittimamente denominabile letteratura. L’amore delle
combinazioni
improbabili, la scelta e la coltivazione di sintassi ostiche, ardue,
inospiti;
insomma, la scelta delle strutture, di strutture arbitrarie e
rigorose».
L’idea manganelliana di «una letteratura come artificio; fatto
non
sentimentale, non privato, e nemmeno demonico, non morale, non sociale,
ma sommamente arbitrario e, insieme, rigoroso» è molto in
sintonia con quella oulipiana.
«A mio avviso» - continua Manganelli -«si dà
propriamente letteratura solo dove ci troviamo di fronte a strutture
[...]
Non si scrivono poesie e romanzi per parlare direttamente al lettore,
né
per coprirlo della tenera fanga dei nostri sentimenti, né per
educarlo
a nobili sentimenti: ma, al contrario, perché, pur leggendo
parole
che potrebbero essere in diversi contesti anche sentimentalmente
attive,
le scorga nel loro valore strutturale, come ordine, disegno, organismo
impersonale; anche macchina». In conclusione - scrive Manganelli
- «la letteratura, ben lungi dall’esprimere la ‘totalità
dell’uomo’,
non è espressione, ma provocazione; non è quella
splendida
figura umana che vorrebbero i moralisti della cultura, ma è
ambigua,
innaturale, un poco mostruosa. Letteratura è un gesto non solo
arbitrario,
ma anche vizioso: è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un
lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico,
provocatorio».
Un piccolo aneddoto a proposito della struttura: una volta Roal
Hoffmann,
premio Nobel per la chimica nel 1981, chiese a Elias Canetti, laureato
in chimica, che cosa avesse preso dalla chimica, e Canetti
rispose:
«La struttura, il senso della struttura».
Certo, se non si vuole produrre soltanto degli automatismi formali
di mera tradizione manieristica spingendo il pedale delle permutazioni
molteplici, bisogna - come ammonisce Giambattista Vicàri,
promotore
di quel formidabile laboratorio culturale che fu la rivista il
Caffè -
proporsi sempre di ordire una burla alla ricerca
dell'imprevisto,
come insegnano Carlo Emilio Gadda, Aldo Palazzeschi, Antonio Delfini e
per l'appunto Calvino e Queneau.
Gli scrittori oulipiani sono dei «topi che costruiscono da
sé
il labirinto da cui si propongono di uscire». Quale labirinto?
Quello
delle parole, dei suoni, delle frasi, dei paragrafi, dei capitoli, dei
libri, delle biblioteche, della prosa, della poesia.
Come scrive Le Lionnais nei due Manifesti (1973) di letteratura
potenziale, l’OuLiPo si propone di intraprendere un lavoro, sistematico
e scientifico, sull’efficacia e la vitalità delle strutture
letterarie
e artistiche artificiali. Nelle ricerche - ingenue, artigianali e
divertenti
- dell’Opificio si possono distinguere due tendenze principali: una analitica
che si applica a opere del passato per cercarvi possibilità
spesso
insospettate dagli autori e una sintetica rivolta ad aprire
nuove
vie, ignote agli scrittori precedenti, grazie all’aiuto di tecniche
matematiche
ed esplorando tutti gli aspetti formali della letteratura: costrizioni,
programmi alfabetici, consonantici, vocalici, sillabici, fonetici,
prosodici,
rimici, ritmici e numerici.
Queneau insiste sul carattere «divertente» dei
«giochi
oulipiani» perché diverte chi stupisce ovvero chi riesce a
mostrare un aspetto sorprendente, inatteso, nuovo, inusitato del codice
linguistico, generando nel lettore sorpresa e spaesamento,
concetti cari ai surrealisti e ai formalisti russi. Il carattere
divertente
è sottolineato anche in uno dei primi testi antologici del
gruppo,
dove si parla di ri-creazioni (con la lineetta) e ricreazioni
(senza la lineetta) (Oulipo, La littérature potentielle.
(Créations
Re-créations Récréations), Paris, Gallimard,
1973).
C'è da aggiungere che le costrizioni, oltre che visibili
e invisibili, esplicite e implicite, dichiarate
e nascoste, possono essere molli e dure, a
seconda
del grado di difficoltà che comportano.
Lo spirito che contraddistingue gli «esercizi letterari»
dell’OuLiPo è molto vicino a quello che presiede la creazione
dei
“ready made” di Marcel Duchamp che, per altro, fu membro corrispondente
del gruppo francese e morì oulipiano. Come si è detto,
nell’officina
oulipiana si parte spesso da un testo “già fatto”, “trovato”,
esistente,
per metterne in luce le proprietà latenti, i significati
potenziali
attraverso varie tecniche combinatorie. Per Marcel Duchamp anche i
giochi
di parole sono dei “ready made”, delle presenze oggettive, “trovate”,
il
cui senso, al di là dell’apparenza banale, va ricavato e che,
pur
restando latente, conferisce all’oggetto come alla frase quell’aura che
lo nobilita. Con i giochi di parole Duchamp vuole riscattare la parola
scontata, ovvia, mostrandone la bellezza attraverso un processo di
spostamento
più o meno astratto: introducendo una parola familiare in
un’atmosfera
diversa, si ottiene qualcosa di paragonabile alla distorsione in
pittura,
qualcosa di sorprendente e di nuovo, significati inattesi collegati
all’interrelazione
di parole disparate. Al pari dell’accostamento di due oggetti
differenti
(come una ruota e uno sgabello), così anche quello fra due
parole
diverse provoca degli effetti di sorpresa innescando un cortocircuito
della
fantasia capace di mettere in luce le proprietà latenti di una
parola
o di un giro di frase.
In una lettera a Guido Almansi del 19 febbraio 1974, François
Le Lionnais riassume così l'attività dell'OuLiPo:
«I
nostri esercizi si collocano nel duplice segno di una grande fantasia e
di un non meno grande rigore. Noi siamo implacabili, solenni e non
sempre
seri» (Mario Barenghi, «Poesie e invenzioni
oulipiennes»,
in: Italo Calvino, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994,
pp. 1239-1245).
