Paolo Albani
IL FALSARIO FALSIFICATO:
CHI LA FA L’ASPETTI!



    Tutto ha inizio il 1 maggio del 1817 quando sulle pagine de «Lo Spettatore italiano», rivista quindicinale fondata da Anton Fortunato Stella, esce un componimento di 203 endecasillabi sciolti intitolato Inno a Nettuno che ha questo incipit:

        Lui che la terra scuote, azzurro il crine,
        a cantare incomincio. Alati preghi
        a te, Nettuno Re, forza che indirizzi
        il nocchier fatichevole che corre
        su veloce naviglio il vasto mare,
        […]

Il testo, arricchito da un apparato di note dottissime, viene presentato come la traduzione di un originale greco di autore ignoto. Il giovane traduttore – quando compone l’Inno a Nettuno, cioè nel maggio 1816, non è ancora diciottenne - dedica la sua impresa a un non ben specificato «Cavaliere», indicato come l’amico scopritore del manoscritto inviatogli in regalo.
    Nell’«Avvertimento» al lettore il giovane traduttore dell’Inno a Nettuno scrive:

    «Un mio amico in Roma nel rimuginare i pochissimi manoscritti di una piccola biblioteca il 6 gennaio dell’anno corrente, trovò in un Codice tutto lacero, di cui non rimangono che poche carte, quest’Inno greco, e poco appresso speditamente una copia, lietissimo per la scoperta m’incitò a imprenderne la traduzione poetica italiana».

    Dunque è lui, l’anonimo amico, che per altro intende dedicarsi a un’edizione critica del testo greco, che spinge il giovane traduttore, riluttante a annunziare per primo la scoperta perché non vuole farsi bello di cosa non propria, a rendere pubblica la sua traduzione «dicendo essersi già tardato anche troppo a far tutti consapevoli dell’accaduto».
    L’Inno a Nettuno viene accolto favorevolmente e riscuote una certa fortuna nell’ambiente classicistico romano.
    Lo stesso personaggio, il nostro giovane traduttore, sei anni dopo la pubblicazione dell’Inno a Nettuno, compie un’altra lodevole impresa: nell’ottobre-dicembre 1822 appronta la cura di un’operetta, suddivisa in diciotto brevi capitoli, intitolata il Martirio de’ Santi Padri del Monte Sinai e dell’eremo di Raitu composto da Ammonio monaco. Volgarizzamento fatto nel buon secolo della nostra lingua mai stampato, che altri non è che il volgarizzamento di un testo greco effettuato da un ignoto autore toscano del trecento. Nel testo si racconta l’eccidio, da parte di una banda di Saracini, di alcuni santi Padri, nutriti di silenzio e di pochi datteri e così incorporali da sembrare degli «angioli».
    L’operetta esce nel gennaio 1826 presso l’editore milanese Anton Fortunato Stella con un avviso preliminare, «L’editore a chi legge», in cui si specifica:
   
    «Ho tratto questo Volgarizzamento da un codice a penna in cartapecora, che si conserva nel monastero di Farfa, e mostra essere scritto circa il trecentocinquanta, di molto buona lettera, contenente, oltre a questa, parecchie altre Leggende di Santi in lingua toscana [...]. Primo autore di questa presente Relazione fu, come si legge nel titolo e nel fine della medesima, un Ammonio monaco, il quale la scrisse in lingua egiziana, cioè copta [...]. Trovo questa Leggenda in greco nel libro pubblicato a Parigi dal [François, ndr] Combefis l'anno milleseicentosessanta [presso l’editore Bertier di Parigi, ndr] col titolo Illustrium Christi Martyrum lecti triumphi, vetustis Graecorum monumentis consignati; la qual versione greca è di non so qual Giovanni prete, che si nomina esso medesimo nel fine, e dice averla fatta dal copto. [...] Il nostro Volgarizzamento debb'esser fatto da qualche versione latina antica del testo greco divulgato dal Combefis, che sarà ita attorno a quei tempi; della quale io non ho altra notizia [...]. Mi è paruto degno questo Volgarizzamento della luce pubblica, non solo per la purità e la candidezza della lingua, ma eziandio per la qualità delle cose narrate, i costumi dei Solitari di Arabia del quarto secolo rappresentati al vivo [...], gli effetti del timore e dell'estremo pericolo in animi da altra parte infervorati dalle credenze religiose, descritti con sincerità ed efficacia grande; in fine lo stile schietto, sano, insigne per naturalezza e semplicità […]».

