Paolo Albani
IL LAVORO DELLO SCRITTORE




Oh, Sonečka!
Se sapeste quanto è dura essere uno scrittore,
sopportare questo destino!

Fëdor Dostoevskij (1)




    Ho deciso di rompere gli indugi e di non rimandare oltre: voglio ribadire un concetto che mi sta a cuore. È da tempo che desidero farlo, puntualizzarlo, in primo luogo a me stesso, mettere tutto bianco su nero. Il concetto è questo: il lavoro dello scrittore, checché se ne pensi, è il lavoro più duro al mondo, il più faticoso, spossante, ancor più di quello del minatore, sempre che ancora ce ne siano minatori che scendono a lavorare in miniera (ho letto che sempre più miniere vengono dismesse per esaurimento dei giacimenti o abbandonate perché l’attività estrattiva non è più conveniente), in ogni modo, se esiste ancora, per come si svolge e dove si svolge, quello del minatore non è proprio un lavoretto leggero, da signorine. Ciò nonostante, quello dello scrittore lo batte, in quanto a durezza.
    Mi spiego meglio su questo concetto del lavoro dello scrittore che è faticoso, più faticoso di quello di un minatore, assunto qui a emblema del lavoro pesante per antonomasia.
    Mettetevi comodi e seguitemi.
    Quando un minatore esce dalla miniera, supponiamo alle cinque del pomeriggio o giù di lì, dopo un turno massacrante, con la faccia sporca di carbone (se lavora in una miniera di carbone), sudato, il rumore del martello pneumatico che gli rimbomba ancora in testa, la bocca impastata di pulviscolo, i polmoni intossicati, insomma non appena fuori della miniera il minatore non pensa più al suo lavoro, pensa solo a riposarsi, a svagarsi, a bersi una birra in un pub con gli amici, molti dei quali sono dei minatori come lui, o mettersi in poltrona davanti al televisore per godersi un film in famiglia o da solo (se è un minatore single) o una partita di calcio o di tennis o quel che è. Il lavoro fan culo, se lo scorda, se lo butta alle spalle il minatore, almeno fino al mattino successivo, all’inizio del turno che gli compete.
    Figuriamoci se il minatore, una volta uscito dalla miniera, ha voglia di pensare al suo lavoro a dir poco sfibrante, alle gallerie anguste e umidicce, al fracasso insopportabile dei colpi sulle pareti dei cunicoli, attutito in parte dalla cuffia, allo sferragliare dei carrelli-trasportatori, alle urla dei colleghi e del capo-squadra.




    Raggiunta la superficie della miniera, a fine turno, il minatore ha un solo pensiero: soddisfare i propri bisogni elementari, cioè riposarsi, rifocillarsi, bere, distrarsi, e se ha ancora un briciolo di forza, senza aspettare il giorno canonico, ovvero il sabato o la domenica, usare il testosterone che gli rimane in corpo per fare all’amore con la fidanzata, la moglie, l’amante o, a seconda delle circostanze e delle preferenze, con una prostituta rimorchiata in strada.
    Terminato il lavoro, è a queste attività ricreative che si dedica il minatore. Non pensa a nient’altro. Non sta certo lì a rimuginare sul lavoro che ha svolto in miniera, a rodersi il fegato sulle ore trascorse sottoterra, dieci o venti piani giù, a tormentarsi sull’esperienza vissuta dentro le viscere della terra, nell’inferno rumoroso dell’attività estrattiva.
    Rivista la luce (come direbbe il poeta), la miniera non esiste più per il minatore, ne rimuove il ricordo, lo cancella; guai se qualcuno gli parla della miniera o si azzarda a nominargliela, anche solo per un attimo.
    Il minatore s’infuria, perde le staffe. Perché, fuori della miniera, la miniera evapora, si nullifica. Non c’è più.