Fra i numerosi giochi letterari
elaborati dagli oulipiani
ricordiamo:
letteratura definizionale
si parte da una frase qualsiasi
e si sostituisce a ogni parola la definizione che ne dà il
vocabolario.
Ad esempio:
Il gatto ha bevuto il latte.
diventa
Il mammifero domestico carnivoro
ha inghiottito un liquido bianco, di sapore dolce,
fornito dalle femmine dei mammiferi.
e via di seguito...
metodo S + 7
consiste nel sostituire a ogni sostantivo (S) di una frase di
partenza
il settimo (7) sostantivo successivo
in ordine alfabetico di un vocabolario.
Queneau considera il celebre racconto di Borges
Pierre Menard, autore del Don Chisciotte
un S + n, per n = 0.
Ad esempio:
l’abito non fa il monaco
diventa
l’abiura non fa il monarca
oppure
La verità è il punto morto dello spirito
(Ardengo Soffici).
diventa
Il vermicello è il punzecchio morto dello spiritualista
I roghi non illuminano le tenebre
(Stanislaw Lec)
diventa
I rollii non illuminano le tenerezze
omosintattismo
si scrivono le parole di una frase una per una in
colonna,
sulla sinistra di un foglio;
in una colonna centrale se ne fa l’analisi grammaticale;
quindi in una terza colonna a destra
si scrive una nuova frase che corrisponde parola per parola
all’analisi grammaticale,
ma totalmente diversa dalla frase di partenza.
ORIGINE
DESCRIZIONE
RISULTATO
GRAMMATICALE
Nel
preposizione articolata Sulla
mezzo
sostantivo
peluria
del
preposizione articolata del
cammin
sostantivo
labbro
di
preposizione
di
nostra
aggettivo
scorbutica
vita
sostantivo
fanciulla
palle di neve
Versi ropalici, cioè crescenti,
dal greco rhópalon, «clava»,
con riferimento alla crescita della sua sezione
dall'impugnatura verso la punta.
a
me
che
sono
stato
sempre
credulo
seguendo
qualsiasi
capopopolo
appoggiando
avventurieri
magniloquenti
neocapitalisti
Guardiaminnanzi
Delegittimiamoli
autoironizziamoci
Relativisticamente
disinteressiamocene
intellettualorganici
desepolcrimbiancatevi
poesia combinatoria
testo “interattivo” di Queneau
Cent mille milliards de poèmes (Editions Gallimard,
1961),
un volume di grande formato, contenente dieci sonetti,
uno per pagina, su pagine tagliate in strisce orizzontali,
una striscia per ogni verso,
di modo che il lettore può far seguire
al primo verso d’ogni sonetto
il secondo verso d’uno qualsiasi dei dieci sonetti,
e così per il terzo, e via via fino al 14° verso
(il sonetto ha 14 versi, due quartine e due terzine).
I sonetti che si possono così comporre
ammontano alla cifra di 10 alla 14, cioè centomila miliardi.
Scrive Queneau nell'introduzione al libro:
«Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la
dispozione
delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno,
se ne ha per più di un milione di secoli di lettura.
Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno,
si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo
(senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli)».
Si tratta di una macchinetta per comporre sonetti,
simile a quella costruita nella Grande Accademia di Lagado,
capitale di Balnibarbi, descritta da Jonathan Swift
nei Viaggi di Gulliver (1726).
poesia antònimica
tecnica di creazione poetica che consiste
nel sostituire a ogni parola di una data poesia
il suo antònimo, cioè una parola che ha significato
opposto
a quello di un’altra,
per cui il verso montaliano:
Spesso il male di vivere ho incontrato
diventa:
Mai dal bene di morire sono scappato.
oppure
T’amo pio bove
diventa
T’odio empia vacca
oppure ancora
La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar
diventa
L’eccellente visibilità alle riavviate pianure,
perdurando il clima secco, cala,
e sopra lo scirocco
sussurra e nereggia la terra.
hai-kaizzazione
un procedimento poetico inventato da Queneau
che si risolve nel prendere un sonetto
e nel cancellarlo conservando soltanto
le sezioni in rima
e aggiungendovi una punteggiatura soggettiva:
«Ottengo - scrive Queneau - una nuova poesia
che, parola mia, non è niente male
e non bisogna mai lamentarci
se ci regalano delle belle poesie.
La restrizione illumina la poesia originaria;
non è priva di valore esegetico
e può contribuire alla sua interpretazione».
Nel mezzo del cammin di
nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la dritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual
era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
diventa
Vita
oscura,
smarrita.
Dura
e forte,
la paura.
poesia permutata
permutando le parole fra loro,
in ordine o in disordine,
si ottengono delle buone sorprese di linguaggio,
così il verso
L’estate slega i suoi istanti quando una rosa assolda un
usignolo
può trasformarsi in
Una rosa assolda i suoi istanti quando l’estate slega
l’usignolo
oppure in
L’usignolo slega una rosa quando i suoi istanti assoldando
l’estate
e così via.
sonetti irrazionali
cioè composizioni poetiche a forma fissa,
di quattordici versi,
la cui struttura, basata sul numero pi greco,
si articola in cinque strofe
successivamente e rispettivamente di 3 - 1 - 4 - 1 - 5 versi,
numeri che sono, nell’ordine,
le cinque prime cifre significative del pi greco.
Il monastero nulla ha perso dei suoi carmi,
Né il giardino del lustro che sembra vi disarmi,
Lasciando il laccio al cane, la briglia allo stallone:
Però la spiegazione non vale quel mistero.
Basta con le chiarezze che spezzano il tallone,
Con i ragionamenti, che sciogliendo gli allarmi,
Prendono stoltamente cappelli da gendarmi,
Designando lì il giusto, e costì il fellone.
Nessuna spiegazione ripaga d'un mistero.