    Come il precedente Inno a Nettuno, anche il Martirio de’ Santi Padri ottiene un certo successo: il maggior esperto di trecentismo letterario dell’epoca, l’abate Antonio Cesari (1760-1828), lo giudica «una cosa mirabile, e di qualche ottimo autore del trecento».
    A questo punto, senza dilungarci oltre, sarà bene svelare l’arcano, che poi, nel nostro caso, data la notorietà del personaggio tirato in ballo, ha lo stesso fascino misterioso di un segreto di Pulcinella.
    I sopracitati testi tradotti dal greco, volgarizzamento incluso, non sono nient’altro che un clamoroso falso e il falsario, com’è noto, è uno dei maggiori poeti del secolo XIX ovvero Giacomo Leopardi che, nell’intento di ridere «saporitamente degli Arcadici» e dei puristi, dimostra da buon erudito notevoli e professionali doti tecniche di falsificazione. L’unico che Leopardi non riuscì a gabbare con i suoi falsi è l’amico Pietro Giordani che in una lettera a Pietro Brighenti del 31 gennaio 1826 scrive: «Non credo del trecento quella traduzione [alludendo al Martirio de’ Santi Padri]; ma una contraffazione fatta di buona mano; e io non conosco altro che Leopardi da tanto». Del resto, quando Leopardi gli aveva confidato di essere l’autore dell’Inno notturno, Giordani, che forse aveva fiutato la burla, se ne uscì con questo commento: «Oh chi potrebbe oggi in Italia far tali scherzi!»

    C’è un proverbio che dice: «Chi la fa l’aspetti!» E così il destino ha voluto che l’abile falsario Leopardi sia stato a sua volta falsificato, e non poche volte. Una delle più significative falsificazioni consumate ai danni del Leopardi risale all’anno del centenario della nascita del poeta recanatese.
    Nel 1898 il settimanale romano «La Palestra del Clero» pubblica in venti puntate, a firma di Giuseppe Cozza-Luzi, vice-bibliotecario di Santa Romana Chiesa, già abate di Grottaferrata, gli Appunti leopardiani che sempre nello stesso anno vedono la luce a Roma presso la Tipografia Sociale in sei fascicoletti con il titolo di Appunti leopardiani offerti alla studiosa gioventù nel centenario della nascita di Giacomo Leopardi (la quale fu al 29 Giugno 1798).
    Nel suo scritto il clericale Cozza-Luzi, mosso dal dichiarato intento di rivalutare il passato cattolico del poeta, riporta una serie di inediti di Leopardi, tratti da imprecisati autografi di cui non offre nessuna indicazione. Fra gli inediti leopardiani (comprendenti una supplica del 1819 a Pio VII per ottenere la licenza di leggere i libri proibiti; una supplica al Papa, dello stesso anno, per ottenere un impiego nella Biblioteca Vaticana; una lettera del cardinale Alessandro Mattei al Leopardi a proposito di quest’ultima richiesta d’impiego; due «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo e un Frammento di un sermone intorno l’immacolato concepimento di Maria; nove Pensieri di filosofia varia e diciassette Pensieri varii) risaltano tre abbozzi dell’Infinito, due in prosa e uno in versi, su cui ci concentreremo, e l’abbozzo di un Idillio alla natura.
    Il primo degli abbozzi in prosa dell’Infinito è molto breve:

    «Sopra l'infinito
Oh quanto a me gioconda quanto cara fummi quest'erma plaga e questo roveto che all'occhio copre l'ultimo orizzonte».