    È il contrario di ciò che accade a uno scrittore. Qui sta la differenza fondamentale, profonda fra il lavoro del minatore e quello dello scrittore.
    Perché lo scrittore non smette mai di pensare al testo che sta scrivendo. Quando scrive è ossessionato, assorbito totalmente ventiquattr’ore su ventiquattro dalla sua scrittura, dalle parole che deve scegliere e mettere in fila, dalla struttura della narrazione, dal ritmo, dalle pause, dalla musica che le parole provocano, dalla sintassi, dalle pieghe imprevedibili che la storia inventata può prendere.
    Per quanto in molti ritengano inutile il lavoro dello scrittore (su questo, però, non mi pronuncio, sospendo il giudizio),(2) non di meno il presunto requisito dell’inutilità nel caso degli scrittori non attenua di un soffio la durezza del loro lavoro, anzi, per una sorta di contrappeso, ne fortifica ancor più la gravosità dello scrivere. Voglio dire che l’inutilità è un fattore che, invece di alleggerirla, aggrava la condizione disagevole e snervante del lavoro dello scrittore.
    Il racconto iniziato con una trama ben definita in testa, delineata il più delle volte nei minimi particolari, a un certo punto non è detto che resti tale, che proceda invariata, può al contrario cambiare rotta, mutare direzione, trasformarsi in un’altra cosa, d’improvviso la sua traiettoria può saltare da A a Z, un punto lontano, non previsto, non contemplato, tralasciando la sequenza lineare B, C, D, E, F, ecc., stabilita nel copione iniziale.
    Proviamo a riflettere. Lo scrittore va in bagno, prende un taxi, monta su un ascensore, cammina per strada, legge un quotidiano, conversa con un amico, guarda un tramonto al mare d’estate, entra in un ufficio postale per pagare una bolletta della luce (perché non ha attivato il pagamento on line), risponde al telefono, viaggia su un treno veloce in mezzo alla campagna, prepara la pappa al gatto: ciò nonostante, in barba alla dinamica di queste semplici azioni, mentre le sta compiendo, lo scrittore pensa sempre al testo che sta scrivendo, a una correzione che lo intriga, a un aggettivo che non suona bene. allo spostamento di una virgola.
    A differenza del nostro minatore, che non pensa più alla miniera una volta che l’ha lasciata a fine turno, lo scrittore non si dà mai pace, è sempre in uno stato di allerta, di agitazione perenne.
    Anche quando lo scrittore si concede una pausa, prende un caffè o un whisky, allo stesso tempo continua sempre a pensare al testo che ha lasciato sullo schermo del computer o sulla pagina bianca (se scrive a mano). Non c’è un momento, un secondo, un solo istante, un batter d’occhio in cui lo scrittore non pensi al suo testo, non ce l’abbia ben visibile davanti a sé, non gli frulli in testa, non lo senta come un organo interno del suo corpo, quasi disturbante, ostile (in alcuni momenti – può apparire una contraddizione – lo scrittore finisce per odiare il proprio testo, perché lo fa soffrire).
    Lo scrittore non è in condizione di cancellare, di rimuovere il testo a cui sta lavorando, come il minatore fa con la miniera. Il testo è sempre presente nella mente dello scrittore, non lo abbandona mai. È una sorta di ombra fatta di parole, che lo affianca e lo sfianca, lo affligge di continuo e gli rende le notti insonni.
    È questo, in fin dei conti, che fa sì che il lavoro dello scrittore sia da ritenersi più duro, molto più duro di quello del minatore.
    Ogni elemento, anche il più piccolo, il più trascurabile, di un testo letterario tiene in apprensione uno scrittore, lo assilla, rendendogli dura la vita.
    Quando l’editore Gervais Charpentier, direttore della «Revue Nationale», in cui sono apparsi due suoi «poémes en prose» (Les tentations e La Belle Dorothée), si prende la libertà di apportare indebite modifiche e di sopprimere una virgola, Charles Baudelaire, in una lettera del 20 giugno 1863, gli scrive infuriato: «Le avevo detto: sopprima tutto un brano, se non le piace una virgola nel brano, ma non sopprima la virgola; essa ha una sua ragione d’essere». Per decidere se quella virgola fosse necessaria il poeta, che ha «passato la vita intera a imparare a costruire frasi», ha riflettuto molto tempo.
    Molto tempo, capite, per una virgola! Il tormento di Baudelaire di fronte all’opportunità di mettere o non mettere quella virgola si protrae per molto tempo, ore e ore, giorni e notti, implacabile come la lama di un’affettatrice. Martellante.
    Ora spero vi sia chiaro cosa intendo quando mi sbilancio e affermo contro ogni tenace apparenza che il lavoro dello scrittore è più duro di quello di un minatore.



Note

(1) Fëdor Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Milano 2020, p. 826.
(2) Mi riferisco, ad esempio, al libro di Ermanno Cavazzoni, Gli scrittori inutili, Feltrinelli, Milano 2002.

novembre 2024

___________________________

Per la versione pdf di questo raccontino cliccate qui.

_________________________________________

Per andare o tornare al menu
dei miei raccontini del mese cliccate qui.

 


HOME  PAGE     TèCHNE    RACCONTI     POESIA VISIVA

ENCICLOPEDIE  BIZZARRE    ESERCIZI  RICREATIVI     NEWS