Io preferisco i carmi vecchi del monastero
Ed il lustro fittizio d'un celebre giardino;
Io preferisco i brividi (è questo il mio pensiero)
Di un qualunque ladruncolo smarrito dentro il nero,
Alle evidenti e note lampade d'Aladino.
lipogramma vocalico progressivo
dedicandola all’amico Queneau,
Italo Calvino compone
una poesia a lipogrammi vocalici progressivi:
nella prima quartina la prima parola
contiene tutte le vocali,
la seconda solo 4,
poi 3, 2, 1 e viceversa 1, 2, 3, 4 e 5;
la seconda quartina
si apre con la serie “aa, ee, ii, oo, uu”
e dopo utilizza solo la vocale “e”
Aiuole obliate gialle d’erba, sa
un cupo brusio smuovervi, allusione
ad altre estati, cetonia blu-violetta,
enunciando noùmeni oscuri: tutto fu,
sarà ed è in circolo: dunque è sempre
presente nelle eterne senescenze
e effervescenze d’ere, nel serpente
d’etere, seme, cenere, erbe secche.
poesie booleane
muovendo dalle nozioni appartenenti alla Teoria degli insiemi
e all’Algebra
booleana,
dal nome del matematico britannico George Boole (1815-1864),
come insieme di elementi, sottoinsieme, unionee
intersezione,
François Le Lionnais ha composto delle poesie booleane;
prelevando le parole dalla differenza fra unione e intersezione
di due sonetti di partenza
di Pierre Corneille (1606-1684) e di George de Brébeuf
(1616ca-1661),
Le Lionnais ottiene questo haiku:
Cercare la virtù
Al di là dei suoi occhi
È la sola
Sofferenza.
Corbeuf
Anche il nome è un'intersezione fra i nomi
di Corneille e di Brébeuf.
poesie con metamorfosi per nastri
di Möbius
utilizzando le proprietà matematiche del cosiddetto
«nastro
di Möbius»,
(una superficie ottenuta da una striscia rettangolare
di cui si connettono due lati opposti dopo aver effettuato tra loro
una rotazione di mezzo giro),
elaborato dal matematico e astronomo tedesco August Ferdinand
Möbius
(1790-1868),
Luc Ètienne fa subire a una poesia delle trasformazioni
che ne modificano il senso in modo spettacolare e curioso.
poesie combinatorie
nel libro Alphabets (1976) Georges Perec
pubblica 176 poesie scritte utilizzando per ogni verso
sempre le stesse lettere (E-S-A-R-T-I-N-U-B-L-O),
le più usate in francese, combinate in modo diverso:
ABOLIUNTRES Aboli, un
très art
nul ose
ARTNULOSEBI bibelot sûr,
inanité
(l'ours babil:
BELOTSURINA un raté...) sonore
NITELOURSBA
BILUNRATESO
NORESAUTLIB Saut libérant s'il
boute
ERANTSILBOU l'abus noir ou le brisant
TELABUSNOIR trublion à sens:
OULEBRISANT Art ébloui!
TRUBLIONASE
NSARTEBLOUI
La letteratura “sous
contraintes”, arte combinatoria per
eccellenza,
annovera fra le sue perle in prosa, formanti ormai un repertorio
classico,
alcuni romanzi:
1. La disparition
(1969) di Georges Perec, 320
pagine,
circa 78.000 parole, scritto senza mai usare la lettera “e”, la lettera
più ricorrente in francese e allo stesso tempo la più affettiva per lo scrittore, dato che i suoi genitori
ebrei (père, mère) morirono in guerra (il padre) e in
un
campo di sterminio nazista (la madre) (esistono de La disparition
traduzioni
in italiano, inglese e spagnolo); sul principio i critici non si
accorsero
di questa contrainte del libro, e pensare che, oltre al
commissario
Didot (nome di un celebre tipografo francese e del carattere
tipografico
da lui inventato) e al suo aiutante Garamond (altro nome di carattere),
il personaggio principale si chiama Anton Vokal; ne Les revenentes (1973), invece, Perec, usa in 138 pagine solo la vocale
“e”; e poi
2. La vie mode d’emploi
(1978), dedicato
all'amico Queneau,
dove Perec si figura un palazzo parigino da cui sia stata tolta la
facciata
di modo che tutte le stanze siano istantaneamente e simultaneamente
visibili.
«La struttura del palazzo è schematizzata da una sorta di
scacchiera quadrata di dieci caselle per dieci, dalle cantine sino alle
mansarde. Ispirandosi alla progressione del cavallo nel gioco degli
scacchi,
Perec attraversa le cento caselle lungo i cento capitoli che,
naturalmente
(per via dell'imbroglio, del gioco o del "clinamen") sono solo
novantanove
(la cantina dell'angolo in basso a sinistra non è "servita").
Questa
struttura crea il "romanzi" (così Perec ha intitolato La
vita
istruzioni per l'uso): l'incastro di storie sciolte non è
possibile
che organizzato intorno a un luogo unificante. Sharazàd quanto
Boccaccio
sanno che la reclusione in un luogo offre uno spazio privilegiato che
permette
di lasciar andare, far tornare e ripartire, in una specie di fort/da,
l'immaginazione e i suoi racconti. Il palazzo, immutabile, immobile,
del
numero 11 di rue Simon-Crubellier, permetterà che si snodino
delle
storie di ricerche e di viaggi. Con le sue cento caselle meno una,
più
due (preambolo ed epilogo), con un centinaio di tessere di puzzle
riunite,
questo singolare "romanzi" sembra costretto entro la sua struttura,
costruito
e articolato come un immobile [la struttura è ispirata al
cosiddetto
«quadrato bi-latino di ordine n, una tavola di n x
n caselle,
riempite con n lettere e n cifre differenti, ciascuna
casella
contiene una lettera e una cifra, ogni lettera figura una sola volta in
ogni linea e in ogni colonna, ogni cifra figura una sola volta in ogni
linea e in ogni colonna», dovuto al matematico oulipiano Claude
Berge,
di cui si veda: «Pour une analyse potentielle de la
littérature
combinatoire» in Oulipo, La littérature potentielle,
Paris, Gallimard, 1973, pp. 43-57]. Ma ciò non è bastato
a Perec. Egli si è inflitto un diabolico elenco d'imposizioni.