    Il Cozza-Luzi fa notare che, nell’abbozzo leopardiano, «plaga» è una correzione di «spiaggia», che a sua volta è una correzione di «sponda»; prima di «copre» Leopardi avrebbe scritto e poi cancellato «apre»; tutto l’abbozzo sarebbe stato poi cancellato. Da queste annotazioni del Cozza-Luzi si deduce che il poeta, avendo usato prima «apre» e poi «copre», sarebbe stato incerto sull’idea fondante di tutto l’idillio, ovvero l’esclusione dalla vista dell’orizzonte, e che inoltre avrebbe pensato di ambientare la sua contemplazione dell’infinito non su un colle, ma sulla sponda (spiaggia) di un fiume o del mare. Queste incertezze del poeta sono istruttive, scrive Cozza-Luzi, perché fanno capire ai giovani che le composizioni poetiche sono frutto di un impegno faticoso e prendono corpo dopo un «lungo lavoro della lima», fatto di «cangiamenti», ritocchi e espunzioni.
    Il secondo abbozzo in prosa, più lungo, è il seguente (vedi riproduzione dalla collezione di Gaspare Casella):

    «L'infinito
    Caro luogo a me sempre fosti benché ermo e solitario, e questo verde lauro che gran parte cuopre dell'orizzonte allo sguardo mio. Lunge spingendosi l'occhio gli si apre dinanzi interminato spazio vasto orizzonte per cui si perde l'animo mio e nel silenzio infinito delle cose e nella amica quiete par che si riposi se pur spaura. E al rumor d’impetuoso vento e allo stormir delle foglie delle piante a questo tumultuoso fragore l’infinito silenzio paragono».


 
    Da notare quello strano «benché ermo e solitario», che fa pensare che al Leopardi fossero cari abitualmente i luoghi frequentati e chiassosi.
    Del secondo abbozzo in prosa dell’Infinito, come di quello in versi (che qui si tralascia perché molto simile all’originale), apparvero nel 1951 i manoscritti spacciati per autografi, ma in realtà apocrifi, serviti per la stampa del testo del Cozza-Luzi, abbozzi acquistati, non si sa da chi, dal libraio e editore napoletano Gaspare Casella.
    Che questi «inediti» leopardiani siano un falso, anche un po’ ingenuo e maldestro, è stato dimostrato in modo rigoroso nel 1966 da Sebastiano Timpanaro che adduce a sostegno della sua tesi convincenti e puntuali verifiche sul contenuto, lo stile e la calligrafia (si veda Sebastiano Timpanaro, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, «Giornale storico della letteratura», CXLIII, 1966, pp. 88-119, ora anche in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nistri-Lischi, Pisa, 1980, pp. 295-348; su tutta la faccenda del Leopardi falsario e falsificato si rimanda inoltre al capitolo «Multipli mimetismi leopardiani» del bel libro di Gino Tellini, Rifare il verso. La parodia nella letteratura italiana, Mondadori, Milano, 2008, pp. 197-219).
    D’altronde a destare più di un sospetto sull’autenticità degli «inediti leopardiani» sta la circostanza che alcuni di essi furono forniti al Cozza-Luzi, per sua stessa ammissione, da un prete poco raccomandabile, un certo Oliviero Jozzi, figura ben nota di erudito-falsario, responsabile, fra le tante malefatte, di aver venduto a un senatore del Regno d’Italia, Filippo Mariotti, l’ennesimo falso abbozzo in prosa dell’Infinito.
    Sebbene pieni di errori di metrica, incongruenze e brutture stilistiche, gli Appunti leopardiani sono stati ritenuti veri per oltre mezzo secolo e ancora oggi se uno li ricerca nel catalogo in rete dell’OPAC SBN figurano abbinati, per quanto riguarda l’autore, al nome di LEOPARDI, GIACOMO, e non a quello di COZZA-LUZI, GIUSEPPE, ironia della sorte per un falsario serio com’era il poeta recanatese, dico serio, riprendendo l’espressione dal Tellini, perché esiste anche un Leopardi falsario «burlesco e faceto» come quello dei Paralipomeni della Batracomiomachia.
    In conclusione mi piace accennare brevemente a un odierno falso abbozzo dell’Infinito, questa volta decisamente giocoso, apparso nel 1999 in una plaquette, la numero 15, dell’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale), omologo dell’OuLiPo, il gruppo francese di letteratura à contrainte che ebbe fra i suoi membri Raymond Queneau, Georges Perec e Italo Calvino.
Intitolata L’infinito futuro. Sillabe in crescenza, la plaquette è opera di Luca Chiti (1943-2003), autore fra l’altro di un lungo romanzo in ottave, XL Canti, tuttora inedito, intitolato I Paraparalipomeni (Ovvero I Paralipomeni dei Parapilomeni della Batracomiomachia nuovamente ritrovati e tradotti), continuazione del poemetto eroicomico leopardiano.
    Nell’Infinito futuro Chiti ipotizza un avventuroso ritrovamento, in uno sgabuzzino murato del Palazzo di Recanati (è riprodotto anche un articolo del Corriere di Recanati che dà notizia del danneggiamento della cameretta del Poeta, causa della fortuita scoperta), di quindici tentativi di Infinito strutturati in tutte le salse metriche: si va dal balbettio monosillabico alla scandita ariosità del settenario doppio.
    Notevole per l’obbligo all’impegnativa restrizione la versione monosillabica in quinari tronchi variamente rimati in cui Chiti riesce mirabilmente a mantenere il senso dell’idillio leopardiano:

    «Mi fu nel cuor / ad or ad or / quel mio bel col / che sta da sol, / e che, con quel / che qui vien su / dal suol, al ciel / là giù là giù / mi fa da vel. / Ché, se sto qui / (che qui pro quo!), / par che al di là, / man man nel blu, / non ci sia più / quel che c’è qua: / non il cri cri / che vien di lì, / non il tran tran / dei dì che van. / Ed è per ciò / che il cor va un po’ / di qua e di là. / Ma se un fru fru / a me ne vien / dal vial fin qui, tal, lì per lì, / sal nel mio sen, / sia quel che sta, / sia quel che fu / ma non è più, / sia quel che c’è / col suo can can, / che già, pian pian, / vo giù (mi par) / nel blu del mar / com om che muor. / Ma se vo giù, / per il mio cuor / sa pur di miel, / nel far glu glu, / vie più il gran gel».


 
    In una nota a questa versione monosillabica (vedi immagine qui a fianco) Chiti precisa che nel manoscritto, di cui per altro fornisce una riproduzione, come nella migliore tradizione dei falsari leopardiani (anche della versione trisillabica viene riprodotto il manoscritto), i monosillabi sono incolonnati rigo per rigo, uno sotto l’altro, e fa notare inoltre «l’esistenza di un enjambement tra il 6° e il 7° verso, che, in tutta evidenza, rappresenta un segnale molto significativo di un artificio di cui il poeta farà ampio uso nella stesura finale».
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Almanacco del Bibliofilo, 22, 1 gennaio 2012, pp. 17-28.
Questo numero dell'Almanacco, intitolato "Verità travisate, imposture codificate, tiranni glorificati. Alcuni validi esempi di perverse mistificazioni", a cura di Mario Scognamiglio, contiene testi di (in ordine di apparizione) Umberto Eco, Paolo Albani, Annalisa Bruni, Salvatore Carrubba, Gianni Cervetti, Matteo Collura, Gianandrea de Antonellis, Oliviero Diliberto, Gianfranco Dioguardi, Mauro Giancaspro, Giuseppe Marcenaro, Antonio Mereu, Maurizio Nocera, Elio Palombi, Mario Scognamiglio,  Pietro Spirito, Armando Torno, Veronica Torres.

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Questo testo è stato citato da Raffaele Aragona in un articolo uscito su Il Mattino del 17 marzo 2015:





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