Ogni
capitolo, breve o lungo, deve comportare per ventun volte due serie di
dieci elementi; queste quarantadue menzioni, allusioni, collage, ecc.
possono
essere di natura molto diversa: posizioni, attività, bibite,
cibi,
mobiletti, giochi o giocattoli, citazioni, riferimenti a libri o
quadri,
ecc. Un sistema elaborato di permute fa sì che la stessa coppia
di vincoli non possa ritrovarsi in un altro capitolo. Per condire il
tutto,
sono previste una serie "assenza" e una serie "falso" senza che siano
escluse
le possibilità di barare» (Claude Bergelin, Georges
Perec.
La letteratura come gioco e sogno, Genova, Costa & Nolan, 1989,
p. 159). Nella lezione sulla «molteplicità», Calvino
definisce La vita istruzioni per l'uso «l'ultimo vero
avvenimento
nella storia del romanzo» (Italo Calvino, Lezioni americane.
Sei
proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p.
117).
3. Il castello dei destini
incrociati (1973) di Italo
Calvino,
dove le varie narrazioni sono suggerite dagli elementi figurali di un
mazzo
dei tarocchi. Dalla presentazione al libro: «L'idea di adoperare
i tarocchi come una macchina narrativa», scrive Calvino «mi
è
venuta da Paolo Fabbri che in un "Seminario internazionale sulle
strutture
del racconto" del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il
racconto
della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. [...] Mi sono
applicato
soprattutto a guardare i tarocchi con attenzione, con l'occhio di chi
non
sa cosa siano, e a trarne suggestioni e associazioni, a interpretarli
secondo
un'iconologia immaginaria»; e
4. Se una notte d’inverno un
viaggiatore (1979),
sempre di Calvino
(da lui stesso definito un «romanzo sul piacere di
leggere»),
dove sono analizzati dieci inizi di romanzi diversissimi fra loro; in
un
testo «Comment j'ai écrit un de mes livres (Come ho
scritto
uno dei miei libri)» (1983) (La Bibliothèque Oulipienne n.
20, tradotto in italiano in Oulipiana, a cura di Ruggero
Campagnoli,
Napoli, Guida editori, 1995, pp. 153-170), Calvino spiega di essersi
servito
di un adattamento personale dei quadrati semiotici di Greimas (in
generale
su Calvino e la letteratura combinatoria: Piergiorgio Odifreddi,
«Se
una notte d'inverno un calcolatore», in Raffaele Aragona, a cura
di, La regola è questa. La letteratura potenziale,
Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 146-160);
5. il ciclo romanzesco dedicato
alla giovane eroina parigina
Ortensia
- La belle Hortense (1985), L'enlèvement [rapimento]
d'Hortense
(1987) e L'exil d'Hortense (1990) - del matematico, poeta e
drammaturgo
Jacques Roubaud, dove, sconvolgendo i tradizionali canoni della
narrazione,
l'autore, i personaggi, il narratore, il lettore sono tutti insieme
protagonisti
del romanzo, che è organizzato secondo le permutazioni della
sestina,
cioè è diviso in 6 parti di 6 capitoli ciascuna, i cui
argomenti
vengono ripresi da una parte all'altra secondo lo schema della sestina
(forma speciale di canzone composta di 6 stanze o strofe di 6
endecasillabi
ciascuna, legate fra loro dalla ripetizione di 6 parole-rima; se nella
prima stanza le parole-rima si succedono nell'ordine 1, 2, 3, 4, 5, 6,
nella seconda stanza si succedono nell'ordine 6, 1, 5, 2, 4, 3, e poi,
con retrogradazione incrociata, si succedono nelle stanze successive
secondo
ordini variati; dopo la sesta stanza si ha una specie di commiato di 3
endecasillabi in ciascuno dei quali tornano, in mezzo e alla fine, 2
delle
6 parole-rima, con ordine vario; la sestina sembra sia un'invenzione
del
trovatore Arnault Daniel - italianizzato Arnaldo Daniello, che
poetò
fra il 1180 e il 1200 circa, definito da Dante il «miglior
fabbro», Purgatorio,
XXVI, 117);
6. Cigarettes (1988) di
Harry Matthews, membro
americano dell'OuLiPo,
dove la regola seguita è quella di presentare i personaggi a due
a due, in un numero di combinazioni saggiamente limitate a quindici,
quanti
sono i capitoli, e secondo un sistema di permutazioni di cui l'autore
non
offre la chiave;
7. oltre agli Exercises de
style (1947) di Raymond
Queneau, 99
narrazioni in 99 stili differenti per descrivere un insignificante
episodio
di vita quotidiana, tradotti in italiano da Umberto Eco.
A fianco dell’OuLiPo sono
nati poi l'OuLiPoPo (Ouvroir
de Littérature
Policière Potentielle), l'OuCuiPo (Ouvroir de Cuisine
Potentielle),
l'OuPeinPo (Ouvrier de peinture potentielle), l’OuMuPo (Ouvroir de
Musique
Potentielle) e l’OuCinéPo (Ouvroir de Cinéma
Potentielle).
Senza disdegnare opere di teatro e di altri “generi” espressivi,
l’OuLiPo
opera anche nel campo informatico attraverso l’ALAMO (Atelier de
Littérature
Assistée par la Mathématique et les Ordinateurs), fondato
nel 1982 da Paul Braffort e Jacques Roubaud.
Il gruppo produce testi di «carattere generale» -
come La littérature potentielle. (Créations
Re-créations
Récréations) (1973) e Atlas de
littérature
potentielle (1981), firmati entrambi con la sigla “OuLiPo”, e poi OuLiPo
1960-1963 (1980) di Jacques Bens e La Bibliothèque
Oulipienne
(1981), a cura di Jacques Roubaud - e pubblica ne «La
Bibliothèque
Oulipienne» delle plaquettes, in seguito raccolte in volume - i
fascicoli
da 1 a 52 in 3 volumi presso l’editore Seghers nel 1990 e quelli da 53
a 85 in tre volumi presso l’editore Castor Astrol nel 1997-2003.
Naturalmente l’OuLiPo ha un sito on line (www.oulipo.net)
e organizza delle letture pubbliche in place Jussieu a Parigi chiamate
“Les jeudis de l’OuLiPo”.
La prima esperienza “oulipiana”
in Italia è legata all’Istituto
di Protesi Letteraria (IPL) le cui finalità sono la
«produzione
automatica di letteratura», «un’azione da compiersi nella
sfera
e secondo gli stimoli della genetica combinatoria» che
«smuova
l’enciclopedia del possibile». Fra i membri attivi dell’Istituto
figurano Guido Ceronetti, Giampaolo Dossena, Luigi Malerba che
pubblicano
i loro testi sperimentali sulla rivista il Caffè a
partire
dall’autunno 1973 (un’antologia di scritti dell’Istituto di Protesi
Letteraria,
da me curata, è uscita ne Le cerniere del colonnello,
Firenze,
Ponte alle Grazie, 1991).
Nel novembre 1990 nasce a Capri l’OpLePo
(Opificio di Letteratura Potenziale), omologo del gruppo francese.
Attualmente
sono membri a vario titolo di OpLePo: Edoardo Sanguineti (presidente),
Domenico D’Oria (segretario), Raffaele Aragona (tesoriere) e in ordine
rigorosamente alfabetico Elena Addomine, Paolo Albani, Alessandra
Berardi,
Ermanno Cavazzoni, Salvatore Chierchia, Brunella Eruli, Piero
Falchetta,
Maria Sebregondi, Màrius Serra, Giuseppe Varaldo (si veda
Raffaele
Aragona, a cura di, Oplepiana. Dizionario di Letteratura Potenziale,
Bologna, Zanichelli, 2002).
«Ci capita a volte di
scoprire» - scrive Le
Lionnais
ne Le second manifeste (1973) dell’Oulipo - «che era
già
stata scoperta o inventata nel passato, e anche nel lontano passato,
una
struttura che avevamo creduto perfettamente inedita. Ci facciamo un
dovere
di riconoscere un simile dato di fatto qualificando i testi in
questione
come “plagi anticipati”» (Francois Le Lionnais, , «Le
second
manifeste», in: Oulipo, La littérature potentielle,
Paris, Gallimard, 1973, pp. 19-23; trad. it. Oulipo, La letteratura
potenziale (Creazioni Ri-creazioni Ricreazioni), a cura di Ruggero
Campagnoli e Yves Hersant, Bologna, Editrice Clueb, 1985, pp. 22-27).
Dunque un “plagiat par anticipation” è un testo strutturato
oulipiamente prodotto in epoca anteriore alla nascita dell’Oulipo che
risale
al giovedì 24 novembre 1960. Circa un mese dopo la prima
riunione,
e cioè il 19 dicembre 1960, grazie all’intervento
“particolarmente
felice” di Albert-Marie Schmidt (1901-1966), professore di Letteratura
alle Università di Caen e di Lille, la bizzarra congrega che
fino
a quel giorno si chiamava Séminaire de littérature
expérimentale
prende il nome di Ouvroir de Littérature Potentielle.
Per inciso ricordiamo che nel paragrafo IX dei suoi Palimpsestes
(1982) dedicato ai “giochi oulipiani” Gérard Genette usa il
termine oulipema
per indicare un testo prodotto dall’Oulipo e oulipismo per
designare
invece un testo scritto, anche anteriormente, alla maniera di un oulipema
(Gérard Genette, Palinsesti, Torino, Einaudi, 1997, p.
46).
In questo senso “plagiat par anticipation” e “oulipismo” hanno le
credenziali
in regola per riferirsi allo stesso fenomeno.
Da tutto ciò ne segue, per estensione, che l’espressione
“paradossale
e provocatoria” di “plagiario anticipato o per anticipazione” indica
l’autore
di un “plagio anticipato o per anticipazione”. Fra quelli che stanno a
cuore al gruppo francese troviamo il poeta e musico greco Laso
(metà
del VI secolo a.C.), autore di poesie in forma di lipogramma, secondo
Ernst
Robert Curtius “il più antico artificio sistematico” della
letteratura
occidentale (Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo
latino,
Roma, La Nuova Italia, 1992, p. 314), il poeta latino Decimo Magno
Ausonio
(310 ca-395 ca), maestro di centoni, il trovatore provenzale Arnaut
Daniel
(1150 ca-1200 ca), inventore della sestina, e poi Edgard Allan Poe che
in The Philosophhy of Composition (1846) mostra come nessun
particolare
della sua poesia più nota The Raven (Il corvo) “sia
attribuibile
al caso o all’intuizione” e come egli abbia proceduto “passo dopo
passo,
sino al compimento, con la precisione e la rigida coerenza di un
problema
di matematica”; ed ancora Lewis Carroll (1832-1898), Raymond Roussel
(1877-1933)
ed Unica Zürn (1916-1970), autrice di sublimi poesie anagrammate.
In Italia l’OpLePo, come si è già detto, nasce a Capri
il 3 novembre 1990. Prima di quella data lo spirito oplepiano aleggia
candido
sulle patrie lettere, ostentando i suoi bravi interpreti e paladini.
L’oplepismo
nostrano conta importanti precursori.
Cronologicamente parlando il nostro primo omaggio non può
che andare alla figura di un grande palindromista, anagrammista e
compilatore
di centoni: padre Anacleto Bendazzi (1883-1982) che nel 1951 licenzia
le
sue Bizzarrie letterarie, un libro vertiginoso di giochi
verbali
in gran parte di argomento sacro (Anacleto Bendazzi, Bizzarrie
letterarie,
Ravenna, Presso l'autore nel Seminario di Ravenna, 1951 e Bazzecole
andanti, a cura di Stefano Bartezzaghi, Milano, Vallardi, 1996;
sulla
vita di Bendazzi: Franco Gabici, Sulle rime del don. Vita e inediti
di don Anacleto Bendazzi, Ravenna, Edizioni Essegi, 1996).
Fra i primi anticipatori delle sperimentazioni di stampo oplepiano
si deve annoverare Nanni Balestrini che, all’inizio degli anni
sessanta,
compone alcune poesie con l’ausilio del calcolatore elettronico. [...]
All’area sperimentale appartengono anche L’oblò (Milano,
Feltrinelli, 1964) di Adriano Spatola e le Poesie a schema multiplo
di Renato Pedio apparse sul numero 2 della rivista Malebolge
del
1967.
Nel primo caso si tratta di uno «pseudo-romanzo»
in cui l’elemento combinatorio si snoda in una sequela di storie
indipendenti,
assemblate in modo casuale, una sorta di «cadavere
squisito»
il cui percorso può essere scelto a piacere dal lettore (si veda
sul romanzo di Spatola quanto dice Renato Barilli,
«Spatola»,
in: La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del
«Verri»
alla fine di «Quindici», Bologna, il Mulino, 1995, pp.
257-263). L’operazione spatoliana ricorda, in un certo qual modo, il
libro
di Marc Saporta (cognome che sembra un anagramma di Spatola) composizione
n. 1 uscito presso l’editore Lerici nel 1962, dove la
libertà
del lettore di leggere il romanzo disponendo come crede l’ordine delle
pagine è totale. Anche perché le pagine del romanzo sono
davvero sciolte, libere, separate le une dalle altre. Nella copertina
si
dice: «Mescolate le pagine come un mazzo di carte e
leggete»,
mentre la fascetta che tiene unite le pagine riporta questa frase dal
sapore
queniano: «TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle
pagine
è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo».
Le «poesie a schema multiplo» di Pedio, scritte su tre
colonne, offrono la possibilità di leggere - ci dice l’autore –
un determinato fatto di cronaca (la distruzione di Longarone sotto la
diga
del Vajont) «in una ventina di modi diversi, molti dei quali
identici.
Calcolo che esistano, però, cinque o sei buone letture
valide».
[...]
Fra gli scrittori vicini
all’attività dell’Istituto
di Protesi
Letteraria ci sono Giorgio Manganelli e Umberto Eco, entrambi a
pieno
titolo etichettabili come “plagiatori per anticipazione” dell’OpLePo.
Il primo - scrittore visionario fedele a un’immagine
“manieristica”
della letteratura come costruzione artificiosa di un mondo surreale -
è
autore di Centuria (1979), una raccolta di “cento piccoli
romanzi
fiume”, brevi narrazioni non più lunghe di un foglio che vanno a
comporre «una vasta ed amena biblioteca». In un’intervista
apparsa sull’Avanti! dell’8 aprile 1979 Manganelli spiega la
genesi
del libro: «Avevo per caso molti fogli da macchina leggermente
più
grandi del normale, e mi è venuta la tentazione di scrivere
sequenze
narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio:
è
un po’ il mito del sonetto, cioè di una struttura rigida e
vessatoria
con la quale lo scrittore deve necessariamente misurarsi. Ma il fascino
è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti obbliga
all’essenziale,
che ti costringe a combattere contro l’espansione
incontrollata.
Insomma, credo che se non avessi avuto quei fogli non sarei mai
riuscito
a scrivere questo libro» (sottolineatura mia).
In un’altra intervista pubblicata su Libération
del 29 maggio 1985, in occasione dell’uscita della traduzione francese
di Centuria, Manganelli è ancora più esplicito
sulla
“natura artificiosa” del libro: «Un soir où j’étais
de mauvaise humeur, j’ai eu l’idée d’utiliser ces feuilles en me
tenant au nombre de lignes qu’elles comportaient. Une idée, un
récit
par feuille: la première que j’ai écrite est la
première
à figurer dans le livre, de même pour les autres: rien n’a
été modifié, amélioré ou
transformé.
Je ne devais écrire que sur les rectos, jamais continuer au
verso;
l’autre règle était de ne pas construire
d’histoires
qui se suivent, ni même que les personnages se retrouvent. Chaque
récit devais se suffire, quitte à ce que certaines
situations
se ressemblent. J’ai mis un mois à écrire le livre»
(sottolineatura mia). Costrizione, regola: le indicazioni di Manganelli
sono chiare: ne esce, come scrive Paola Italia, «un organismo
compatto
e dalla struttura calibratissima, in cui l’esercizio di stile si unisce
al divertissement del gioco combinatorio» (Paolo Italia,
«Note
al testo», in: Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli
romanzi
fiume, Milano, Adelphi, 1995, p. 289).
I “cent petits romans-fleuves”, presentati da un Prologue
di Italo Calvino, hanno un grande successo in Francia dove esperimenti
come Centuria si ricollegano alle «ricerche
dell’avanguardia
francese, quali ad esempio l’OULIPO di Queneau e Perec» (Paolo
Italia,
«Note al testo», in: Giorgio Manganelli, Centuria.
Cento
piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi, 1995, p. 296).
L’attività pre-oplepiana, cioè anteriore al 1990,
di Umberto Eco è vasta e multiforme. Il suo centro attrattivo
è
naturalmente legato alla traduzione, che in molti casi si concretizza
in
una vera e propria ri-scrittura, nel senso di re-invenzione, dei
novantanove Exercises
de style (1947) di Raymond Queneau. Siamo nel 1983 e senza pudori
Eco
confessa che restare fedeli al gioco di Queneau significa capirne le
regole,
«rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso
numero
di mosse» (Umberto Eco, «Introduzione» a: Raymond
Queneau, Esercizi
di stile, Torino, Einaudi, 1983, p. XIX).
In qualche modo (nel numero) ispirato alla performance queniana
è un testo che compare sul numero 5-6 del 1972 de il
Caffè,
firmato da un Anonimo Ginevrino e attribuito a due noti studiosi di
linguistica
e semiologia di cui la rivista conserva l’anonimato, firma dietro la
quale
si nascondono Umberto Eco e Tullio De Mauro: si tratta di Novantove
proverbi strutturalisti “particolarmente consigliabili ad alunni
delle
scuole materne, ispettori della pubblica istruzione, crociani della
Riserva,
elzeviristi, attori di cabaret, rettori magnifici, dirigenti di
programmi
culturali alla TV, compilatori di lunarî”. Eccone un piccolo e
gustoso
campione:
Chi Lacan l’aspetti.
Tanto va il fonema al codice che ci lascia la variante.
Il Propp stroppia.
Chi non Cratilo non critica.
Vedi Peirce e poi Morris.
Volere il significante pieno e il messaggio ambiguo.
Codice che appaia non Morse.
All’idea di letteratura
combinatoria - si pensi a Cent
Mille
Milliards de Poèmes (1961) di Raymond Queneau - rimanda uno
scritto del 1972 intitolato Do your movie yourself dove,
ipotizzando
l’avvento di un’era in cui tutti possono farsi un film da soli grazie
all’uso
del videoregistratore, Eco presenta una serie di “soggetti multipli”
ordinati
per vari registi come Michelangelo Antonioni, Jean Luc Godard, Ermanno
Olmi, Luchino Visconti, ecc. In pratica si tratta di questo: l’utente
acquista
un “plot pattern”, cioè una “gabbia” di soggetto multiplo che
può
riempire con una serie molto ampia di combinazioni standardizzate. Con
un solo pattern, accompagnato dal pacchetto delle combinazioni, si
possono
fare, per esempio, 15.751 film di Antonioni. Come? Si parte da un basic
pattern così strutturato: Una (alla x) distesa (alla y)
desolata
(alla z). Ella (alla k) si allontana (alla n). I richiami
alfabetici
che stanno come esponente indicano le trasformazioni possibili: x =
due,
tre, infinite; un reticolo di; un labirinto di; un; y = isola,
città
snodi di autostrade, Autogrill Pavesi, e così via. Il basic
pattern
alla Antonioni può dunque generare altri film come: Un
labirinto
di Autogrill Pavesi con visibilità incerta. Lui tocca a
lungo
un oggetto (Umberto Eco, «Do your movie yourself», in: Diario
minimo, Milano, Mondadori, 1986, pp. 138-146).
Fra i molteplici esercizi cui Eco si dedica con grande diletto,
sempre prima del 1990, qui assunta come nostra data spartiacque, vi
sono
testi monovocalici - nella rubrica di Dossena su Il Venerdì
di
Repubblica (numero 45 del 28 ottobre 1988, p. 178) ne appare uno
in
E, «L’ente e l’esente»: “Sedete, gente, leggete le certe
tessere
del Sefer! Esse necesse est...” - e lipogrammati (due in A sul
leopardiano Passero
solitario sono antologizzati in Guido Almansi e Guido Fink, Quasi
come, Milano, Bompiani, 1976, pp. 301-302; altri in Umberto Eco, Vocali,
Napoli, Alfredo Guida Editore, 1991 e nel Secondo diario minimo,
Milano, Bompiani, 1992).
Il 22 febbraio 1987 Eco pubblica sull’Espresso una prima
serie di ircocervi, una sorta di parole-valigia prodotte dalla fusione
di due nomi famosi cui viene accompagnata una definizione del nuovo
personaggio.
Il termine “ircocervo” designa un mostro mitologico, metà
caprone
(irco) e metà cervo. La regola del gioco impone di fondere
insieme
il nome di due personaggi noti, in modo che al nuovo personaggio si
assegni
un’opera inedita che ricordi tuttavia alcune caratteristiche dei due
personaggi
originari, senza escludere qualche altro richiamo ambiguo. Sono
proibite
le combinazioni che, anche se danno origine a un bel titolo, non sono
giustificate
da una immediata associazione fonetica o grafica tra i due nomi di
partenza
(Umberto Eco, Secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 1992, p.
295).
Ecco alcuni esempi di ircocervi:
Agatha
Cristo Dodici
piccoli apostoli
Achille Bonito Olivolà Saclart
Billy Wilde A
qualcuno piace Ernesto
Carlo Emilio Gadamer L’interpretazione del
dolore
Cesare Pavesi Biscotti
dei paesi tuoi
Fred Asterix De
ballo gallico
Gustave Flaubrecht Madame
Courage
Nel 1998 prende forma una
versione visiva dell’ircocervo
dovuta
al grafico e disegnatore Massimo Bucchi (1941). [...] (Massimo Bucchi, ‘900,
Roma, I libri di Edizioni la Repubblica, 1998).
Più tardi,
esattamente il 12 luglio 1992, Eco
elabora una
variante del gioco degli ircocervi inventando un nuovo artificio che
chiama
“finneghismo”, ovvero una parola composta accompagnata da una
definizione
plausibile, sul tipo di:
arfabeto: sistema di
scrittura per cani;
cornitologo: etologo che studia l’adulterio tra uccelli;
oromogio: Swatch che suona solo le ore tristi;
vampirla: discendente inabile del conte Dracula.
L’idea di quest’esercizio
viene ad Eco durante un lavoro
sul Finnegans
Wake (1939) di James Joyce (Umberto Eco, «Un gioco per
l’estate?
La Duomocraxia», L'Espresso, 28, 12 luglio 1992, p. 190;
«I
giochini estivi colpiscono ancora. Invito a partecipare ai
Finneghismi», L'Espresso,
29, 21 luglio 1995, p. 170; «La professoressa che non ne indovina
una. Nuova collezione di "finneghismi"», L'Espresso, 41,
15
ottobre 1995, p. 266; «Mi scuso per i giochini. Sono utili.
Servono
ai ragazzi delle scuole», L'Espresso, 49, 10 dicembre
1995,
p. 258).
A proposito dei funambolismi
linguistici di Eco
va detto
infine che alcune delle sperimentazioni verbali contenute nella sezione
“Giochi di parole” de Il secondo diario minimo (1992) - un
pangramma
eteroletterale dove vengono usate una sola volta tutte le 26 lettere
dell’alfabeto,
i tautogrammi che sintetizzano la vita di un personaggio o il senso di
un’opera usando soltanto parole con l’iniziale del personaggio eponimo,
diverse poesie anagrammate - sono prive dell’indicazione dell’anno di
stesura.
Resta così impossibile stabilire se il gioco sia anteriore
oppure
no al 1990, anno significativo dal punto di vista plagiaristico.
Altro reduce dell’IPL è Guido Almansi che già su il
Caffè si era cimentato in una “ri-scrittura” de L'infinito
leopardiano e in varie mistraduzioni, cioè avventurose e
avventate
traduzioni dove, ad esempio, il verso del poeta inglese John Keats
(1795-1821)
«Season of mists and mellow fruitfulness» viene reso con
«Stagione
di brume e molli fruttiferinità» (si veda «Versi in
proprio e mistraduzioni», il Caffè, 7-8, 1974, pp.
12-15).
Fra gli esercizi almansiani si contano lipogrammi (come quello
in E, O, I, U da Cesare Pavese: “Verrà la Marta a avrà a
ta acca”), poesie rovesciate (Un distico dantesco: Poco villano e
disonesto
spare/ Il maschio tuo quand’egli a lei s’ammuta), variazioni sulla
vispa
Teresa (Guido Almansi, Maramao, Milano, Longanesi, 1989, pp.
49-54;
pp. 95-104).
Nel 1967 Edoardo
Sanguineti, attuale (2004) presidente
dell'Oplepo,
pubblica da Feltrinelli il romanzo Il giuoco dell'oca. Nella
quarta
di copertina si legge: «Questo Giuoco è composto di 111
numeri
[nel senso che il romanzo è suddiviso in 111 capitoletti, n.d.r.],
e può anche servire a giocare fino a 79. Ciò deve
convenirsi
prima di cominciare la lettura. Per giocare ci si serve di due dadi
numerati
dall'1 al 6, e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la
posta
al giuoco. Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può
tirare una volta sola con un solo dado; se per caso l'1 venisse, egli
ha
finito il romanzo».
Al 1982 risale l’Alfabeto apocalittico, scritto in 21 ottave
per la grande “Apocalisse” di Enrico Baj, pittore, antesignano dei
patafisici
italiani, il cui nome figura fra gli “invitati d’onore” dell’Oulipo.
Sanguineti
lesse il suo alfabeto in occasione della vernice dell’esposizione a
Mantova,
in forma quasi teatralizzata, con il volantinaggio dei singoli testi
presso
il pubblico presente, sopra foglietti variamente colorati, simili ai
vecchi
“pianeti della fortuna” (Edoardo Sanguineti, «Alfabeto
apocalittico»,
in: Bisbidis, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 79-101). Si tratta
di poesie tautogrammate dall’A alla Z come questa:
giocate al giuoco mio, grassi
giganti,
giratemi il mio gozzo, con i guanti:
gigantesse, godete al mio godere,
grosso è il gallo se gramo è il giocoliere:
grande ghianda mi è il glande con la gomma,
gratto le grotte, gratterò la gromma:
generali & gendarmi, gente giusta,
giunto è già il giorno, & chi lo gusta, gusta:
In precedenza (Edoardo
Sanguineti, Stracciafoglio.
Poesie 1977-1979,
Milano, Feltrinelli, 1980) Sanguineti aveva scritto poesie acrosticate,
in cui l’acrostico rende il nome del destinatario (Ugo Nespolo, Octavio
Paz, ecc.) o parole-chiave (landscape, maggio, PCI) o frasi (Sanguineti
amat), in quest’ultimo caso con l’aggiunta di un’altra costrizione,
cioè
il tautogramma:
Se Sa Sedurti Soltanto un
Sonetto,
Archetipo d’Amaro Amore Assente,
Nasconderò Nei tuoi Nomi il mio Niente,
Golfo mio, mia Girandola, mio Ghetto
[...]
Fra il 1984 e il 1987
Sanguineti compone poesie come la
seguente
che inizia così:
questa frase (8, 7) da
ventaglio, non firmata, non
datata, è
un ritaglio banale,
da un giornale:
un uomo, che porta GE sopra una spalla destra, suda, per
una sega,
seriamente, lì alle prove con una lignea e liscia cosa
numero 9: seguono due finestre,
con le imposte quasi del tutto aperte, legate da un’L:
[...]
È un vero e proprio
rebus senza disegno, la cui
soluzione
è: “genovese galante” (Edoardo Sanguineti, «Rebus»,
in: Bisbidis, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 45).
Al termine di questo breve
viaggio fra alcuni dei
più significativi
“plagiari per anticipazione” dell’OpLePo ci premono ancora due
considerazioni.
La prima riguarda Rodolfo J. Wilcock (1919-1978), straordinario
scrittore italiano di origine argentina, amante di “fatti inquietanti”,
di “mostri” e di “folli letterari”, poeta, drammaturgo e traduttore,
fra
gli altri, di testi di Christopher Marlowe e di James Joyce. Calvino lo
propose come membro dell’Oulipo e questo, crediamo, sia un motivo
più
che sufficiente per accostare senza forzature il nome di Wilcock a
quello
dei plagiari per anticipazione.
Ne La sinagoga degli iconoclasti (1972), fra i profili
di esseri che, poggiando sulle solide basi della scienza o comunque di
una qualche disciplina che si presenta rigorosa, si sono mossi verso la
demenza, Wilcock riporta il caso dell’orologiaio francese Absalon Amet
che, nel Settecento, inventa e fabbrica il Filosofo Meccanico
Universale,
un apparecchio, grande come un’intera stanza, in grado di produrre una
quantità quasi infinita di frasi, combinando una serie di
vocaboli
(sostantivi, avverbi di ogni sorta, congiunzioni, negazioni, verbi
sostantivati,
ecc.) scritti su delle targhette disposte a loro volta su ruote dentate
caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno
a scatto che periodicamente ferma l’ingranaggio. Con la figlia Marie
Plaisance,
Amet pubblica nel 1774 a Nantes il libro intitolato Pensées
et
Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, una raccolta
di frasi “pensate” dalla macchina, fra cui troviamo una frase di
Lautréamont:
«I pesci che nutri non si giurano fraternità»,
un’altra
di Arthur Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro
desiderio»,
una di Jules Laforgue: «Il sole depone la stola papale», e
ancora altre sorprendenti per l’epoca: «Tutto il reale è
razionale»;
«Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte»;
«L’inferno sono gli altri»; «L’arte è
sentimento»;
«L’essere è divenire per la morte» (Juan Rodolfo
Wilcock,
«Absalon Amet», in: La sinagoga degli iconoclasti,
Milano,
Adelphi, 1972, pp. 67-70).
[...]continua
Alcuni riferimenti bibliografici
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